Ho trovato il testo che
segue nella rivista on-line, definita “menabò” della
Associazione Etica ed Economia fondata da Luciano barca
(https://www.eticaeconomia.it/).
Francesco Benigno vi illustra le tesi principali contenute nel suo
libro, La Mala Setta. Alle
origini di mafia e camorra 1859-1878, Einaudi 2015.
Il libro mi era sfuggito
e non posso valutarne l'interesse e la qualità. Mi pare convincente
e degna di verifica la tesi principale esposta dall'autore, quella
secondo cui le origini di mafia e camorra vanno collocate non fuori
né contro il processo di costruzione dell’ordine pubblico del
nascente stato italiano ma dentro il suo perimetro; in connessione
cioè con la maniera di utilizzare i criminali per combattere i
sovversivi e per difendere il regime politico. Allo stesso modo trovo
persuasive le novità metodologiche che questo approccio comporta. Se
non costa troppo comprerò il libro e verificherò quanto l'autore
abbia rispettato le premesse e mantenuto le “promesse”. (S.L.L.)
Giovanni Grasso (a destra) interpreta "Li mafiusi di la Vicaria" |
Ci sono libri che si
dedicano ad aggiungere elementi conoscitivi ad un quadro già noto e
libri che puntano a riconfigurare un problema.
La mala setta ha l’ambizione di appartenere alla seconda
categoria, presumendo di fornire elementi per una lettura
completamente diversa delle origini della criminalità organizzata
italiana. La mia ricerca è consistita in una presa di distanze dal
modello prevalente nella storiografia su quei fenomeni indicati come
mafia e camorra, che immagina queste organizzazioni
germinantesi spontaneamente e autonomamente, in un tempo imprecisato
e talora risalente ad epoche immemoriali, in qualche recondito
anfratto dei quartieri popolari di Napoli o Palermo. Al contrario il
libro dimostra come il crimine organizzato si formi entro e non fuori
le strutture e le pratiche – poliziesche e giudiziarie – con cui
il nuovo stato unitario, nel suo primo ventennio di vita, organizza
l’ordine pubblico. Invece che immaginare mafia e camorra come due
piante selvagge, difficili da sradicare, e contro le quali le
strutture statuali ingaggiano una difficile opera di bonifica, la
mala setta le vede nascere in un giardino coltivato, a stretto
contatto con le attività del giardiniere, ovverossia dello stato.
Ciò detto la mia ricerca
ha puntato a chiarire i due termini fondamentali del problema
trattato, vale a dire il concetto di ordine pubblico da un lato e
quello di crimine organizzato dall’altro. Ho tentato di mettere in
luce come l’uno e l’altro vadano concepiti secondo le idee
dell’epoca e non secondo le nostre, valorizzando la categoria di
«classi pericolose». Ne è venuta una ricostruzione che, come si
vedrà, poggia su due aspetti fondamentali: da una parte la
dipendenza delle concezioni e delle pratiche di ordine pubblico dalla
politica e dalle sue urgenze; dall’altra il ruolo dell’immaginario,
all’epoca prevalentemente letterario, nel delineare l’immagine
dell’organizzazione criminale, della «mala setta».
Il punto di partenza del
ragionamento è che attorno alla metà dell’Ottocento l’ordine
pubblico era qualcosa di diverso da quello che noi oggi indichiamo
con quel termine, intendendo la messa in sicurezza della vita e dei
beni dei cittadini. In quel tempo ciò che si puntava a mettere in
sicurezza era anzitutto l’ordine politico, minacciato dalla
presenza delle cosiddette classi pericolose, vale a dire di
strati popolari che, avendo una consuetudine «criminale» con l’uso
delle armi, erano le più adatte ad essere utilizzate a chi avesse la
finalità di sovvertire il regime esistente.
L’idea delle classi
pericolose, destinata ad esercitare una grande influenza sul
discorso sociale otto-novecentesco, sorge e si diffonde negli anni
venti del XIX secolo in Inghilterra e in Francia; dove essa viene
delineata attraverso la rappresentazione di un «popolo a sé
stante», quello criminale, dotato romanticamente (come tutti i
popoli) di costumi, moralità, forme di sociabilità e credenze
proprie, oltreché di una lingua caratteristica: l’argot.
Poi, certo, oltre le
rappresentazioni, ci sono le pratiche, soprattutto quelle attivate
dai soggetti adibiti alla repressione del crimine, poliziotti e
magistrati. Esiste un mondo marginale, collocato per così dire tra
politica e crimine, e tuttavia cruciale, frequentato da cospiratori e
da uomini «pericolosi» e, insieme a loro, da tutti coloro che sono
incaricati di sorvegliarli e di reprimerli: spie, indicateurs,
agenti provocatori.
In Francia, la cosiddetta
haute police, la polizia politica, aveva messo a punto un
sistema di controlli e di manipolazioni ispirato all’aurea regola
di assoldare criminali per combattere altri criminali o come usava
dire, costruire l’ordine mediante il disordine, servirsi dei
criminali per sorvegliare e contrastare i criminali più pericolosi,
che erano naturalmente i criminali «politici».
Sulla scorta di queste
considerazioni, ne La mala setta ho utilizzato la categoria di
classi pericolose – per affrontare la questione delle
origini del crimine organizzato italiano. Va da sé che
quest’impostazione è diversa da quella prospettiva, generalmente
adottata, che punta viceversa a studiare il crimine organizzato
ottocentesco, per così dire, «dall’oggi», e cioè a partire
dalle forme e dalle strutture che la criminalità organizzata si è
data durante il secondo dopoguerra. Il rischio, evidente, è quello
di relegare così i criminali in una dimensione separata, differente
e contrapposta a quella del resto della società: intesa la prima
come scarsamente permeabile dal mutamento e imperniata su modelli
fissi di riconoscimento; a differenza della seconda, soggetta invece
al divenire, al mutamento, all’evoluzione o alla regressione, in
una parola, alla storia.
L’adozione del modello
delle «classi pericolose» consente invece di muoversi in direzione
opposta, basandosi sulla concezione del crimine condivisa in un tempo
dato. É questa un’impostazione che rinuncia ad utilizzare il
futuro per «illuminare», se così si può dire, il passato; un
futuro che evidentemente non era nelle disponibilità conoscitive
degli attori storici e che essi non avrebbero saputo né prevedere né
comprendere.
Tutto ciò ha conseguenze
importanti. Una prospettiva del genere obbliga a riunire ciò che è
stato artificialmente separato, vale a dire l’indagine sulla
camorra a quella sulla mafia e anche a quella sulla
presenza, soprattutto nelle Romagne, di non meglio identificati
«malfattori», chiamati anche «accoltellatori» o «pugnalatori».
Occorre seguire in parallelo avvenimenti che nella sensibilità dei
contemporanei erano connessi e che troppo spesso si continuano ad
analizzare come separati o ad ignorare.
Vi è infine il bisogno
di uscire da una certa concezione restrittiva della storia del
crimine come storia sociale intesa alla vecchia maniera, vale a dire
mettendo da canto la storia politica. Per come si è cercato qui di
definirlo, il paradigma delle «classi pericolose» è invece
anzitutto un paradigma di acculturazione che esprime una sorta di
apprendistato alla politica da parte di settori dell’universo
popolare tradizionalmente emarginati o esclusi dalla partecipazione
ad essa; e in virtù di quell’identificazione tra culture eversive
e pratiche criminali di cui si è detto, si tratta anche di
un’acculturazione criminale, di un apprendistato alla
organizzazione del crimine secondo i moduli settari della cultura del
tempo.
Qui entra in campo
l’immaginario dell’epoca, essenzialmente letterario. Il discorso
pubblico sul crimine organizzato si presenta con moduli discorsivi
presi pari pari dalla letteratura. Si ha così a che fare con
rappresentazioni che dipendono solo in parte, e talora in minima
parte, dall’esperienza diretta, ma che si basano invece su schemi
narrativi reiterati, luoghi comuni racchiusi nei testi precedenti.
Questo anche nel caso di testi scritti da poliziotti e funzionari
governativi.
Il rapporto che i
discorsi sul crimine organizzato intrattengono con i propri oggetti,
con il brulicante e indefinito universo dei reati, è cioè mediato,
indiretto, simile a quello sviluppato dalla letteratura di viaggio
con i propri paesaggi naturali e umani: luoghi (ma anche figure,
comportamenti, usanze) che vengono desunti e filtrati dalla
tradizione dei discorsi preesistenti (quando non brutalmente dai
topoi che essa nutre) ben più che dall’osservazione attenta
e curiosa, e per così dire «in presa diretta», del mondo.
Si tratta, in altre
parole, di rappresentazioni che rispondono a una propria logica
interna e che intrattengono con la realtà «della strada», una
relazione obliqua. L’osservatore o l’interprete si trovano così
di fronte ad una scelta dirimente. O scremarli, eliminando tutte
quelle affermazioni che appaiono improbabili o fantastiche (ma
rischiando così di scartare quelle estranee ad un canone adottato
posteriormente) e mantenendo invece quelle più «realistiche», ed è
la posizione della abituale letteratura sul tema. Oppure – ed è
stata la scelta di questo libro – rinunziare a prestabilire una
gerarchia delle fonti basata su criteri definiti oggi, approfondendo
viceversa quella confusione semantica che fa della camorra insieme
una setta criminale, una prassi di potere incentrata sulla clientela,
un’organizzazione dedita all’estorsione e una metafora di ogni
abuso o soperchieria; o della mafia, similmente, una società segreta
occulta e temibile, un certo modo di intendere l’essere criminali,
una forma acuta di prepotenza e una disposizione «tremendamente
insulare» dell’animo, caratterizzata da un sentimento eccessivo
della propria superiorità.
Considerare i discorsi
sul crimine nella loro interezza, e affrontarli contestualmente agli
altri discorsi affioranti nell’arena pubblica, non vuol dire però
perdersi in un gioco linguistico in cui la concretezza della carne
dolente e del sangue versato sfuma in un aereo e irresponsabile
universo linguistico. Significa invece considerare i processi
d’identificazione, di repressione e di naturalizzazione (e/o
folklorizzazione) come processi reali, produttivi di effetti
concreti, che, separati concettualmente, sono tuttavia mescolati e
confusi nei registri discorsivi e nelle prassi (poliziesche,
giudiziarie, amministrative) che segnano, talora drammaticamente, la
vita degli attori storici.
Le conseguenze di un
approccio di questo tipo, qui sommariamente tratteggiato, hanno per
così dire un effetto liberatorio. I discorsi sulla mala setta
pronunciati nel primo ventennio unitario, una volta sganciati
dall’ipoteca del futuro, vale a dire dall’idea per cui, ad
esempio, ogni richiamo ad una fantomatica setta chiamata maffia
o mafia faccia riferimento ad una realtà per definizione già
esistente (corrispondente magari all’immagine retrodatata di ciò
che sarà un giorno «Cosa nostra»), sono stati assunti per quello
che volta a volta sono stati: non solo semplici descrizioni o mere
analisi ragionate, ma anche preoccupati avvisi, allarmati imperativi,
severe ingiunzioni, scoperti avvertimenti, infervorati interventi, e
così via; i risultati della ricerca suggeriscono insomma l’idea,
forse non immediatamente ovvia, che evocare una setta criminale abbia
avuto in quegli anni un valore non meramente denotativo, cioè un
significato letterale, ma connotativo in senso lato: legato ad una
dimensione metaforica, emotiva, suggestiva, volta a produrre effetti
sullo spazio pubblico e che perciò può dirsi intimamente poietica;
destinata cioè a influenzare l’opinione pubblica e le prassi che
presidiano la gestione della sicurezza. Di più, che essa sia
strettamente dipendente dalla visione generale, essenzialmente
letteraria, che in quel tempo si possedeva su cosa fosse una setta:
una visione perciò da un lato strettamente legata alla tradizione
discorsiva che l’aveva informata e che ne consentiva la
riproposizione e dall’altro al suo uso politico pubblico.
Che non possa che essere
così è evidente se si paragonano gli studi sul crimine organizzato
alle ricerche su altre forme di società segrete, come ad esempio la
massoneria. Nessuno pretenderebbe di studiare i massoni ottocenteschi
(ma anche novecenteschi) come se fossero «solo» massoni: e non
anche, per dire, patrioti, avvocati, socialisti, proprietari terrieri
e membri di associazioni dedite vuoi alla filantropia vuoi allo
spiritismo. Lo steso, mutatis mutandis, dovrebbe valere per lo
studio di mafiosi, camorristi e malfattori del XIX secolo: che non
saranno stati certo tutti internazionalisti – come il ministro
dell’Interno Nicotera strumentalmente aveva affermato in parlamento
– ma che di sicuro non vivevano in un mondo separato e immaginario,
dal cui humus criminogeno sarebbero autonomamente e misteriosamente
germinati.
EticaEconomia, Menabò, 1
febbraio 2016
Nessun commento:
Posta un commento