Ho
comprato La penombra mentale,
un vecchio libro che raccoglie interviste e conversazioni con Giorgio
Manganelli, svolte nell'arco di 25, dal 1965 al 1990. L'ho sfogliato
e ho subito goduto e postato la scoppiettante intervista di Camilla
Cederna. Scommetto che ci sarà molto da leggere. (S.L.L.)
In
questi giorni va in libreria Amore
di Giorgio Manganelli. È uno dei suoi libri più misteriosi, un
altissimo esercizio di stile, un seguito ininterrotto di paradossi,
la summa dell’amore. Il suo significato? La nullificazione
dell’amore, è impossibile amare, l’amore non è ragione,
l’oggetto d’amore è imprendibile, irraggiungibile, invisibile,
si può amare una cosa inesistente. Nessuno consegue ciò che ama,
l’amore è inseguirsi e negarsi, è spasimo, cruccio, sfinimento,
l’amore è morte e decomposizione.
Mutano
gli scenari: la foresta complice, il palazzo d’acqua, la quercia
oracolare, la funebre brughiera, la grotta gelida e nebbiosa, il
deposito di teschi e cuori trafitti, la casa delirante che si
allontana, ed ecco la fine: «Lo sai dunque che questa è la
descrizione del nostro amore, che io non sia mai dove sei tu, e tu
non sia mai dove sono io?».
Manganelli
mi sta davanti nella sua accattivante polposità. Confessa di provare
ansia in attesa delle domande, e chiede di poter passeggiare per la
stanza, di bere un sorso di tè, finché si calma del tutto, mai
un’espressione perplessa o rammaricata, mai più un’ombra
d’allarme sul viso, spesso quel suo speciale, ironico, enigmatico
sorriso.
Secondo
te esiste l’amore o è cosa imprendibile, irraggiungibile,
invisibile?
«Non
sono posizioni contraddittorie: può darsi che sia irraggiungibile e
imprendibile. Se alludi al mio libro, qualunque cosa si può scrivere
intorno a una parola, sullo pterodattilo, lo yeti, il dodo
(un’animale scomparso), lo snark (che non esiste, ma su cui Lewis
Carroll ha scritto, un poemetto). Il mio è un libercolo didascalico,
come un libro sulla vita delle api o delle mucche. La parola amore
può indicare amore sacro, profano, degradato, degradante,
salvifico,
beatricioso, dannato, velenoso, mendicante, protettivo, infame,
materno, goffo, diffidente, desolato, premessa di abbandono,
allucinatorio. E la parola che vuol dire di più e di meno.»
Si
può amare una cosa inesistente?
«Soltanto.»
Quando
hai amato per la prima volta?
«Nel
quarto mese di gravidanza. Amando la madre, ho avuto il mio sano
allevamento edipico: se no, non potrei essere nevrotico e isterico
come sono.»
Che
importanza ha l’amore nella tua vita?
«L’amore
è un eccellente combustibile per alimentare il malessere che può
condurre alla letteratura. È importante, estremamente utile che
l’amore vada male. L’amore è la più importante matrice di
menzogna, e la menzogna la più grande matrice di mondi. E la
condizione che ci incita a creare la menzogna. La letteratura è
menzogna.»
Hai
mai amato un uomo?
«Se
l’amore è riportato al valore di “eros” nel significato greco,
sì. Sono stato coinvolto in molte situazioni di eros per esempio nei
rapporti fra maestro e allievo. Il cattivo maestro che ignora l’eros
non insegna nulla. Il buon maestro è l’innescatore di una
condizione dell’eros. E il grande universo dell’eros che ci lega
ad animali, nomini e donne. Non c’è momento meno sessuato
dell’eros che nell’amore sessuale. Il momento dell’accoppiamento
è il momento dell’abbandono del sesso. Il rapporto dell’eros è
il rapporto che non distingue uomo e donna. O c’è condizione di
eros o c’è condizione di rapporto pubblico, convenzionale, un
rapporto che ti passa lo Stato. Certi matrimoni diventano un rapporto
che ti passa lo Stato, e poi si disfano. L’eros è vero in quanto
errore.»
Hai
amici che ami e chi sono?
«La
zona dell’eros, cioè dell’errore, è zona dove i nomi non
esistono (anche i nomi appartengono allo Stato). Ho amici molto
importanti, anche senza connotazione sessuale. L’esistenza di un
altro è sempre un’apparizione, un doppio, un’allucinazione.»
Quale
tuo amore passato preferisci ricordare o dimenticare?
«Non
è compito della volontà rimuovere e dimenticare. Noi siamo
costantemente abitati da quanto ci è accaduto. Mi piace pensare a me
stesso e a tutti come a un solaio. Un solaio in cui stanno cose che
sono a parte ma indispensabili, non accadono ma stanno. Non scelgo di
ricordare niente, ma sono ricordato dagli oggetti che mi abitano.»
Ami
mangiar bene?
«Col
cibo ho un rapporto molto simbolico e certo imparentato con l’eros.
Un rapporto cerimoniale, psicologicamente molto complesso. Tutto ha
importanza: le persone, il ritmo, il ruolo, il tipo di rapporto con
chi mangia con me. Un amore che sta decomponendosi tra due
commensali, infetta qualsiasi cibo. Detesto la musica di fondo dei
ristoranti: cambia il gusto dei cibi, come vedere la cipria sulla
bistecca. A tavola amo soprattutto il peperoncino. Più che altro è
una componente della mia vita, è un peyote laico, un ansiolitico. Su
qualunque cosa lo metto. Mi dà un ruvido, contadino, bertoldesco
benessere. Una strana, anche ironica magica vitalità. Davanti al
peperoncino l’ansia si ritira come i vampiri davanti all’aglio.»
(A
questo punto si telefona al ristorante già fissato per chiedere se
hanno il peperoncino. Certamente: secco, macerato, nell’olio, in
salse varie: e allora si conferma).
Che
canzoni ami?
«Nessuna.»
Ami
la Tv?
«Non
la possiedo.»
Ami
la musica?
«Meno
l’opera della musica da camera. Passo dei lunghi momenti
schubertiani: i Lieder, almeno due sinfonie. L’andantino di una
delle ultime sonate postume è addirittura sconvolgente. I trii di
Schubert possono far star male come certe sonate di Beethoven. Amo
l’Ottetto di Mendelssohn, i giochi di silenzi di Webern, i fiati di
Weber. Amo i quartetti di Mozart dedicati a Haydn. Haydn ha un suo
gioco più secco, meno accattivante di Mozart.
Due
elementi mi affascinano nella musica: 1) che alla musica nessuno
chiede cosa vuol dire; 2) che la sua rigorosissima struttura retorica
ha delle sue strutture interne geometriche, matematiche, che
escludono che la musica possa essere pronuba di sentimenti. Amo la
figura della “variazione”, cioè la possibilità di avere uno
schema e di alterarlo lasciandolo identico. Un privilegio che la
letteratura ha vissuto: il petrarchismo si muove nell’ambito di una
coscienza geometrica, un esempio della quale è la variazione.»
Ami
i romanzi autobiografici?
«Non
c’è niente di più basso del romanzo autobiografico. C’è un
momento drammatico nello scrivere, che è il momento
dell’indifferenza. (Il lavoro del Petrarca è il lavoro
dell’abrasione dell’io). Mentre il parlare d’amore esclude
l’amore come passione (Privat-sache). Non ci può essere
l’indifferenza nel romanzo autobiografico. Si sgretola, non esiste
più. Proust è l’esempio di tale uccisione di tutto quello che è
accaduto nella sua vita.»
Che
scrittori ami?
«Così,
alla rinfusa, Emily Dickinson (poesie e lettere), Fielding (Tom
Jones), De Foe (Moll
Flanders, stupendo). Ho
convissuto con Dickens per quasi un anno. Ho letto tutti i suoi
romanzi, e poi straordinari pezzi di giornalismo. Per esempio quando
va a visitare la Morgue di Parigi, e viene deglutito dal fascino del
cadavere di un annegato. E un pezzo di un’allegria sfrenata, di
un’ilarità isterica. Dickens è una figura molto torbida e sadica,
è il caso più allucinante di uso rovesciato del sentimento.»
Ami
i viaggi?
«Ho
con loro un rapporto complesso. Una delle connotazioni necessarie al
viaggio è il suo fallimento. Per molti anni non mi sono mai mosso,
poi sono stato in India, Malesia, Cina, Kenia, Tanzania, Etiopia.
L’Islanda è stato uno dei viaggi più eccitanti: un afflusso
enorme di stemmi, di figure segnaletiche, di che cosa non si sa. Ma
sono sempre impaurito dai viaggi, mi danno angoscia.»
Ami
Milano?
«Sono
nato a Milano e mi sono autodeportato a Roma nel ’50. Ero stato
preso da un’incompatibilità affettiva col grigiore di Milano.»
Ami
il teatro?
«Mi
interessa più leggerlo che vederlo. Il teatro inglese lo trovo
affascinante anche nella lettura. Dappertutto scintille di eros.»
Ami
D'Annunzio?
«Sì.
Recentemente ho letto La contemplazione della morte,
dove parla di poesia come di “magia tecnica” e dice cose egregie
su Pascoli.»
Ami
Pascoli?
«Pascoli
l’ho amato, l’ho detestato, oggi il rapporto con lui è un po’
sgarbato. E uno che si lascia sedurre. Gli manca una certa quantità
di cinismo, di gelo.»
Ami
Venezia?
«No,
è una patacca culturale. Una città di una bellezza cosi insensata è
ora diventata una moneta falsa.»
Quale
parola ami?
«Sono
invaghito di “uligine”: mi rifiuto di spiegarla» [naturale
umidità del terreno, n.d.r.].
Ami
gli animali?
«Ci
si saluta con un cenno quando c’incontriamo. Ho un rapporto civile,
discreto, coi gatti. Amo molto l’animale quando prende su di sé la
funzione di stemma, come la zebra e il canguro.»
Ami
te stesso?
«No.»
“la
Repubblica”, 28/3/1981 – ora in Giorgio
Manganelli, La penombra mentale, Editori
Riuniti 2001
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