César Vallejo |
Tungsteno, carburo di
tungsteno, e derivati, essenziali per l’industria pesante civile e
militare, per i filamenti delle lampade a incandescenza, per le
valvole termoioniche, per gli elettrodi, utili per la lavorazione di
altri metalli e materiali, rilevanti anche nell’estrazione
petrolifera eccetera. Siamo nel 1917; gli Stati Uniti si stanno
preparando a entrare in guerra. Nelle zone minerarie delle Ande
peruviane, dipartimento di Cuzco, gli yankee della Mining Society
hanno un sempre maggiore bisogno di manodopera per incrementare i
quantitativi di minerale da estrarre e inviare in patria. Tungsteno
di Vallejo (Sur, Roma, traduzione di F. Verde, 2015), un fulminante
romanzo-teatrale in tre quadri, è la cronaca-denuncia della
crescente pressione del capitale sulle comunità locali, indios e
cholos, e l’amara fotografia di uno sfruttamento politico,
economico, sempre più duro. Grandissimo poeta, Vallejo affida a
questo suo unico romanzo - un capolavoro - il compito di svelare un
processo totale e impressionante di genocidio antropologico e lo fa
raccontando una fine del mondo, del suo mondo.
Scrive contro il potere,
Vallejo, ma senza ideologia, con estrema attenzione, quasi con
pietas. Niente invettive gridate, niente lamenti. Gli yankee restano,
il più delle volte, sullo sfondo. Quello che Vallejo coglie e denuda
con più nitida coscienza sono le forme intermedie dell'oppressione,
il ruolo
decisivo e osceno - dei
complici locali, dei «notabili» del Paese, dei mediatori. Il primo,
impressionante, «quadro» di Tungsteno è il racconto di uno
stupro di gruppo, sino alla morte. In quella stanza, oltre a Weiss e
Taick, i “padroni” gringos, ci sono tutti: il commissario,
l’ingegnere e il professore, i negozianti. Gli stessi volti, più
altri ugualmente indecenti, ugualmente torvi, tornano nel quadro
secondo, quando inizia l’arruolamento forzato degli indios per le
miniere. La protesta dei poveri finisce in una strage; sparano tutti:
sottoprefetto, sindaco, giudice, medico, segretari comunali, persino
il parroco.
Negli anni Trenta - il
libro viene pubblicato non in Perù ma in Spagna nel 32 - questo
modello di «arte proletaria» era importante. Vallejo, Brecht,
Majakovsky e Piscator, la Seghers, Gor’kij, il misterioso B. Traven
(con le sue storie di indios messicani), Ischerwood, Auden. Poi quel
modello è stato criticato, o messo da parte, ma i tempi mutano e fa
impressione rileggere oggi un romanzo secco, lineare ma non ingenuo o
facile, come Tungsteno. Vallejo non era manicheo, lo era il
suo mondo. Lo è anche il nostro. Deve esserci come una curva nel
tempo, o una parabola, ma sta di fatto che nel nostro presente -
globalizzato, anzi: delocalizzato - questo scarto tra il centro
dell’impero e il resto, i margini, è tornato ad accentuarsi, con
evidenza. Mentre il divario tra ricchi e poveri assume aspetti e
volti e forme da Ottocento, il «tallone di ferro» dello
sfruttamento raggiunge punte massime e paurose in questi territori
immensi di miseria. L’esercito di riserva del capitalismo oggi sono
le factory schiavistiche del vasto e muto Oriente, in India,
in Cina, queste penitenziali galere delle grandi marche. Vallejo,
ovvio, scriveva dei suoi tempi, per sabotarli. Siamo costretti a
leggerlo come se scrivesse dei nostri, e contro i nostri.
“Il Sole 24 ore –
Domenica”, 1 marzo 2015
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