La statua di Camnpanella a Punta Stilo |
Suscitò discussioni la
lettura che negli anni 70 del Novecento Alberto Asor Rosa fornì del
Seicento italiano, letterario e non solo, nel volume che curò per la
grande Letteratura Italiana edita da Laterza e diretta da Muscetta.
La sua rivalutazione della cultura controriformistica, soprattutto
ecclesiastica, come esempio di organicità, di ricerca intellettuale
organizzata e legata a un progetto, fu considerata da molti una
provocazione perché comportava una sottovalutazione delle aree di
dissidenza, non tanto quelle del mondo laico aristocratico, ma quelle
dei nuovi scienziati e dei nuovi filosofi. Posto qui l'intervento su
“Rinascita” del filosofo Nicola Badaloni. (S.L.L.)
Alberto Asor Rosa |
La pubblicazione di Il
Seicento. La nuova scienza e la crisi del barocco (Bari, Laterza)
di Alberto Asor Rosa, è un avvenimento importante nel mondo
letterario italiano; è anche un avvenimento importante per i
marxisti e quali tornano a discutere di epoche della storia
letteraria e civile da qualche tempo lontane dalla loro ricerca,
impegnandosi in un proprio discorso autonomo e nel contempo in una
discussione interna. Vorrei dedicare questa recensione soprattutto
all’avvio di una tale discussione ed i lettori perdoneranno se chi
scrive è un non-specialista nel senso della storia letteraria.
Alberto Asor Rosa non ha
bisogno di presentazione. Tuttavia vorrei prendere le mosse da un
altro suo libro recente, che ho avuto il piacere di presentare in
occasione di un dibattito in una città toscana. Si tratta di
Intellettuali e classe operaia (Firenze, 1973), ove Asor Rosa
ha condensato la sua visione filosofica e metodologica. Nel
riassumerlo, a me sembrava che il pensiero di Asor Rosa ruotasse
intorno a due cardini: 1) l’atteggiamento di rottura verso
l’ideologia intesa come espressione delle aspirazioni ristrette di
gruppi di intellettuali che sublimano tali aspirazioni a ragioni del
movimento delle masse; 2) la dolorosa constatazione della separazione
degli intellettuali come aspetto della più generale divisione del
lavoro, sicché il marxismo appariva soprattutto come teoria di tale
divisione e come prospettiva di ricomposizione. I due filoni si
sostenevano a vicenda dando luogo ad un gioco tra la separazione
reale e la sublimazione ideologica. Di qui la conclusione di Asor
Rosa che il modo realistico di porre il problema dell’intellettuale
era quello di demistificarne gli atteggiamenti ideologici facendone
un mero specialista disposto a porre le sue capacità tecniche a
servizio di una alleanza colla classe operaia, così realisticamente
e prosaicamente stipulata.
Le obiezioni che
rivolgevo ad Asor Rosa erano le seguenti: 1) secondo la sua visione
delle cose, la società di oggi si fonda, come fenomeno
caratterizzante e specifico, sulla divisione del lavoro e sui suoi
riflessi di copertura ideologica; ma allora come spiega che Marx ed
Engels abbiano trasmesso alla classe operaia non i propri «umori»
di intellettuali separati ma invece una teoria della genesi, dello
sviluppo e morte della società capitalistica?; 2) quando Asor Rosa
proponeva la sua alleanza tra intellettuali e classe operaia nel modo
«prosaico» che ho detto sopra e del tutto disideologizzato (un modo
che ricordava la ricerca ed il «culto» degli specialisti in Urss in
epoca immediatamente postrivoluzionaria), egli escludeva quel
processo di maturazione di unità politica e di convinzioni ideali
profonde che hanno costituito un aspetto specifico del marxismo
italiano. Qualcosa di diverso anche da quel momento della storia
sovietica in cui l’arte proletaria si proponeva come ideologia
ufficiale, perché in Italia l’unità è politica e la diversità
degli strumenti di ricerca e di espressione può coesistere colle
motivazioni ideali comuni che fanno da cemento all’unità politica.
Abbiamo (almeno quasi sempre) sufficiente maturità politica per
intendere che non è il partito il luogo delle strumentalizzazioni
degli intellettuali, ma all’opposto sono le idee degli
intellettuali che il partito sottopone ad una verifica critica
continua in relazione alle «situazioni» ed alle «prospettive». In
breve rivolgevo ad Asor Rosa la critica di nascondere dietro
all’atteggiamento anti-ideologico una sostanziale adesione ad una
sorta di sociologia della conoscenza in cui andava perduta la ricerca
dell’obiettività, pur intesa umanamente e storicamente, per dar
luogo ad un rapporto in cui prevalevano gli interessi prammatici.
Nicola Badaloni |
Asor Rosa mi rispose
allora riconoscendo che la sua attenzione e simpatia andavano
effettivamente a quelle zone del Capitale di Marx ove era
teorizzata la separazione della forza-lavoro rispetto alle condizioni
materiali di produzione e che da questa preferenza derivava anche il
suo modo di intendere la separazione degli intellettuali; che
tuttavia nel caso specifico una cosa erano gli intellettuali
«schierati» ed altra gli intellettuali come « massa sociale ».
Tutta la sua attenzione era andata al secondo gruppo, perché così
imponeva la realtà sociale della nostra epoca. La risposta era assai
intelligente e «graffiava», mettendo in luce un limite della mia
presentazione. Poiché tuttavia essa non mi persuase allora
interamente (come seguita a non persuadermi ) ho letto il nuovo libro
storico di Asor Rosa per attenderlo al varco della mia obiezione di
allora e per intendere come egli risolva nell’occuparsi del
Seicento il problema del rapporto tra l’intellettuale di massa e
quello di avanguardia.
Devo dire, per onestà
intellettuale, che, anche in questo caso, mi apprestavo a leggere il
suo libro avendo delle idee sull’argomento da lui trattato, frutto
di qualche studio passato. Sono perciò costretto a riassumere queste
idee, anche a costo di passare per cattivo recensore (ma una
discussione è qualcosa di più che una recensione). Secondo me il
600 è caratterizzato, in relazione al problema del rapporto degli
intellettuali colla società, dai seguenti fenomeni: 1) Una cultura
laica, spregiudicata, libera nel costume, espressione di gruppi
nobiliari detentori della proprietà fondiaria. Si tratta della
cultura dominante nelle università e nelle corti, il cui limite
profondo consiste nel suo carattere volutamente «segreto» e
«ristretto». Che cosa significava infatti che alla corte di Cosimo
si andasse alla ricerca di una antica sapienza etrusca se non che la
verità del cattolicesimo era disattesa come «verità» di gruppo
anche se accolta come morale sociale? Che cosa significava l’ateismo
di un Borro, o di un Paganino Gaudenzi, o di un Bérigard, se non che
la nobiltà manteneva una sua filosofia «segreta», che si
affrettava tuttavia a condannare o a lasciare indifesa quando essa,
travalicando certi limiti, dava motivi di scandalo? Ed ancora, che
cosa significava la traduzione del pensiero di Machiavelli nel quadro
del machiavellismo se non che la scienza politica doveva essere messa
al servizio di coloro che volevano «proteggere» (cioè liberamente
sfruttare) le masse, soprattutto contadine, sottraendo la loro
apparente «comunità», già inquinata da tanti elementi di
sfruttamento, ad ogni possibilità di decisione autonoma? Libertà di
comportamenti e razionalismo segreti per chi comanda; servitù e
«protezione» per chi obbedisce, ecco in breve le intenzioni
storiche del gruppo. 2) Un ceto intellettuale sempre di vertice, non
più laico ma ecclesiastico, altrettanto spregiudicato ed anch’esso
interessato alla vigilanza ed alla protezione della residua comunità
in una dialettica interna coll’altro ceto che lo portava talvolta a
reprimerne gli atteggiamenti meno conformisti, ma in accordo
sostanziale con esso quando era in gioco la necessità di
«proteggere» la «comunità» di base. 3) Un diverso e tuttavia
costante manifestarsi di una nuova forma di coscienza che rifiutava
l’antinomia tra la «segretezza» e la «repressione» e che
cercava di portare alla luce una nuova logica, certamente
condizionata dalle due realtà sopradescritte, ma capace di fare
intravedere la alternativa di un autonomo movimento ed interna
scissione di quella «comunità» cui ci si riferiva sopra. In questo
quadro la teoria galileiana dei due linguaggi stava ad indicare
l’unità della verità naturale (contro l’aristocraticismo delle
due «verità»); il naturalismo di Campanella, che pure seguitava a
teorizzare la comunità, stava ad indicare l’autonomia del
movimento complessivo di essa, sulla base di principi naturali, ed
infine la storia delle accademie scientifiche stava a significare la
combinazione della cultura scientifica colla vecchia cultura
«segreta» e la sua lenta modificazione e riduzione.
Naturalmente si tratta di
uno schema a maglie larghe. Il punto caratterizzante (cioè il
criterio di giudizio) era dato dalla autonomizzazione del movimento
della «comunità» umana e dal riconoscimento della possibilità
della sua scissione. Al termine di questo grande movimento e
dibattito un filosofo, oggi del tutto fuori moda che per questo mi
piace qui ricordare, perché io resto d’accordo con Marx e con
Labriola nel ritenerlo un grande cervello, ne riassumeva e
concettualizzava i termini. Si tratta di quel G. B. Vico il quale
capì perfettamente i caratteri di quella divisione tra cultura
segreta laica e repressione religiosa, rifiutò la sapienza «riposta»
(che pure aveva sostenuto nella sua giovinezza), pose gli «ebrei»
nel limite di una storia del mondo che aveva a sua protagonista la
natura (anche se talvolta preferiva chiamarla provvidenza)
soprattutto dette voce alla comunità, mostrandone il divenire
irrefrenabile (qualunque fossero ie intenzioni e le arti dei vari
capi del governo) perché era storia di masse di uomini, di rapporti
di proprietà e di conformi mentalità. Ho ricordato questa
conclusione perché oggi va di moda la sapienza riposta e la cultura
di «sinistra» si affanna a dimostrare che sono «materialistiche»
le sterminate antichità con cui i governi sentirono il bisogno di
distinguere la storia della loro genesi da quella loro attribuita dai
papi; sono progressive le interpretazioni ermetiche; gli ideologi
della aristocrazia, i classicisti, gli antiquari sono la voce del
futuro. Di contro, chi si mischia colla teologia, fosse pur essa
razionale, è giudicato invischiato nel passato, ed al Vico si
preferisce qualche erudito del ’500 o del ’600, qualche
antiquario del ’700, senza intendere che egli ha vissuto la crisi
culturale italiana, rimettendo in circolazione, sullo sfondo del
ricordato naturalismo (e quindi della riscoperta del movimento
interno della «comunità»), le acquisizioni del pensiero filosofico
e scientifico italiano degli ultimi due secoli.
Ma perché dire queste
cose recensendo un libro che del Vico (perché esce dai limiti
temporali prescritti) non dice giustamente nemmeno una parola? La
trattazione del Vico è infatti, nella storia della letteratura del
Muscetta di cui il libro di Asor Rosa è parte, affidata a Gaetano
Compagnino, che ne tratta (come vogliono i tempi) dopo essersi
prudentemente ricoperto il volto con una mascherina sterilizzante.
Quando l’attuale revival vichiano in America ed altrove sarà udito
in Italia o quando Althusser, estimatore del Vico, avrà scritto su
di lui come da tempo promesso, allora finalmente gli studiosi
italiani «prudenti» annuseranno il vento nuovo e si toglieranno
quella mascherina sterilizzata, che è il modo moderno di coprirsi il
volto. In realtà ho detto queste cose per esprimere l’apprezzamento
per Asor Rosa che va contro corrente. Mi piace l’attenzione che
egli porta alla organizzazione della cultura, la consapevolezza della
ambiguità e duplicità della cultura barocca; apprezzo il modo come
ha valutato Sarpi, il drammatico rilievo che dà alla figura ed al
pensiero del Campanella, la esposizione del programma galileiano, la
concettualizzazione della cultura delle accademie e la trasformazione
conseguente del classicismo in qualcosa di diverso, che fa da
sostegno a un nuovo se pur ancor tenue razionalismo.
Eppure devo ripetergli in
questa sede le obiezioni di fondo che facevo a Intellettuali e
classe operaia. La divisione tra
intellettuali e masse prende il sopravvento sugli altri problemi in
modo tale che la sua ricomposizione viene in qualche modo accettata
su qualsiasi terreno essa avvenga. Naturalmente Asor Rosa sa che il
naturalismo è il filo rosso del pensiero del Campanella ed egli
cerca lì il momento unificante. È perché la natura ci suggerisce
in profondità le ragioni del nostro essere, del nostro pensare e
del nostro amare, che diviene necessario dare battaglia ai tiranni ed
ai preti e filosofi che li sostengono. Perché allora andare a
confondere la comunità che vuole Campanella con quella voluta dalla
Controriforma, dando una mano alle interpretazioni più reazionarie?
Asor Rosa sa benissimo che la battaglia di Galilei era tutt’altro
che perduta in partenza, come non lo fu quella del Sarpi. Fu la viltà
della cultura laica (cortigiana ed universitaria) e dei principi che
lo travolse. Perché allora trasformare la sua battaglia in «sublime
ingenuità», perché dare connotazioni realistiche solo agli
avversari e perché dare tanta importanza a questo «realismo» di
retroguardia? E come è possibile poi interpretare il rinascente
razionalismo di fine secolo come idoleggiamento di una
particolarissima idea di «progresso» e di «ordine» che poi
culmina in un concetto di ordine contrapposto a sfrenamento e
disordine, senza dire nel contempo che questa nuova idea di ordine
corrisponde al distacco dalla «comunità» di un nuovo gruppo
sociale che, senza dubbio è già pieno di cautele, ma anche
testimonia della esistenza di una concezione del mondo del tutto
nuova? E poi come nascondersi la parentela di questa nuova filosofia
con gli sconfitti del ’600 e soprattutto col grande Galilei?
A me sembra che
l’attenzione dedicata quasi esclusivamente alla questione della
divisione del lavoro, anziché al movimento delle classi ed alle loro
ideologie giochi su questo terreno un brutto tiro ad Asor Rosa. Nella
storia non vi sono solo le disgregazioni e le ricomposizioni, ma
anche il liberarsi delle classi; e la storia del ’600 è, secondo
la mia modesta opinione, la storia della ricostituzione di una
comunità repressiva fatta rinascere e poi violentemente «protetta»
nonostante che la sua disgregazione borghese fosse già in uno stato
assai avanzato. Il fatto che le stesse forze preposte a tale violenta
repressione rimanessero contagiate in parte dalla nuova cultura
dimostra la debolezza del loro programma politico e sociale. La
rottura di tale comunità «protetta» segna l’affermarsi di una
nuova filosofia (l’illuminismo) che anche in Italia non è fenomeno
tanto da poco. Il tendenziale «organicismo» del pensiero di Asor
Rosa (risultato di una sorta di rovesciamento di quella divisione del
lavoro che Nietzsche ha teorizzato come necessaria e che Asor Rosa
respinge marxisticamente come segno della povertà dell’uomo di
oggi) lo porta a sopravvalutare l’importanza dei luoghi di
aggregazione delle volontà qualunque essi siano. Bisognerà, io
credo, che egli presti maggiore attenzione alla qualità delle idee
che le grandi aggregazioni umane portano al punto di fusione e di
socializzazione, a meno che, anche in questo caso, non sia io a
lasciarmi prendere la mano dalla «ideologia».
“Rinascita”, 10
gennaio 1975
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