23.9.17

Il sogno dell'arte sovversiva. Da Caravaggio agli Impressionisti alle avanguardie (Francesca Bonazzoli)


Caravaggio, Morte della Vergine
«Con la fede nello sviluppo in una nuova generazione di creatori e di fruitori noi convochiamo l'intera gioventù e in quanto giovani portatori del futuro intendiamo conquistare la libertà di vivere e di operare opponendoci ai vecchi poteri costituiti. È dei nostri chiunque sappia dare forma direttamente e senza falsificazioni a ciò che lo spinge a creare».
Il proclama della Brücke è uno dei tanti che nel Novecento ha trasformato la storia dell'arte, da cammino ordinato verso la progressiva conquista della mimesi a percorso accidentato, compiuto a balzi all'indietro per distruggere la strada percorsa.
Per secoli il sistema delle botteghe, presso cui gli artisti imparavano il mestiere fin da ragazzini cominciando a ricopiare i disegni degli allievi più grandi, aveva funzionato come anello fluido e ininterrotto di trasmissione del sapere. Gli allievi superavano il maestro per bravura, non per conflitto. Anche quelli più dotati, come per esempio Leonardo nella bottega del Verrocchio, non si distinguevano mai in opposizione al maestro ma piuttosto come il fiore all'occhiello, degno di collaborare alla pari come fecero i due nel «Battesimo di Cristo». Le rivalità fra gli artisti esistevano ma ognuno di loro aveva la certezza di partecipare alle «magnifiche sorti progressive della pittura», ovvero di riuscire a superare il grande modello della classicità.
Caso a parte fu Caravaggio, l'unico artista che lavorò «contro», poiché pretendeva di affermare la sua pittura dal vero, «dal naturale», contro l'artificiosità manierista basata sulla consueta ripetizione dei modelli passati. Sbeffeggiato dai principi dell'Accademia, portato addirittura in tribunale a difendere la sua onorabilità di pittore e censurato dagli altari delle chiese, la sua rivoluzione durò solo una trentina d'anni e poi fu schiacciata dalla «controriforma» barocca.
Bisogna aspettare l'Ottocento per ritrovare un'analoga rottura, quando gli Impressionisti, come Caravaggio, fanno della ribellione il manifesto della loro pittura e della distruzione delle convenzioni la loro forza. Dagli Impressionisti in poi, la storia dell'arte si trasforma in una continua rivendicazione di rottura delle regole che ostacolano la creatività bloccandola in modelli ripetitivi, accademici e percepiti come vecchi. Possiamo dire che, da allora, l'arte diventa una faccenda per giovani e una liberazione dai vincoli borghesi.
Pensiamo ai secessionisti di Vienna, ai futuristi, dadaisti, suprematisti, espressionisti, cubisti, surrealisti, con tutti i loro proclami sfacciatamente giovanilisti e provocatori, il rifiuto dello storicismo e il loro disprezzo per le regole perbeniste e le buone maniere sociali. Quello che vogliono è shoccare, ribaltare il tavolo, stupire, fare «arte col martello», attirare anatemi, fino all'estrema provocazione, quella di Piero Manzoni, che a ventott'anni mette la merda in scatola e la vende allo stesso peso dell'oro.
Con le avanguardie, termine derivato dal linguaggio militare e che entra in uso proprio nel Novecento, l'arte smette di marciare al passo con lo spirito del tempo per stravolgerlo e criticarlo dal di fuori. L'artista non vuole più servire ma sovvertire. La sua ribellione è anche sociale perché scardina modelli di vita ordinata, esalta la bohème, l'anarchia, abbatte i valori consolidati. Può presentarsi anche con caratteri messianici, di rigenerazione dell'intera società, come fecero i suprematisti e, ancora negli anni Settanta, figure carismatiche come Joseph Beuys. Si sente minoranza rispetto al pensiero dominante; un antagonista, non organico al potere. Non vuole più lavorare per l'oligarchia ma per un'élite che lo comprende.
È in questo contesto che nasce anche la critica, sostituendosi alla storiografia. Oggi, però, la spinta propulsiva delle avanguardie si è esaurita. Gli artisti fanno quello che vogliono dal momento che non ci sono rimaste più regole da abolire. E poiché la ribellione artistica non ha più ragion d'essere, si è spenta di conseguenza anche quella sociale. Le uniche a sopravvivere sono ancora le grida dei critici, ultima quella di Jean Clair nel phamplet L'hivier de la culture che denuncia la degenerazione dell'arte contemporanea. Ma c'è una grande differenza: le cannonate dei critici sparano a salve perché sono rivolte contro l'arte e non contro la società, come facevano gli artisti. Le loro polveri sono bagnate perché le rivoluzioni le hanno sempre fatte, le fanno e le faranno gli artisti. Nonostante i loro critici.


“Corriere della Sera”, 24 settembre 2011

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