Nel manuale di
machiavellismo pratico, che il ministro Minniti di sicuro avrà
sempre sul tavolo, a un certo punto si legge: “Se non puoi fargli
la guerra, vedi almeno di comprarli”. Ed è così che l’Italia,
come risulta ormai da una serie di testimonianze, avrebbe consegnato
ben cinque milioni di dollari, tramite intermediari o direttamente
non si sa, alla banda armata di Ahmed Al-Dabbashi detto “lo Zio”,
il maggiore trafficante di esseri umani della zona di Sabratha in
Libia. L’ex potenza coloniale, che in Tripolitania incendiava e
impiccava, ora compra. Del resto, a quanto scrive “Le Monde”
datato 15 settembre, il governo italiano aveva già trattato con “lo
Zio” al fine di garantirsi la sicurezza degli impianti dell’Eni a
Mellitah, a ovest di Sabratha. Un’impeccabile strategia: prima si
scoraggiano, con regolamenti bizantini, le organizzazioni umanitarie
dall’intervenire nel Mediterraneo in favore di profughi e migranti
alla deriva, poi s’interviene “alla sorgente” dando del denaro
ai trafficanti perché si riciclino come alleati nella lotta
all’immigrazione clandestina.
Il problema è che tutto
questo piace. Piace soprattutto al Pd che così finanzia, con soli
cinque milioni dei contribuenti italiani, la propria campagna
centrista delle prossime elezioni. Piace a una maggioranza di nostri
concittadini che, ancorché in larga misura cattolici e perciò
tenuti all’accoglienza, non ne possono più degli immigrati. Non
sono molti quelli che si chiedono: ma scusate, dove finiscono gli
aspiranti migranti se non in quegli stessi luoghi di detenzione e
tortura, in una Libia controllata dalle bande armate, da cui, dopo
mesi o anni di traversie, cercano di fuggire? Solo una piccola parte
di loro riuscirà, chissà quando, ad avere il visto dell’ambasciata
per fare ritorno al paese di origine (in cui certo troppo bene non
dovevano passarsela per aver preso la decisione di andarsene).
Si dice – lo ha detto
lo stesso Minniti – che non si possono accogliere tutti i migranti
o aspiranti tali, perché bisogna anche pensare a integrarli. Ma
allora che cosa si sarebbe potuto iniziare a fare con quei cinque
milioni nel senso dell’integrazione? Quanti edifici scolastici si
sarebbero potuti mettere in sicurezza, nello stato comatoso di un
territorio come quello italiano esposto di continuo al rischio
sismico e idrogeologico, all’interno di un piano – non solo
italiano ma europeo – di lavori socialmente utili con maestranze
composte prevalentemente da immigrati?
Al tasso di crescita
demografica attuale, l’Africa alla fine di questo secolo costituirà
il 40% della popolazione mondiale – al momento soltanto il 12-13%.
Siamo destinati a una storia di grandi migrazioni: in parte essa è
l’eredità di un predatorio colonialismo occidentale – una
vicenda mai veramente conclusa –, in parte è l’effetto di un
movimento inarrestabile, perfino emancipatorio, verso condizioni di
maggiore benessere. La risposta politica non sta nel ridurre i
flussi, che poi rispuntano per altre vie o semplicemente riprendono
quando “lo Zio” avrà esaurito la sua provvista di denaro:
piuttosto consiste nell’organizzarli per quanto possibile. Si
aprano quindi, nei paesi africani maggiormente interessati dal
fenomeno, delle “agenzie di collocamento” presso le ambasciate
occidentali; si dia una speranza di futuro a quelle popolazioni
martoriate con voli periodici verso l’Europa; si preparino
programmi per lavori socialmente utili in cui inserire la manodopera
immigrata. È la parola “integrazione” che dev’essere fatta
vivere riempiendola di contenuti. E questa voce, sul manuale di
machiavellismo pratico che Minniti ha a portata di mano, non c’è.
Dal sito del mensile “Il
Ponte”, 16 settembre 2017
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