D'Alema, segretario dei
Ds, alla caduta di Prodi dovuta all'avventurismo di Bertinotti, quella del 1998, avrebbe potuto, forse dovuto, chiedere per conto del suo partito, le elezioni
anticipate. Tutti gli osservatori peraltro prospettavano una vittoria netta
della coalizione di centrosinistra. Ma si lasciò tentare dalle
sirene. Cossiga gli disse: “Se vai tu al governo, te la garantisco
io la maggioranza”. D'Alema disse sì e Cossiga gli portò in dote
i voti dei mastelliani, degli amici di Buttiglione e di qualche suo
amico personale. Facevano maggioranza e il leader Massimo fu contento
di mettersi alla prova, avendo una grande fiducia nelle sue doti di
statista. Qualcuno ipotizzò che avesse organizzato lui la caduta del
precedente governo e s'inventò un neologismo, “dalemone”, con il
significato di tiro mancino. A questa storia molti, tra cui Prodi,
non hanno mai creduto e più tempo passa sempre meno appare
credibile.
D'Alema, da capo del
governo, si prestò surrettiziamente alla guerra contro la Serbia
voluta dagli USA; si mise l'elmetto e offrì le basi per i
bombardieri. Fu da molti criticato, anche tra i Ds.
D'Alema, da capo del
governo, disse: "Alle aziende che aumentano il personale
passando da 15 o meno di 15, a più di 15 dipendenti, si può
consentire una deroga dall'articolo 18 dello Statuto dei diritti dei
lavoratori". Era quello che prevedeva il reintegro del
lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo.
Cofferati, segretario della Cgil si oppose senza se e senza ma:
ricordò il valore storico di quella tutela e indicò il grave
rischio che si correva nell'aprire una maglia.
D'Alema, da segretario Ds
prima e da capo del governo dopo, non esitò a schierarsi
esplicitamente con Colaninno e gli altri "capitani coraggiosi"
che avevano comprato a ottimo prezzo la società telefonica di stato
nelle privatizzazioni di Ciampi.
Più tardi D'Alema, non
più al governo, ma presidente dell'assemblea nazionale Ds, con
l'allora fido Latorre, incoraggiò il tentativo dell'Unipol, la
società di assicurazioni del movimento cooperativo, di conquistare,
anche con alleanze spregiudicate (i “furbetti del quartierino” di
certe intercettazioni), il pacchetto di maggioranza della BNL.
Non pochi dei suoi vecchi
compagni, intanto, si erano sdraiati sulle posizioni della sinistra
liberale, filocapitalistica, e non avevano da ridire su queste
scelte, ma c'era tra loro chi, avendo D'Alema in antipatia, godeva delle sue difficoltà e magre figure.
Tutte queste scelte, e
altre, furono però considerate esecrabili dentro e fuori il suo
partito, da quei vecchi compagni che continuavano a richiamarsi alla
sinistra classista (imperniata sul lavoro subordinato, sul movimento
operaio e contadino) e alla tradizione socialcomunista. Ho quasi
sempre condiviso l'esecrazione, ma oggi mi pare giusto sottolineare
che le prese di posizione o gli atti di D'Alema, per quanto
criticabili, comunque rientravano tutti nella prassi della
tradizionale sinistra del lavoro.
Gli accordi con le
imprese capitalistiche nel corso del 900, per esempio non li avevano
fatto solo i sindacati, ma anche i partiti “operai” (così
venivano chiamati), soprattutto quando assumevano una funzione di
governo nazionale o locale. L'accordo proposto nel 1999 da D'Alema
sull'articolo 18 sembrò a molti un cedimento alle pressioni del
padronato che chiedeva “mano libera” sulla forza lavoro. Forse
era un giudizio ingeneroso, in ogni caso fece bene Cofferati ad
opporsi.
Va comunque detto che il
metodo (e anche il merito) di quella proposta risulta affatto diverso
da quello del cosiddetto Jobs Act. D'alema
la fa in quanto
rappresentante politico del
mondo del lavoro, in quella veste vorrebbe trattare col padronato; la
ritira subito di fronte al netto rifiuto del maggiore sindacato. Il
Jobs Act, invece, si
inserisce, a voler essere benevoli, nella tradizione
cristiano-sociale, interclassista, ma viene approvato con un piglio
decisionista che è più caratteristico della destra conservatrice
(della Thatcher, per intenderci): il governo Renzi parla in nome
dell'interesse generale, ma in realtà assume come dogma i principi
di un liberismo temperato e come referente sociale l'imprenditore
capitalista. Per i governativi è costui a creare ricchezza e
benessere diffuso (altro che sfruttamento!); il lavoro al contrario è
ridotto a mero strumento di produzione a cui offrire qualche tutela
se necessario, ma non è soggetto principale dell'economia e grande
risorsa politica come nella tradizione socialista. La libertà di
licenziamento, in questa luce, è la ratifica della restaurazione
padronale nei luoghi di lavoro, una bandiera ideologica che
accompagna il puntuale fiancheggiamento, anche mediatico, della FIAT
nella sua guerra contro il sindacato dell'autonomia dei lavoratori e
della tradizione socialcomunista.
D'Alema
insomma cerca il consenso della sua parte, mentre Renzi sta
dall'altra parte, con i padroni contro la Cgil, e con essa cerca
pervicacemente la rottura e lo scontro.
Quanto
alla infausta pagina dei “capitani coraggiosi” D'Alema agisce con
la stessa logica di Mitterand, di Craxi, di Papandreu, di González,
dei “socialisti mediterranei” di un quindicennio prima. Tutti
costoro, per spezzare il predominio delle vecchie oligarchie nel
sistema finanziario ed economico, avevano favorito l'emergere e
l'affermarsi di capitalisti “amici” in grado di controbilanciare
i poteri consolidati. I risultati erano stati fallimentari: i nuovi
capitalisti non erano migliori dei vecchi e le politiche da comitato
d'affari avevano innescato processi di corruzione nel ceto politico
socialista.
Quanto
alla questione della Banca conquistata (e poi persa) da Consorte per
Unipol, l'aiuto fornito da D'Alema e dal suo partito, appare del
tutto in linea con la tradizione delle socialdemocrazie nordiche, ove
sindacati e/o cooperative gestiscono istituti di credito a sostegno
delle imprese cooperative, delle iniziative mutualistiche e degli
stessi partiti operai. Si possono giudicare di pessimo gusto certe
manifestazioni di gioia registrate nelle intercettazioni telefoniche,
si può diffidare delle commistioni politica-economia, si può
trovare sconcia l'alleanza con speculatori e finanzieri d'assalto, ma
non imputare a D'Alema, come se fosse una novità da lui introdotta,
il fatto che imprese e banche facciano capo al movimento operaio. I
partiti socialisti del resto sono nati spesso con l'obiettivo
dichiarato di mettere le mani nel sistema economico, di togliere alla
borghesia capitalistica e affidare ai lavoratori e alla loro gestione
solidale i mezzi di produzione e di scambio.
Neanche
il supporto offerto da D'Alema agli USA per i bombardamenti a
Belgrado al tempo del suo premierato può stupire. Accanto alle
componenti pacifiste e neutraliste c'è sempre stata nelle
socialdemocrazie una forte tendenza all'interventismo militare,
spesso supportato da argomentazioni democratico-umanitarie.
L'appoggio alla guerra USA nella ex Yugoslavia aveva anche
motivazioni meno nobili. In quanto ex-comunisti approdati
all'Internazionale socialista, per superare ogni diffidenza, i Ds
volevano dimostrarsi più filoamericani di tutti gli altri ogni volta
che si poteva.
In
sintesi, anche nelle scelte più criticate e discutibili, D'Alema non
è passato – come è accaduto ad altri - nel campo di quelli che
una volta si chiamavano “partiti borghesi”, piuttosto s'è
comportato come un socialdemocratico destrorso, in linea con quella
tradizione. Non è stato neanche quel furbone tattico che si
racconta: si è mosso malissimo anche negli ambiti in cui si riteneva
fortissimo, quelli della manovra interna al partito.
Si
parla spesso del cattivo carattere di D'Alema, della sua spocchia,
della sicumera; a me sembra che sia soprattutto la cultura politica
la matrice dei suoi insuccessi e che essa sia inadeguata alla
ricostruzione, dopo la sconfitta novecentesca, di una sinistra ampia,
classista ed ugualitaria. Basta ricordare il suo politicismo
verticista, la mancanza di qualsiasi interesse per il femminismo, per
le questioni ambientali, per i temi della comunicazione.
La tradizione socialcomunista dell'Otto e del Novecento ha dato molto ai processi di emancipazione e di liberazione di popoli, classi sociali, gruppi, individui, c'è ancora tanto da prendere da essa, ma, dopo la fine ingloriosa dell'Urss e le rivoluzioni tecnologiche e produttive degli ultimi decenni, c'è molto da innovare per combattere efficacemente le nuove e gravi disuguaglianze sociali, le nuove forme di oppressione e sfruttamento. A sentirlo parlare oggi, a fronte dei politicanti rozzi e incolti di cui è piena l'Italia, D'Alema sembra uno che ha visione, spessore, genio. Ma non è così: le cose convincenti che dice sono solo di buon senso e il buon senso è utile ma non basta.
Non solo D'Alema è vecchio e inadeguato, ma anche noi che ne abbiamo combattuto le scelte. Quando – ed è bene che accada il prima possibile – si andrà a Genova o da qualche altra parte, a rifare il partito del socialismo largo, a tutti aperto, è bene che D'Alema ci sia con tanti altri compagni che hanno sbagliato con lui o contro di lui, ma io spero che sia una leva di dirigenti giovani, possibilmente estranei alle pratiche non esaltanti della sinistra e del centrosinistra nella cosiddetta “seconda repubblica”, a guidare la rinascita.
La tradizione socialcomunista dell'Otto e del Novecento ha dato molto ai processi di emancipazione e di liberazione di popoli, classi sociali, gruppi, individui, c'è ancora tanto da prendere da essa, ma, dopo la fine ingloriosa dell'Urss e le rivoluzioni tecnologiche e produttive degli ultimi decenni, c'è molto da innovare per combattere efficacemente le nuove e gravi disuguaglianze sociali, le nuove forme di oppressione e sfruttamento. A sentirlo parlare oggi, a fronte dei politicanti rozzi e incolti di cui è piena l'Italia, D'Alema sembra uno che ha visione, spessore, genio. Ma non è così: le cose convincenti che dice sono solo di buon senso e il buon senso è utile ma non basta.
Non solo D'Alema è vecchio e inadeguato, ma anche noi che ne abbiamo combattuto le scelte. Quando – ed è bene che accada il prima possibile – si andrà a Genova o da qualche altra parte, a rifare il partito del socialismo largo, a tutti aperto, è bene che D'Alema ci sia con tanti altri compagni che hanno sbagliato con lui o contro di lui, ma io spero che sia una leva di dirigenti giovani, possibilmente estranei alle pratiche non esaltanti della sinistra e del centrosinistra nella cosiddetta “seconda repubblica”, a guidare la rinascita.
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