Articolo di due mesi fa.
Forse altri dati sono arrivati a corroborare l'irrealtà del reale,
ma l'attualità del pezzo di Revelli sta nel metodo e sta nelle
conclusioni finali, sul divorzio tra economia e società, che –
secondo me – ci aiutano a interpretare più correttamente le cifre
che continueranno ad arrivare. (S.L.L.)
Ogni giorno una nuova
gittata di dati – una nuova slide tombale – viene emessa
dalle torri del sapere ufficiale a coprire la precedente, con un
effetto (voluto?) d’irrealtà del reale.
Giovedì l’Istat, nella
sua nota annuale sulla Povertà, ci dice che le cose vanno male,
stabilmente male, e forse peggioreranno.
Venerdì la Banca
d’Italia, nel suo bollettino trimestrale, ci dice che (al netto del
record del debito) le cose vanno abbastanza bene, e probabilmente
miglioreranno…
Viene in mente Isaia
(21,11) e la domanda che sale da Seir: «Sentinella, a che punto è
la notte?», a cui dalla torre si risponde: «Vien la mattina, poi
anche la notte».
Per la verità la
situazione della povertà è persino più grave di quanto a prima
vista potrebbe sembrare. Nei commenti a caldo ci si è infatti
soffermati soprattutto sui dati generali: i 4.742.000 poveri
«assoluti» e gli 8.465.000 poveri «relativi», grandezze di per sé
impressionanti, ma definite nella Nota arrivata dall’Istat
«stabili», essendo entrambi aumentati rispetto all’anno 2015
«solamente» di 150.000 unità.
Se però si spacchettano
i due insiemi aggregati si scopre che il peggioramento è stato ben
più consistente, addirittura catastrofico, per almeno tre categorie
cruciali: i minori, gli operai, e i membri di «famiglie miste».
Tra le «famiglie con tre
o più figli minori», ad esempio, la povertà assoluta è cresciuta
in un anno di quasi dieci punti.
Schizzando al 26,8%. Nel
Mezzogiorno la povertà relativa in questa categoria sfiora
addirittura il 60%.
Tra gli «Operai e
assimilati», poi, i poveri assoluti raggiungono il livello del 12,6%
(un punto percentuale più del 2015, una crescita del 9% in un anno!)
e le famiglie con breadwinner operaio in condizione di povertà
relativa sfiorano il 20% (una su cinque). Sono i working poors:
coloro che sono poveri pur lavorando – pur avendo un «posto di
lavoro» -, ed è bene ricordare che si definisce «in povertà
assoluta» chi non può permettersi il minimo indispensabile per
condurre una vita dignitosa, alimentarsi, vestirsi, curarsi, mentre
in «povertà relativa» è chi ha una spesa mensile pro capite
inferiore alla metà di quella media del Paese. Una parte consistente
del mondo del lavoro italiano è in una di queste due condizioni.
Infine le «famiglie
miste», quelle in cui cioè uno dei due coniugi è un migrante: nel
loro caso la povertà assoluta è quasi raddoppiata nell’Italia
settentrionale (dal 13,9 al 22,9%) e quella relativa ha raggiunto nel
Meridione il 58,8% (era il 40,3 nel 2015), con buona pace di chi ha
fatto dell’urlo tribale «Perché a loro e non a NOI» la propria
bandiera e considera privilegio lo jus soli in nome della propria
miseria.
Se poi si considera il
quadro nell’ultimo decennio, la storia assume i tratti del racconto
gotico. Non solo il numero delle famiglie e degli individui in
condizione di povertà assoluta risulta raddoppiato rispetto al 2007,
ma per alcune figure la dilatazione è stata addirittura esplosiva:
così per i minori, tra i quali i «poveri assoluti» sono
quadruplicati (l’incidenza passa dal 3% al 12,5%).
Stessa dinamica per gli
«operai e assimilati», tra i quali la diffusione della povertà
assoluta, drammatica nel quinquennio 2007-2012, era rallentata fino
al 2014, e poi è ritornata prepotente nel biennio successivo (3
punti percentuali in più!) dove si può leggere con chiarezza
l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sul potere d’acquisto
e sulla stabilità del lavoro.
In questa luce l’inno
alla gioia intonato da politica e media per le notizie da Bankitalia
potrebbe sembrare una beffa (un «insulto alla miseria» registrata
invece dall’Istat), se non contenesse però un tratto di realtà.
E cioè che economia e
società hanno imboccato strade diverse, e per molti versi opposte.
Che i miglioramenti dell’una (o l’attenuazione della crisi sul
versante economico) non significano affatto un simmetrico rimbalzo
per l’altra (una risalita sul versante della condizione sociale).
Anzi. I ritocchini al
rialzo delle previsioni sul Pil (+1,4 nel ’17, + 1,3 nel ’18, +
1,2 nel ’19) sono in effetti perfettamente compatibili col
parallelo degrado dei tassi di povertà e delle condizioni di vita
delle famiglie.
Convivono nell’ambito
di un paradigma, come quello vigente, nel quale la crescita
redistribuisce la ricchezza dal basso verso l’alto, dal lavoro
all’impresa (e soprattutto alla finanza), dai many ai few (all’1%
che possiede il 20% di tutto). E in cui il Pil, appunto,
s’arricchisce (in termini economici) impoverendo (in termini
sociali).
Forse nel 2019 (forse!)
ritorneremo ai livelli pre-crisi del «valore aggiunto» monetario,
ma saremo un po’ di più vicini al Medioevo nell’equità sociale.
Finché non si spezzerà
questo circolo vizioso, la sentinella dalla torre non potrà
annunciare la definitiva fine della notte.
il manifesto 16.7.2017
Nessun commento:
Posta un commento