Tour de France 1949, XII tappa Luchon-Tolosa, Fausto Coppi |
Parigi, 25 - È finita, finalmente: ho vinto! Non esagero: il "Tour"
è come una mazzata in testa. Provare per credere: 4.800 e più
chilometri, col sole che soffoca e con la neve che fa battere i denti
dal freddo. Certe volte si va avanti perché si ha l'abitudine di
correre in bicicletta: per noi è come camminare a piedi. Ma, spesse
volte, nella testa c'è il diavolo che dice: «Chi te lo fa fare,
Fausto? Vattene a casa!». Allora vien voglia di seguire il consiglio
del diavolo; ma poi il mestiere impone di lavorare. È un lavoro
duro, specialmente per me che ho la fortuna e la sfortuna di
chiamarmi Coppi.
C'è il nome da difendere; ci sono le valanghe di lettere che
arrivano dall'Italia e dal mondo, e che mi dicono: «Dai, Fausto;
forza Coppi!». Come si può - allora - seguire il consiglio del
diavolo? Non si può. Si tira avanti, anche contro la cattiva sorte.
Un esempio. Tappa Rouen-St. Malo: io "strappo" con Kubler
ed altri, e guadagniamo molta strada. Ma ecco la jella: in uno
scontro con Marinelli, cado e rompo la forcella. Non posso avere
subito una bicicletta della mia misura, per il cambio, e così perdo
un mucchio di minuti: quasi dieci. Mi siedo sul bordo della strada,
ed aspetto finché il gruppo arriva e mi passa davanti. Fatica
sprecata; il morale se ne va e bisogna ricominciare da capo. Ma la
pedalata ha perduto l'agilità e la forza: non è più "rotonda".
Arrivo al traguardo e la gente dice: «Guarda, Coppi ha mezz'ora di
ritardo!». E qualche giornalista pensa e scrive: «Coppi non è un
uomo da Tour».
Riecco il diavolo, che dice ancora: «Vattene a casa, Fausto!». No:
punto i piedi. C'è il cronometro, la mia specialità. Da Les Sables
d'O-lonne a La Rochelle, guadagno un po' di minuti: una parte di
quelli che la jella mi aveva rubato a Saint Malo. Ma ho ancora una
brutta classifica: tiro avanti lo stesso.
I Pirenei. A Luchon "vedo" già il traguardo, potrei
arrivare per primo e portarmi sulla ruota della "maglia gialla".
Macché: una gomma a terra, e Robic con Lucien Lazaridès se la danno
a gambe. Ora si fa dura: sino a Cannes, tappe piene e calde; vien
voglia - qualche volta - di bere anche l'acqua del mare!
Le Alpi : la salute è buona, il morale su, e c'è, in me, la voglia
di far vedere che sono anche capace di soffrire, insomma che sono un
"uomo da Tour". A Briancon vince Bartali, ma ad Aosta vinco
io e mi metto il "paletot", cioè la maglia gialla. Ora è
più facile per me; c'è ancora un lungo pezzo di strada da fare col
cronometro. Poi è semplice portare la maglia gialla a Parigi.
Ho vinto, è finita, finalmente! Il mio nome è sulla bocca di tutti;
è gridato forte. Ho le mani piene di fiori; le faccia, che era
bagnata di sudore, me l'hanno asciugata i baci degli amici. A
tracolla mi hanno messo una sciarpa di seta gialla, dove in nero è
ricamato: "Tour de France 1949". La porterò a casa, la
sciarpa di seta gialla: in dono a mia moglie che - lontano - per
venticinque giorni ha sofferto più di me.
“l’Unità”, 26 luglio 1949
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