Il secolo s’era
teatralmente aperto nel 1701, allorché Saverio Pansuti (autore
dell’Orazia, del Seiano e ancora di Sofonisba,
Virginia e Bruto, tragedie che per struttura classicheggiante.
impianto e negazione della scena s’affiancavano a quelle del
Gravina e del. Marchese o a quelle peggiori e più tarde del Sarcone)
era salito su una botte ad arringare il popolo in piazza Mercato,
palcoscenico sopraelevato come quei banchi di pescivendoli, nella
stessa piazza, sui quali l’immaginazione di Nicola Corvo,
commediografo e librettista, a metà del Settecento, volle far
montare il capopopolo Masaniello, in una ricostruzione poetica
tuttora rimasta inedita della secentesca rivoluzione. La scena, così,
in senso proprio o metaforico, diveniva termine medio fra le realtà,
fra gli avvenimenti, fra le classi cittadine, e tutto si trasformava
in essa, persino le panche di fortuna all’aperto, in strada, sulle
quali riposavano centinaia di poveri disgraziati, senza alloggio,
detti «banchieri», amaro e stabile palcoscenico della più
squallida miseria e degradazione. E se il termine «banchieri» col
quale si designavano i senzatetto non consentisse un immediato rinvio
al teatro, è necessario ricordare che con lo stesso termine, in una
sede eminentemente spettacolare, venivano indicati i cantastorie che,
per lo più sul Molo, allineavano le panche in attesa degli
ascoltatori cui raccontare le gesta di Orlando, Rinaldo, Buovo e
Palmerindo.
Ed è emblematico che
proprio nello specifico teatrale il secolo si aprisse sotto il segno
dell’attesa, della pratica sociale del teatro come esigenza
indifferibile di mediazione appunto: per la morte di Carlo II di
Spagna ed il precipitare degli avvenimenti internazionali, i teatri
cittadini erano stati chiusi senza scoraggiare o dissuadere nessuno
dall’inventarsi l’alternativa: nel Largo del Castello teatrini
dei pupi mettevano in scena spettacoli melodrammatici appositamente
scritti (La donna sempre s’appiglia al peggio, di Carlo De
Petris, su musiche di Tommaso de Mauro) e mentre dietro il «casotto»
virtuosi ed orchestrali eseguivano arie e recitativi e i pupanti
manovravano nascosti, davanti al boccascena s’accalcava gran
concorso di spettatori nobili e meno nobili, borghesi e popolani. Con
significativo cambiamento di logica, a chiusura dello stesso secolo,
nel 1799, durante i moti napoletani, i teatri rimasero aperti,
programmando spettacoli che confusamente tentavano di adeguarsi allo
spirito rivoluzionario attraverso il capovolgimento dei contenuti
celebrativi (il Nica-boro in Yucatán, che si dava già al San
Carlo a celebrazione di Ferdinando IV, si continuò a dare per
solennizzarne la fuga) o l’esaltazione di figure protagonistiche o
eroicamente esemplari (furono dati l'Aristodemo del Monti, e
Catone in Utica e Virginia e il Timoleone): era
questo, forse, il livello, l’unico possibile, degli intendimenti
pedagogici nuovi, strettamente legati com’erano ad una dimensione e
concezione plutarchea della vita, tipica già d’un Filangieri e dei
fratelli Francescantonio e Domenico Grimaldi. A copertura della nuova
realtà s’innalzarono sul fronte del San Carlo e del Fondo, cioè
dei Reali Teatri, le nuove più adeguate denominazioni: Teatro
Nazionale per il primo, per il secondo Teatro Patriottico. Il
segnalato cambiamento di nome dei Reali Teatri s’inseriva in una
rivisitata toponomastica cittadina, a trasformazione della scena
urbana in scena rivoluzionaria: Cantone di Sannazaro (già Chiaia),
Cantone del Monte Libero (già Antignano), Cantone di Colle Giannone
(già Due Porte), Cantone dell’Umanità (già Serraglio, con asilo
del poveri), Cantone del Sebeto (già Palude), Cantone di Masaniello
(già Mercato). E tuttavia si trattava di una conquista per il teatro
che, nuovo depositario di una funzione pedagogica, si scopriva
oggetto d’una attenzione politica e d’una analisi inedite. Il
Conforti, nel “Monitore napoletano” n. 12, del 22 ventoso,
corrispondente al 12 marzo di quell’anno, vede nella istituzione
teatrale lo strumento più idoneo, per le sue stesse caratteristiche,
ad una elevazione culturale, morale e civile della società,
strumento di formazione «che si presenta al cittadino sotto il velo
del piacere. Il Teatro, onde si propaga egualmente il vizio che la
virtù a misura della direzione che gli si dà, deve formare uno
degli oggetti più gelosi della cura e vigilanza delle
amministrazioni, per non soffrire che il popolo venga da altri
sentimenti animato che da quelli del patriottismo, della virtù e
della sana morale».
La dimensione teatrale
della civiltà settecentesca napoletana si rivelava conclusa da
questo tipo di protagonismo civile ed etico che trovava una conferma
nella riflessione del Cuoco e che operava nel teatro un salto di
qualità rispetto ad altri protagonismi urbani, cui era stato invece
affidato un destino di immobilismo o, anche, cortigianesco: si pensi
a quel protagonismo esistente nella stessa immagine della città,
anch’esso teatrale, la cui eredità era passata dai secoli
precedenti al Settecento, costituito dalle «Isole», complessi
aggreganti di edifici intorno a monasteri, conventi, chiese, ed
affollanti il perimetro urbano, discriminante ed ostacolo alla sua
crescita razionale; oppure all’analogo obiettivo di costruzione
protagonistica, con in più la connotazione del fastoso, perseguito
dall’amministrazione borbonica nel tentativo di ristrutturare la
capitale. A ciò si aggiunga la concezione ludica dei «siti reali»
(a Procida, Cardito, Carditello, Agnano, Astroni, Fusaro, Torre
Guevara, Persano, Caserta, Caiazzo, Calvi, Capriati, Venafro,
Maddaloni, Capodimonte) rispondente sempre ad una ipotesi
scenograficamente oltre che socialmente elitaria.
Dietro tutto ciò, se di
metafora del teatro si può parlare, si stagliano le forche del ’99,
tragico suggello d’una pur luminosa avventura durata un secolo. Al
«poeta della botte» del 1701, grottesca canzonatura d’un
intellettuale che voleva farsi capopopolo, fanno da contraltare nella
stessa piazza Mercato, da secoli ormai privilegiato scenario di
eventi storici, le sagome penzolanti dei rivoluzionari e patrioti
napoletani del 1799, divenuti cadaveri d’un definitivo fallimento,
in una nuova, stavolta drammatica e crudele, metafora teatrale: «A
signora donna Lionora / che cantava ’ncopp’o triato / mo abballa
’mmiezo o Mercato».
da La metafora del
teatro, in Teatro napoletano del ’700, Tullio Pironti
editore, 1981
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