La Seconda armata
dell’esercito italiano, comandata da Capello, forte di centinaia di
migliaia di uomini subisce il 24 ottobre 1917, a Caporetto,
un'infiltrazione nemica, in poche ore l’infiltrazione si trasforma
in sfondamento e penetrazione profonda delle truppe austro-ungariche,
rinforzate da contingenti tedeschi, dentro le linee italiane. In
pochi giorni queste vengono scompaginate; isolati interi reparti;
tagliata fuori della lotta l’artiglieria; resi affannosi e a volte
inesistenti i rapporti gerarchici tra comando e comando e tra comandi
e unità operative; frantumate nell’aneddotica spicciola le
operazioni di difesa; posto in crisi tutto lo schieramento italiano
dalla Bainsizza al Carso. Mentre lo sbandamento organizzativo e
psicologico aumenta e si trasforma in rotta, con centinaia di
migliaia di uomini che gettano le armi, il generalissimo Cadorna, per
evitare il peggio, ordina la ritirata — prima sulla linea del
Tagliamento, poi ancora più indietro, sulla linea del Piave —
anche a quei reparti che avevano tenuto le posizioni. Nel contempo:
30 ottobre, crisi di governo a Roma, Orlando sostituisce Boselli. 6
novembre, esonero di Cadorna dal comando in capo. E in conclusione,
tra ottobre e novembre: 11.600 morti (seconda armata); 22.000 feriti;
300.000 prigionieri; 300 mila sbandati; oltre 3.000 cannoni perduti.
Un disastro. Su questo,
per le sue proporzioni materiali, tutti d’accordo, e da subito:
militari, politici, storici. Ma le cause? Qui Caporetto-fatto e
Caporetto-interpretazione (una, due, varie interpretazioni) si
intrecciano. E parte — dentro e dopo la guerra — la lotta delle
versioni narrative, che accumula «fatti» di secondo grado su fatti
di primo grado, di cui nessuno o quasi sa peraltro nulla di preciso e
di organico.
Quali sono oggi, dopo
oltre mezzo secolo di dibattito — con accelerazioni politiche e
altrettanto politiche pause di silenzio — le conclusioni degli
storici? Tra i due corni del dilemma — cause «militari» o cause
«politiche»? — gli studi sono concordi nella scelta della
spiegazione più riduttiva: cioè nel considerare pressoché
definitivamente comprovata come causa scatenante della rotta una
serie di circostanze militari: alcuni aspetti tattici nuovi nella
preparazione ed esecuzione dell'’azione da parte austro-tedesca;
errori tattici e strategici da parte dei comandi italiani.
Ma la politica, espulsa
dalla porte, rientra subito dalla finestra. «Caporetto si configura
come una sconfitta essenzialmente militare, anche se tutte le cause
di debolezza dello schieramento italiano discendono dall’impostazione
politica», scrive Rochat nella sua felice sintesi dei «Problemi di
interpretazione e prospettive di ricerca» su L’Italia nella
prima guerra mondiale: lo schieramento italiano era infatti
«offensivo» per ragioni politiche, cioè per gli scopi attribuiti
alla guerra dalla classe dirigente politico-militare che l’aveva
indetta e la conduceva; politiche, l’ignoranza e la noncuranza dei
sentimenti delle masse, condotte al macello nella presunzione che
sono le minoranze eroiche a fare la storia e che a garantire
l’ubbidienza degli altri basta la somma di rassegnazione e
repressione; politica, infine, la gestione — quella gestione —
dell’esercito e del paese. Caporetto è il fulmineo flash
dell’estraneità proletaria.
Quello su cui le
possibilità di ulteriore documentazione e discussione restano
apertissime, sono le condizioni sociali e i motivi storici di fondo
per cui il circoscritto evento militare della penetrazione
austro-tedesca entro le linee italiane in un punto del fronte è in
grado di innescare la catastrofica concatenazione di eventi
disgreganti che chiamiamo, appunto, Caporetto: non tanto, dunque, è
in discussione il livello organizzato, quanto quello spontaneo
dell’insubordinazione, della disaffezione e dell’assenteismo.
L’antidoto immediato è «la rinuncia alla strategia offensivistica
e l’avvento di una nuova direzione delle operazioni rigorosamente
difensiva (...): una precisa scelta politica, che nasceva dalla presa
di coscienza dei limiti di efficienza e di coesione dell’esercito
italiano». (Rochat).
Resta in piedi il nodo
dell’autorità e del consenso, di ciò che garantisce l’ubbidienza
delle masse: ecco la questione di Caporetto, per l’immediato e per
il futuro.
“la Repubblica”, 23
ottobre 1977
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