16.9.17

Politiche espansionistiche nella storia. Le pulizie etniche di Roma antica (Luciano Canfora)

Il testo che segue, ripreso da “la Repubblica” è l´intervento a un convegno che venne promosso dalla Fondazione Niccolò Canussio a Cividale del Friuli nel settembre 2007 sull'unità politica e le identità etniche nell'Italia antica.
La statua di un guerriero sannita a Pietrabbondante (is)
Al principio del De cive Thomas Hobbes colloca un eroe italico antiromano, Ponzio Telesino. Dopo aver ricordato che Catone il Censore (secondo Plutarco) definiva «belve feroci» tutti i re, chiunque essi fossero, commenta: «Una ben maggiore belva era lo stesso popolo romano, che aveva depredato tutto il mondo per mezzo dei suoi generali, denominati Africani, Asiatici, Macedonici, Acaici, e di tutti gli altri che avevano ricevuto un soprannome dalle genti che avevano spogliato!». Ed è a questo punto che ricorda il duro atto d'accusa di Ponzio Telesino, alla vigilia della battaglia di Porta Collina combattuta senza successo contro Silla, quando Ponzio, passando in rassegna le sue truppe «gridava che doveva essere diroccata e distrutta Roma stessa», e «che non sarebbero mai scomparsi i lupi che privavano gli italici della loro libertà, se non fosse stata abbattuta la selva in cui trovavano rifugio». Gli italici erano stati cacciati da Roma con una guerra di conquista durata secoli, cui solo la meteorica apparizione di Annibale sul suolo italiano, verso la fine del III secolo a. C., aveva imposto un temporaneo arresto.
Nel 1925 il maggiore studioso allora vivente di antichità classica, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, fu a Firenze nel quadro della «settimana tedesca»: un segno di riconciliazione culturale dopo la tremenda guerra che aveva contrapposto Italia e Germania. E pronunciò un saggio, intitolato Storia italica, che nulla concedeva alla retorica del nostro nazionalismo, di cui è emblematico quel verso orrendo dell'Inno di Mameli sull'Italia «schiava di Roma». Pur conoscendo le fisime del suo uditorio, Wilamowitz disse serenamente: «La storia d'Italia ha un contenuto più ricco. Un tempo tutte le sue stirpi ebbero la loro propria vita e una civiltà propria, che Roma ha distrutto, compresa la grecità della Sicilia». E soggiungeva che «l'ultima lotta per la loro vita etnica» gli italici l'avevano tentata con la guerra sociale, di cui la vittoria feroce di Silla era stata in certo senso l'ultimo atto.
Quindici anni più tardi, nel 1940, Simone Weil - allora giovanissima - pubblicava un saggio memorabile, La politica estera di Roma e la politica di Hitler, in cui al di là del parallelo che istituisce sin dal titolo fa una considerazione per molti versi simile a quella del grande filologo tedesco, ma riferita al mondo gallico. Segnala infatti, e con molta efficacia, che la cosiddetta romanizzazione della Gallia fu in realtà - oltre che un genocidio in termini di vite umane - l'estirpazione di una civiltà: di una civiltà che non parla più a noi per la semplice ragione che è stata cancellata.
Nel considerare l'unificazione romana del mondo mediterraneo e celtico-danubiano, gli storici sono di fronte a un bivio: o compiacersi di quel sanguinoso processo storico guardando agli effetti (tale fu già l'atteggiamento di una parte delle élites greche le quali conseguirono un ruolo di «condominio diseguale» del mondo romanizzato) oppure porre in luce i costi non solo umani ma di civiltà che quel processo di unificazione ha determinato.
Non fu però univoco l'atteggiamento delle élites greche. Da questo punto di vista, merita di essere osservato l´esito divaricato cui approdarono esponenti della corrente di pensiero forse più influente nel periodo di massima fioritura del mondo greco-romano: lo stoicismo. Tale corrente di pensiero recava dentro di sé un potente presupposto ideale che andava in direzione dell'unificazione del genere umano entro una cornice organicistica e «provvidenziale», e cioè l'idea della Cosmopoli. E tuttavia tale visione poteva approdare a due esiti opposti: quello di Panezio e di Posidonio, "cantori" (il termine è irriverente, ma il concetto non è erroneo) del predominio universale romano, e quello di Blossio di Cuma (non a caso un italico) che, dopo aver ispirato le riforme di Tiberio Gracco, andò a morire, al fianco degli schiavi del regno di Pergamo, ribelli al passaggio del loro paese sotto il dominio di Roma, stabilito in virtù del «testamento» del loro ultimo sovrano.


“la Repubblica” 22 settembre 2007

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