Il testo che segue, ripreso da “la
Repubblica” è l´intervento a un convegno che venne promosso dalla
Fondazione Niccolò Canussio a Cividale del Friuli nel settembre 2007
sull'unità politica e le identità etniche nell'Italia antica.
La statua di un guerriero sannita a Pietrabbondante (is) |
Al principio del De cive Thomas
Hobbes colloca un eroe italico antiromano, Ponzio Telesino. Dopo aver
ricordato che Catone il Censore (secondo Plutarco) definiva «belve
feroci» tutti i re, chiunque essi fossero, commenta: «Una ben
maggiore belva era lo stesso popolo romano, che aveva depredato tutto
il mondo per mezzo dei suoi generali, denominati Africani, Asiatici,
Macedonici, Acaici, e di tutti gli altri che avevano ricevuto un
soprannome dalle genti che avevano spogliato!». Ed è a questo punto
che ricorda il duro atto d'accusa di Ponzio Telesino, alla vigilia
della battaglia di Porta Collina combattuta senza successo contro
Silla, quando Ponzio, passando in rassegna le sue truppe «gridava
che doveva essere diroccata e distrutta Roma stessa», e «che non
sarebbero mai scomparsi i lupi che privavano gli italici della loro
libertà, se non fosse stata abbattuta la selva in cui trovavano
rifugio». Gli italici erano stati cacciati da Roma con una guerra di
conquista durata secoli, cui solo la meteorica apparizione di
Annibale sul suolo italiano, verso la fine del III secolo a. C.,
aveva imposto un temporaneo arresto.
Nel 1925 il maggiore studioso allora
vivente di antichità classica, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff,
fu a Firenze nel quadro della «settimana tedesca»: un segno di
riconciliazione culturale dopo la tremenda guerra che aveva
contrapposto Italia e Germania. E pronunciò un saggio, intitolato
Storia italica, che nulla concedeva alla retorica del nostro
nazionalismo, di cui è emblematico quel verso orrendo dell'Inno di
Mameli sull'Italia «schiava di Roma». Pur conoscendo le fisime del
suo uditorio, Wilamowitz disse serenamente: «La storia d'Italia ha
un contenuto più ricco. Un tempo tutte le sue stirpi ebbero la loro
propria vita e una civiltà propria, che Roma ha distrutto, compresa
la grecità della Sicilia». E soggiungeva che «l'ultima lotta per
la loro vita etnica» gli italici l'avevano tentata con la guerra
sociale, di cui la vittoria feroce di Silla era stata in certo senso
l'ultimo atto.
Quindici anni più tardi, nel 1940,
Simone Weil - allora giovanissima - pubblicava un saggio memorabile,
La politica estera di Roma e la politica di Hitler, in cui al
di là del parallelo che istituisce sin dal titolo fa una
considerazione per molti versi simile a quella del grande filologo
tedesco, ma riferita al mondo gallico. Segnala infatti, e con molta
efficacia, che la cosiddetta romanizzazione della Gallia fu in realtà
- oltre che un genocidio in termini di vite umane - l'estirpazione di
una civiltà: di una civiltà che non parla più a noi per la
semplice ragione che è stata cancellata.
Nel considerare l'unificazione romana
del mondo mediterraneo e celtico-danubiano, gli storici sono di
fronte a un bivio: o compiacersi di quel sanguinoso processo storico
guardando agli effetti (tale fu già l'atteggiamento di una parte
delle élites greche le quali conseguirono un ruolo di «condominio
diseguale» del mondo romanizzato) oppure porre in luce i costi non
solo umani ma di civiltà che quel processo di unificazione ha
determinato.
Non fu però univoco l'atteggiamento
delle élites greche. Da questo punto di vista, merita di essere
osservato l´esito divaricato cui approdarono esponenti della
corrente di pensiero forse più influente nel periodo di massima
fioritura del mondo greco-romano: lo stoicismo. Tale corrente di
pensiero recava dentro di sé un potente presupposto ideale che
andava in direzione dell'unificazione del genere umano entro una
cornice organicistica e «provvidenziale», e cioè l'idea della
Cosmopoli. E tuttavia tale visione poteva approdare a due esiti
opposti: quello di Panezio e di Posidonio, "cantori" (il
termine è irriverente, ma il concetto non è erroneo) del predominio
universale romano, e quello di Blossio di Cuma (non a caso un
italico) che, dopo aver ispirato le riforme di Tiberio Gracco, andò
a morire, al fianco degli schiavi del regno di Pergamo, ribelli al
passaggio del loro paese sotto il dominio di Roma, stabilito in virtù
del «testamento» del loro ultimo sovrano.
“la Repubblica” 22 settembre 2007
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