Un saggio assai bello, in
origine pubblicato su “L'Espresso”, sulle ragioni del successo,
ricorrente, di un film cult, Casablanca. Un'analisi
originale e convincente. (S.L.L.)
Due settimane fa tutti i
quarantenni erano davanti al televisore per rivedere Casablanca.
Ma non si tratta di un normale fenomeno di nostalgia. Infatti quando
Casablanca viene proiettato nelle università americane i
ragazzi di vent’anni sottolineano ogni passaggio e ogni battuta
canonica (“fate arrestare i soliti sospetti” oppure “sono i
cannoni o è il mio cuore che batte?” o tutte le volte che Bogey
dice “kid”) con ovazioni riservate di solito alle partite di
baseball. E lo stesso mi è accaduto di vedere in una cineteca
italiana frequentata da giovani. Qual è allora il fascino di
Casablanca?
La domanda è legittima,
perché Casablanca è, esteticamente parlando (ovvero dal
punto di vista di una critica esigente), un modestissimo film.
Fumetto, polpettone, dove la verosimiglianza psicologica è molto
debole, i colpi di scena si concatenano senza ragioni attendibili. E
sappiamo anche perché: il film è stato pensato man mano che lo si
girava, e fino all’ultimo momento il regista e gli sceneggiatori
non sapevano se lise sarebbe partita con Victor o con Rick. Quindi
quelle che sembrano accorte trovate registiche e strappano l’applauso
per la loro inopinata sfacciataggine, sono in effetti decisioni prese
per disperazione. E allora: come poteva uscire, da questa catena di
imprevidenze, un film che ancora oggi, rivisto per la seconda, terza
o quarta volta, strappa l’applauso dovuto al pezzo di bravura, che
si ama sentir bissare, o l’entusiasmo dovuto alla scoperta inedita?
C’è un cast di gigioni formidabili. Ma non basta.
Ci sono lui e lei, amaro
lui e tenera l’altra, romantici, ma se ne erano visti di meglio.
Casablanca non è Ombre rosse, un altro film da ritorno
ciclico: Ombre rosse è un capolavoro sotto ogni aspetto, ogni
suo pezzo è inserito al posto giusto, i caratteri sono giustificati
momento per momento, e la trama (anche questo conta) viene da
Maupassant, almeno per la prima parte. E allora? Allora si è tentati
di leggere Casablanca come Eliot aveva riletto Amleto.
Il cui fascino egli attribuiva non al fatto che fosse un’opera
riuscita, ché anzi la giudicava tra le meno felici di Shakespeare,
ma proprio alla ragione opposta: Amleto sarebbe l’effetto di
una fusione non riuscita tra vari Amleti precedenti, uno in cui il
tema era la vendetta (con la follia come puro stratagemma), e l’altro
il cui tema era la crisi dovuta alla colpa della madre, con la
conseguente disproporzione tra la tensione di Amleto e la
imprecisione e inconsistenza del delitto materno. Così che la
critica e il pubblico lo trovano bello perché interessante,
credendolo interessante perché bello.
A Casablanca, in
proporzione minore, è successo lo stesso: portati a inventare una
trama a braccio, gli autori ci hanno messo dentro tutto. E per
mettere tutto sceglievano nel repertorio del già collaudato. Quando
la scelta del già collaudato è limitata, si ha il film di maniera,
di serie, o addirittura il Kitsch. Ma quando del già collaudato si
mette proprio tutto, si ha una architettura come la Sagrada Familia
di Gaudi. Si ha la vertigine, si sfiora la genialità.
Ora dimentichiamo come il
film sia stato fatto e vediamo cosa esso ci fa vedere. Si apre su di
un luogo già magico di per sé, il Marocco, l’Esotico, inizia con
un accenno di melodia araba che sfuma nella Marsigliese. Come si
entra nel locale di Rick, si ode Gershwin. Africa, Francia, Stati
Uniti. A questo punto entra in gioco un intrico di Archetipi Eterni.
Sono situazioni che hanno presieduto alle storie di tutti i tempi. Ma
di solito per fare una buona storia basta una sola situazione
archetipa. E avanza. Per esempio, l’Amore Infelice. Oppure, la
Fuga. Casablanca non si accontenta: le mette tutte. La città
è il luogo di un Passaggio, il passaggio verso la Terra Promessa (o
a Nord Ovest, se volete). Per passare però ci si deve sottomettere a
una prova, l’Attesa (“aspettano, aspettano, aspettano” dice la
voce fuori campo all’inizio). Per passare dal vestibolo dell’attesa
alla terra promessa ci vuole una Chiave Magica: è il visto. Intorno
alla Conquista di questa chiave si scatenano le passioni. La
mediazione alla chiave sembra data dal Denaro (che appare a varie
riprese, per lo più sotto forma di Gioco Mortale, o roulette): ma
alla fine si scoprirà che la Chiave può essere data solo attraverso
un Dono (che è dono del visto, ma è anche il dono che Rick fa del
suo Desiderio, sacrificandosi). Perché questa è anche la storia di
una ridda di Desideri di cui solo due vengono soddisfatti: quello di
Victor Laszlo, l’eroe purissimo, e quello dei due sposini bulgari.
Tutti coloro che hanno passioni impure, falliscono.
E quindi, altro
archetipo, trionfa la Purezza. Gli impuri non raggiungono la terra
promessa, scompaiono prima; però realizzano la Purezza attraverso il
Sacrificio: ecco la Redenzione. Si redime Rick e si redime il
capitano della polizia francese. Ci si accorge che sotto sotto le
Terre Promesse sono due: una è l’America, ma per molti è un falso
scopo; la seconda è la Resistenza, ovvero la Guerra Santa. Victor ne
viene, Rick e il capitano di Polizia ci vanno, raggiungono De Gaulle.
E se il simbolo ricorrente dell’aereo sembra sottolineare ogni
tanto la fuga verso l’America, la Croce di Lorena, che appare una
volta sola, preannuncia l’altro gesto simbolico del capitano, che
alla fine butta via la bottiglia di acqua di Vichy (mentre l’aereo
parte). D’altra parte il mito del Sacrificio attraversa tutto il
film: il sacrificio di Ilse che a Parigi abbandona l’uomo amato per
tornare dall’eroe ferito; il sacrificio della sposina bulgara
pronta a cedersi per aiutare il marito; il sacrificio di Victor che
sarebbe disposto a vedere Ilse con Rick pur di saperla salva.
In questa orgia di
archetipi sacrificali (accompagnati dal tema Servo-Padrone, grazie al
rapporto tra Bogey e il negro Dooley Wilson) si inserisce il tema
dell’Amore Infelice. Infelice per Rick, che ama Ilse e non può
averla, infelice per Ilse, che ama Rick e non può partire con lui,
infelice per Victor, che capisce che non ha veramente conservato
Ilse. Il gioco degli amori infelici produce vari e accorti incroci:
all’inizio è infelice Rick che non capisce perché Ilse lo sfugga;
poi è infelice Victor che non capisce perché Ilse sia attratta da
Rick; e infine è infelice Ilse, che non capisce perché Rick la
faccia partire col marito. Questi tre amori infelici (o Impossibili)
si dispongono a triangolo. Ma nel Triangolo archetipo c’è un
Marito Tradito e un Amante Vittorioso. Qui invece entrambi gli uomini
sono traditi e perdenti: ma nella sconfitta (e a monte di essa) gioca
un elemento additivo, così sottile da sfuggire a livello di
coscienza. È che sotto sotto si instaura (sublimatissimo) un
sospetto di Amore virile o Socratico. Perché Rick ammira Victor, e
Victor è ambiguamente attratto da Rick, e pare quasi che a un certo
punto ciascuno dei due giochi il duello del sacrificio per compiacere
l’altro. In ogni caso, come nelle Confessioni di Rousseau,
la donna si pone come Tramite tra i due uomini. La donna non è
portatrice di valori positivi, solo gli uomini lo sono.
Sullo sfondo di queste
ambiguità a catena, ecco i caratteri da commedia, o tutti buoni o
tutti cattivi. Victor gioca un doppio ruolo, agente di ambiguità nel
rapporto erotico, e agente di chiarezza nel rapporto politico: egli è
la Bella contro la Bestia nazista. Il tema Civiltà contro Barbarie
si aggroviglia con gli altri, alla melanconia del Ritorno odisseico
si unisce la baldanza bellica di una Iliade in campo aperto.
Intorno a questa danza di
miti eterni, ecco i miti storici, ovvero i miti del cinema
dovutamente rivisitati. Bogart ne impersona almeno tre:
l’Avventuriero Ambiguo, impasto di cinismo e generosità; l’Asceta
per Delusione Amorosa e al tempo stesso l’Alcolizzato Redento (e
per farlo redimere occorre alcolizzarlo, di colpo, mentre era già
Asceta Deluso). Ingrid Bergman è la Donna Enigmatica o Fatale. Poi
c’è Senti Caro la Nostra Canzone, l’Ultimo Giorno a Parigi,
l’America, l’Africa, Lisbona come Porto Franco, il Posto di
Frontiera o Ultimo Fortino ai Margini del Deserto. C’è la Legione
Straniera (ogni personaggio ha una nazionalità e una storia diversa)
e infine il Grand’Hotel Gente Che Va Gente Che Viene. Il locale di
Rick è un posto magico dove può accadere (e accade) di tutto:
amore, morte, inseguimenti, spionaggio, gioco d’azzardo, seduzioni,
musica, patriottismo (l’origine teatrale della trama e la povertà
di mezzi hanno portato alla mirabile condensazione di eventi in un
solo luogo). Questo luogo è Hong Kong, Macao Inferno del Gioco,
prefigurazione di Lisbona Paradiso dello Spionaggio, Battello sul
Mississippi.
Ma proprio perché gli
archetipi ci sono tutti, proprio perché Casablanca è la citazione
di mille altri film, e ogni attore vi rifà una parte eseguita altre
volte, gioca sullo spettatore la risonanza dell’intertestualità.
Casablanca porta con sé, come in una scia di profumo, altre
situazioni che lo spettatore vi immette direttamente prendendole
senza accorgersene da altri film apparsi dopo, come Avere e non
avere, in cui Bogart rappresenta l’eroe hemingwayano; ma Bogart
già calamita su di sé le connotazioni hemingwayane per il semplice
fatto che, lo si dice, Rick ha combattuto in Spagna (e come Malraux
egli ha aiutato la rivoluzione cinese). Peter Lorre si trascina
dietro i ricordi di Fritz Lang; Conrad Veidt avvolge il suo ufficiale
tedesco di sottili sentori di Gabinetto del Dottor Caligari, non è
un nazista spietato e tecnologico, è un Cesare notturno e diabolico.
In tal modo Casablanca non è un film, è tanti film, una
antologia. Fatto quasi per caso, probabilmente si è fatto da sé, se
non contro almeno al di là della volontà dei suoi autori, e dei
suoi attori. E per questo funziona, a dispetto delle teorie estetiche
e delle teorie filmografiche. Perché in esso si dispiegano per forza
quasi tellurica le Potenze della Narratività allo stato brado, senza
che l’Arte intervenga a disciplinarle. E allora possiamo accettare
che i personaggi cambino di umore, di moralità, di psicologia da un
momento all’altro, che i cospiratori tossiscano per interrompere il
discorso quando si avvicina una spia, che le donnine allegre piangano
udendo la Marsigliese. Quando tutti gli archetipi irrompono
senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno
ridere. Cento cliché commuovono. Perché si avverte oscuramente che
i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di
ritrovamento. Come il colmo del dolore incontra la voluttà e il
colmo della perversione rasenta l’energia mistica, il colmo della
banalità lascia intravvedere un sospetto di sublime. Qualcosa ha
parlato al posto del regista. Il fenomeno è degno se non altro di
venerazione.
Dalla periferia dell'Impero, La Nave di Teseo, 2016 (Prima edizione 1977)
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