Caravaggio, Morte della Vergine |
«Con la fede nello
sviluppo in una nuova generazione di creatori e di fruitori noi
convochiamo l'intera gioventù e in quanto giovani portatori del
futuro intendiamo conquistare la libertà di vivere e di operare
opponendoci ai vecchi poteri costituiti. È dei nostri chiunque
sappia dare forma direttamente e senza falsificazioni a ciò che lo
spinge a creare».
Il proclama della Brücke
è uno dei tanti che nel Novecento ha trasformato la storia
dell'arte, da cammino ordinato verso la progressiva conquista della
mimesi a percorso accidentato, compiuto a balzi all'indietro per
distruggere la strada percorsa.
Per secoli il sistema
delle botteghe, presso cui gli artisti imparavano il mestiere fin da
ragazzini cominciando a ricopiare i disegni degli allievi più
grandi, aveva funzionato come anello fluido e ininterrotto di
trasmissione del sapere. Gli allievi superavano il maestro per
bravura, non per conflitto. Anche quelli più dotati, come per
esempio Leonardo nella bottega del Verrocchio, non si distinguevano
mai in opposizione al maestro ma piuttosto come il fiore
all'occhiello, degno di collaborare alla pari come fecero i due nel
«Battesimo di Cristo». Le rivalità fra gli artisti esistevano ma
ognuno di loro aveva la certezza di partecipare alle «magnifiche
sorti progressive della pittura», ovvero di riuscire a superare il
grande modello della classicità.
Caso a parte fu
Caravaggio, l'unico artista che lavorò «contro», poiché
pretendeva di affermare la sua pittura dal vero, «dal naturale»,
contro l'artificiosità manierista basata sulla consueta ripetizione
dei modelli passati. Sbeffeggiato dai principi dell'Accademia,
portato addirittura in tribunale a difendere la sua onorabilità di
pittore e censurato dagli altari delle chiese, la sua rivoluzione
durò solo una trentina d'anni e poi fu schiacciata dalla
«controriforma» barocca.
Bisogna aspettare
l'Ottocento per ritrovare un'analoga rottura, quando gli
Impressionisti, come Caravaggio, fanno della ribellione il manifesto
della loro pittura e della distruzione delle convenzioni la loro
forza. Dagli Impressionisti in poi, la storia dell'arte si trasforma
in una continua rivendicazione di rottura delle regole che ostacolano
la creatività bloccandola in modelli ripetitivi, accademici e
percepiti come vecchi. Possiamo dire che, da allora, l'arte diventa
una faccenda per giovani e una liberazione dai vincoli borghesi.
Pensiamo ai secessionisti
di Vienna, ai futuristi, dadaisti, suprematisti, espressionisti,
cubisti, surrealisti, con tutti i loro proclami sfacciatamente
giovanilisti e provocatori, il rifiuto dello storicismo e il loro
disprezzo per le regole perbeniste e le buone maniere sociali. Quello
che vogliono è shoccare, ribaltare il tavolo, stupire, fare «arte
col martello», attirare anatemi, fino all'estrema provocazione,
quella di Piero Manzoni, che a ventott'anni mette la merda in scatola
e la vende allo stesso peso dell'oro.
Con le avanguardie,
termine derivato dal linguaggio militare e che entra in uso proprio
nel Novecento, l'arte smette di marciare al passo con lo spirito del
tempo per stravolgerlo e criticarlo dal di fuori. L'artista non vuole
più servire ma sovvertire. La sua ribellione è anche sociale perché
scardina modelli di vita ordinata, esalta la bohème, l'anarchia,
abbatte i valori consolidati. Può presentarsi anche con caratteri
messianici, di rigenerazione dell'intera società, come fecero i
suprematisti e, ancora negli anni Settanta, figure carismatiche come
Joseph Beuys. Si sente minoranza rispetto al pensiero dominante; un
antagonista, non organico al potere. Non vuole più lavorare per
l'oligarchia ma per un'élite che lo comprende.
È in questo contesto che
nasce anche la critica, sostituendosi alla storiografia. Oggi, però,
la spinta propulsiva delle avanguardie si è esaurita. Gli artisti
fanno quello che vogliono dal momento che non ci sono rimaste più
regole da abolire. E poiché la ribellione artistica non ha più
ragion d'essere, si è spenta di conseguenza anche quella sociale. Le
uniche a sopravvivere sono ancora le grida dei critici, ultima quella
di Jean Clair nel phamplet L'hivier de la culture che denuncia
la degenerazione dell'arte contemporanea. Ma c'è una grande
differenza: le cannonate dei critici sparano a salve perché sono
rivolte contro l'arte e non contro la società, come facevano gli
artisti. Le loro polveri sono bagnate perché le rivoluzioni le hanno
sempre fatte, le fanno e le faranno gli artisti. Nonostante i loro
critici.
“Corriere della Sera”,
24 settembre 2011
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