5.9.17

Casablanca, o la rinascita degli dei (Umberto Eco)

Un saggio assai bello, in origine pubblicato su “L'Espresso”, sulle ragioni del successo, ricorrente, di un film cult, Casablanca. Un'analisi originale e convincente. (S.L.L.)

Due settimane fa tutti i quarantenni erano davanti al televisore per rivedere Casablanca. Ma non si tratta di un normale fenomeno di nostalgia. Infatti quando Casablanca viene proiettato nelle università americane i ragazzi di vent’anni sottolineano ogni passaggio e ogni battuta canonica (“fate arrestare i soliti sospetti” oppure “sono i cannoni o è il mio cuore che batte?” o tutte le volte che Bogey dice “kid”) con ovazioni riservate di solito alle partite di baseball. E lo stesso mi è accaduto di vedere in una cineteca italiana frequentata da giovani. Qual è allora il fascino di Casablanca?
La domanda è legittima, perché Casablanca è, esteticamente parlando (ovvero dal punto di vista di una critica esigente), un modestissimo film. Fumetto, polpettone, dove la verosimiglianza psicologica è molto debole, i colpi di scena si concatenano senza ragioni attendibili. E sappiamo anche perché: il film è stato pensato man mano che lo si girava, e fino all’ultimo momento il regista e gli sceneggiatori non sapevano se lise sarebbe partita con Victor o con Rick. Quindi quelle che sembrano accorte trovate registiche e strappano l’applauso per la loro inopinata sfacciataggine, sono in effetti decisioni prese per disperazione. E allora: come poteva uscire, da questa catena di imprevidenze, un film che ancora oggi, rivisto per la seconda, terza o quarta volta, strappa l’applauso dovuto al pezzo di bravura, che si ama sentir bissare, o l’entusiasmo dovuto alla scoperta inedita? C’è un cast di gigioni formidabili. Ma non basta.
Ci sono lui e lei, amaro lui e tenera l’altra, romantici, ma se ne erano visti di meglio. Casablanca non è Ombre rosse, un altro film da ritorno ciclico: Ombre rosse è un capolavoro sotto ogni aspetto, ogni suo pezzo è inserito al posto giusto, i caratteri sono giustificati momento per momento, e la trama (anche questo conta) viene da Maupassant, almeno per la prima parte. E allora? Allora si è tentati di leggere Casablanca come Eliot aveva riletto Amleto. Il cui fascino egli attribuiva non al fatto che fosse un’opera riuscita, ché anzi la giudicava tra le meno felici di Shakespeare, ma proprio alla ragione opposta: Amleto sarebbe l’effetto di una fusione non riuscita tra vari Amleti precedenti, uno in cui il tema era la vendetta (con la follia come puro stratagemma), e l’altro il cui tema era la crisi dovuta alla colpa della madre, con la conseguente disproporzione tra la tensione di Amleto e la imprecisione e inconsistenza del delitto materno. Così che la critica e il pubblico lo trovano bello perché interessante, credendolo interessante perché bello.
A Casablanca, in proporzione minore, è successo lo stesso: portati a inventare una trama a braccio, gli autori ci hanno messo dentro tutto. E per mettere tutto sceglievano nel repertorio del già collaudato. Quando la scelta del già collaudato è limitata, si ha il film di maniera, di serie, o addirittura il Kitsch. Ma quando del già collaudato si mette proprio tutto, si ha una architettura come la Sagrada Familia di Gaudi. Si ha la vertigine, si sfiora la genialità.
Ora dimentichiamo come il film sia stato fatto e vediamo cosa esso ci fa vedere. Si apre su di un luogo già magico di per sé, il Marocco, l’Esotico, inizia con un accenno di melodia araba che sfuma nella Marsigliese. Come si entra nel locale di Rick, si ode Gershwin. Africa, Francia, Stati Uniti. A questo punto entra in gioco un intrico di Archetipi Eterni. Sono situazioni che hanno presieduto alle storie di tutti i tempi. Ma di solito per fare una buona storia basta una sola situazione archetipa. E avanza. Per esempio, l’Amore Infelice. Oppure, la Fuga. Casablanca non si accontenta: le mette tutte. La città è il luogo di un Passaggio, il passaggio verso la Terra Promessa (o a Nord Ovest, se volete). Per passare però ci si deve sottomettere a una prova, l’Attesa (“aspettano, aspettano, aspettano” dice la voce fuori campo all’inizio). Per passare dal vestibolo dell’attesa alla terra promessa ci vuole una Chiave Magica: è il visto. Intorno alla Conquista di questa chiave si scatenano le passioni. La mediazione alla chiave sembra data dal Denaro (che appare a varie riprese, per lo più sotto forma di Gioco Mortale, o roulette): ma alla fine si scoprirà che la Chiave può essere data solo attraverso un Dono (che è dono del visto, ma è anche il dono che Rick fa del suo Desiderio, sacrificandosi). Perché questa è anche la storia di una ridda di Desideri di cui solo due vengono soddisfatti: quello di Victor Laszlo, l’eroe purissimo, e quello dei due sposini bulgari. Tutti coloro che hanno passioni impure, falliscono.
E quindi, altro archetipo, trionfa la Purezza. Gli impuri non raggiungono la terra promessa, scompaiono prima; però realizzano la Purezza attraverso il Sacrificio: ecco la Redenzione. Si redime Rick e si redime il capitano della polizia francese. Ci si accorge che sotto sotto le Terre Promesse sono due: una è l’America, ma per molti è un falso scopo; la seconda è la Resistenza, ovvero la Guerra Santa. Victor ne viene, Rick e il capitano di Polizia ci vanno, raggiungono De Gaulle. E se il simbolo ricorrente dell’aereo sembra sottolineare ogni tanto la fuga verso l’America, la Croce di Lorena, che appare una volta sola, preannuncia l’altro gesto simbolico del capitano, che alla fine butta via la bottiglia di acqua di Vichy (mentre l’aereo parte). D’altra parte il mito del Sacrificio attraversa tutto il film: il sacrificio di Ilse che a Parigi abbandona l’uomo amato per tornare dall’eroe ferito; il sacrificio della sposina bulgara pronta a cedersi per aiutare il marito; il sacrificio di Victor che sarebbe disposto a vedere Ilse con Rick pur di saperla salva.
In questa orgia di archetipi sacrificali (accompagnati dal tema Servo-Padrone, grazie al rapporto tra Bogey e il negro Dooley Wilson) si inserisce il tema dell’Amore Infelice. Infelice per Rick, che ama Ilse e non può averla, infelice per Ilse, che ama Rick e non può partire con lui, infelice per Victor, che capisce che non ha veramente conservato Ilse. Il gioco degli amori infelici produce vari e accorti incroci: all’inizio è infelice Rick che non capisce perché Ilse lo sfugga; poi è infelice Victor che non capisce perché Ilse sia attratta da Rick; e infine è infelice Ilse, che non capisce perché Rick la faccia partire col marito. Questi tre amori infelici (o Impossibili) si dispongono a triangolo. Ma nel Triangolo archetipo c’è un Marito Tradito e un Amante Vittorioso. Qui invece entrambi gli uomini sono traditi e perdenti: ma nella sconfitta (e a monte di essa) gioca un elemento additivo, così sottile da sfuggire a livello di coscienza. È che sotto sotto si instaura (sublimatissimo) un sospetto di Amore virile o Socratico. Perché Rick ammira Victor, e Victor è ambiguamente attratto da Rick, e pare quasi che a un certo punto ciascuno dei due giochi il duello del sacrificio per compiacere l’altro. In ogni caso, come nelle Confessioni di Rousseau, la donna si pone come Tramite tra i due uomini. La donna non è portatrice di valori positivi, solo gli uomini lo sono.
Sullo sfondo di queste ambiguità a catena, ecco i caratteri da commedia, o tutti buoni o tutti cattivi. Victor gioca un doppio ruolo, agente di ambiguità nel rapporto erotico, e agente di chiarezza nel rapporto politico: egli è la Bella contro la Bestia nazista. Il tema Civiltà contro Barbarie si aggroviglia con gli altri, alla melanconia del Ritorno odisseico si unisce la baldanza bellica di una Iliade in campo aperto.
Intorno a questa danza di miti eterni, ecco i miti storici, ovvero i miti del cinema dovutamente rivisitati. Bogart ne impersona almeno tre: l’Avventuriero Ambiguo, impasto di cinismo e generosità; l’Asceta per Delusione Amorosa e al tempo stesso l’Alcolizzato Redento (e per farlo redimere occorre alcolizzarlo, di colpo, mentre era già Asceta Deluso). Ingrid Bergman è la Donna Enigmatica o Fatale. Poi c’è Senti Caro la Nostra Canzone, l’Ultimo Giorno a Parigi, l’America, l’Africa, Lisbona come Porto Franco, il Posto di Frontiera o Ultimo Fortino ai Margini del Deserto. C’è la Legione Straniera (ogni personaggio ha una nazionalità e una storia diversa) e infine il Grand’Hotel Gente Che Va Gente Che Viene. Il locale di Rick è un posto magico dove può accadere (e accade) di tutto: amore, morte, inseguimenti, spionaggio, gioco d’azzardo, seduzioni, musica, patriottismo (l’origine teatrale della trama e la povertà di mezzi hanno portato alla mirabile condensazione di eventi in un solo luogo). Questo luogo è Hong Kong, Macao Inferno del Gioco, prefigurazione di Lisbona Paradiso dello Spionaggio, Battello sul Mississippi.

Ma proprio perché gli archetipi ci sono tutti, proprio perché Casablanca è la citazione di mille altri film, e ogni attore vi rifà una parte eseguita altre volte, gioca sullo spettatore la risonanza dell’intertestualità. Casablanca porta con sé, come in una scia di profumo, altre situazioni che lo spettatore vi immette direttamente prendendole senza accorgersene da altri film apparsi dopo, come Avere e non avere, in cui Bogart rappresenta l’eroe hemingwayano; ma Bogart già calamita su di sé le connotazioni hemingwayane per il semplice fatto che, lo si dice, Rick ha combattuto in Spagna (e come Malraux egli ha aiutato la rivoluzione cinese). Peter Lorre si trascina dietro i ricordi di Fritz Lang; Conrad Veidt avvolge il suo ufficiale tedesco di sottili sentori di Gabinetto del Dottor Caligari, non è un nazista spietato e tecnologico, è un Cesare notturno e diabolico. In tal modo Casablanca non è un film, è tanti film, una antologia. Fatto quasi per caso, probabilmente si è fatto da sé, se non contro almeno al di là della volontà dei suoi autori, e dei suoi attori. E per questo funziona, a dispetto delle teorie estetiche e delle teorie filmografiche. Perché in esso si dispiegano per forza quasi tellurica le Potenze della Narratività allo stato brado, senza che l’Arte intervenga a disciplinarle. E allora possiamo accettare che i personaggi cambino di umore, di moralità, di psicologia da un momento all’altro, che i cospiratori tossiscano per interrompere il discorso quando si avvicina una spia, che le donnine allegre piangano udendo la Marsigliese. Quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento cliché commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento. Come il colmo del dolore incontra la voluttà e il colmo della perversione rasenta l’energia mistica, il colmo della banalità lascia intravvedere un sospetto di sublime. Qualcosa ha parlato al posto del regista. Il fenomeno è degno se non altro di venerazione.

Dalla periferia dell'Impero, La Nave di Teseo, 2016 (Prima edizione 1977)

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