Dalle tavolette
cuneiformi di Babilonia all'eroe di Cervantes, passando per le coppie
di conigli di Fibonacci: l'arte di enumerare che fonda i calcoli
moderni ha radici antiche.
Sono le fondamenta dei computer che regolano le nostre vite.Università degli Studi di Udine, Museo dell'informatica. Ricostruzione di una tavoletta sumerica contenente calcoli |
“Chi più onesto e
valoroso del celebre Amadigi di Gaula? Chi più saggio di Palmerino
d'Inghilterra? Chi più accomodante e trattabile di Tirante il
Bianco? Chi più galante di Lisuarte di Grecia? Chi più ferito e
feritore di Don Belianigi?”. L'elenco, nel terzo capitolo della
seconda parte del Don Chisciotte, non finisce qui, e del resto Don
Chisciotte è in grado di enumerare, anche in altre occasioni, un
insieme spropositato di cavalieri erranti, un catalogo di nomi e di
soprannomi dei più fantasiosi, della cui effettiva esistenza egli è
certissimo. Quando il signor Pietro Perez, curato e amico di Don
Chisciotte, dichiara il suo imbarazzo a credere che tutti quegli eroi
siano esistiti in carne e ossa, l'ingegnoso hidalgo ha buoni
motivi per spiegargli che è in errore. L'enumerazione avvalora la
tesi che i suddetti cavalieri siano vissuti davvero e chi ne dubita
si inganna.
Prima di morire, alla
fine delle sue imprese, Don Chisciotte saprà riconoscere di essersi
lui stesso ingannato. Rimane però lo sconcerto: da che cosa poteva
nascere in Don Chisciotte l'idea che quei personaggi fossero davvero
esistiti? Non basta attribuirne la causa alla pazzia del cavaliere
errante immaginato da Cervantes. Le sue enumerazioni sono una
brillante parodia dei tradizionali elenchi di uomini ed eroi, di dèi
e semidèi, che troviamo nelle Scritture, nell'epos di Omero,
nella Teogonia di Esiodo e nelle tragedie di Eschilo. E non ci
sono dubbi che quelle enumerazioni servissero a presentare sulla
scena del mondo, in modo credibile, figure umane o divine altrimenti
invisibili, insignificanti o inverosimili.
Da dove veniva questo
potere realizzante dell'enumerazione? E quali sarebbero state le sue
conseguenze nel nostro modo di pensare in generale? Ogni volta che
contiamo gli elementi di un insieme, selezioniamo e raduniamo in una
sola unità più cose disseminate, e con ciò ne rafforziamo la
presenza, sveliamo quel carattere essenziale che ne assicura
un'esistenza più stabile. In questo consiste pure il significato del
greco legein e del suo sostantivo logos. Proprio nel
richiamare il senso originario del logos, come rassegna o
raccolta guidata da una scelta, Heidegger poteva dedurre la sua
funzione precipua di svelare, di rendere manifesto, e quindi di fare
esistere le cose.
I moderni algoritmi hanno
ereditato un potere realizzante analogo a quello delle enumerazioni
parodiate da Cervantes. Non è un caso che la scienza degli algoritmi
si sia sviluppata tumultuosamente nel Ventesimo secolo, in seguito
alla crisi dei fondamenti della matematica, all'incertezza sulla
reale esistenza degli insiemi infiniti e alla preoccupazione per i
paradossi che ne derivavano. L'esistenza di un insieme era certamente
garantita, tuttavia, dalla possibilità di enumerarne e calcolarne
gli elementi con un processo computazionale limitato nel tempo. In
conclusione: l'infinito non esiste; esistono, invece, i numeri
calcolati da un algoritmo.
Infatti l'enumerazione è
la base per definire l'algoritmo. È questo un compito
delicato, che i matematici devono assumersi per spiegare in modo
coerente e plausibile concetti che resterebbero altrimenti vaghi e
confusi. Come nel caso dell'algoritmo, la matematica ha cercato
definizioni convincenti per le idee di numero, di rapporto, di caso e
di informazione. Spesso è accaduto che le definizioni proposte, pur
coerenti e ingegnose, siano state sottoposte a revisione critica,
anche a distanza di secoli.
Nel 1888 Richard Dedekind
pubblicava un breve e denso trattato dal titolo Essenza e
significato dei numeri in cui dimostrava che le principali
operazioni aritmetiche possono essere ricondotte, per via di un
percorso gerarchico, al puro atto di enumerare. A questo scopo si
serviva di una strategia particolare che Kurt Godei, nel 1931,
avrebbe chiamato ricorsione, e che divenne il fondamento
dell’idea stessa di algoritmo. L’algoritmo ricorsivo suddivide un
problema in sotto-problemi di dimensione più piccola e analoghi
all’originale. Consiste quindi in un programma che prescrive, tra
le sue istruzioni, l’esecuzione di un programma identico a se
stesso, opportunamente adattato alla dimensione dei sotto-problemi.
Non si tratta di un circolo vizioso, ma dell’auto-similarità di
una procedura che richiama, al suo interno, una procedura simile a se
stessa.
Nel suo Liber Abaci
(Libro dell’abaco) del 1202, una vera enciclopedia della
scienza algoritmica del Medioevo, Leonardo Fibonacci si servì di una
strategia molto simile per calcolare quante coppie di conigli
sarebbero nate in un anno da una sola coppia, sapendo che in ogni
mese da una coppia ne nasce un’altra e che ogni coppia inizia a
riprodursi nel secondo mese di vita. La soluzione era semplice: in un
dato mese il numero di coppie era la somma del numero di coppie dei
due mesi antecedenti. Un algoritmo funziona allo stesso modo: si
svolge in una serie di passi, e per compiere ciascun passo deve
assicurarsi di ciò che è stato fatto nel passo precedente, seguendo
a ritroso un processo di enumerazione. Un po’ come Orfeo che ha
bisogno, per procedere, di guardarsi indietro per accertarsi se
Euridice lo stia ancora seguendo.
Date le condizioni
iniziali — nel caso di Fibonacci l’esistenza di una coppia di
conigli nel primo mese — l’algoritmo procede in modo automatico:
il risultato a ogni istante non è determinato dal nostro arbitrio,
ma solo dal risultato dell’istante precedente. Anche se l’algoritmo
calcola il valore di una funzione, esso è concettualmente diverso
dalla semplice attribuzione di un valore a quella funzione, perché
consiste in una procedura che mira a ottenere effettivamente quel
valore. Distinguendo tra effetto e valore riusciamo a distinguere una
procedura da una espressione matematica. L’espressione è una legge
che associa numeri ad altri numeri, mentre l’esecuzione di una
procedura ha per scopo un effetto, il risultato di un calcolo che si
svolge nel tempo e nello spazio di memoria del computer.
A voler cercare le
origini dell’idea di algoritmo, dobbiamo ritornare indietro di
secoli, forse di millenni. La parola “algoritmo” deriva da
Muhammad ibn Musa al-Kh-wàrizmì, il nome del matematico e astronomo
arabo autore di un libro, apparso all’inizio del Nono secolo,
sull’algebra (al-jabr) e sulla al-muqàbala, ovvero sulle tecniche
per ridurre un’equazione a una forma che ne consentisse una
risoluzione più semplice. Era chiamato algebrista, nell’opera di
Cervantes, anche chi sistemava le ossa rotte o slogate. A un
algebrista, appunto, dovette ricorrere il Cavaliere degli Specchi,
vale a dire il baccelliere Sansone Carrasco, per guarire dalle
conseguenze delle percosse inflittegli da Don Chisciotte.
Tuttavia le prime forme
di pensiero algoritmico risalgono a circa quattromila anni fa e si
trovano sulle tavolette in cuneiforme provenienti dall’area
geografica intorno all’antica città di Babilonia. Si tratta di
procedure applicate a problemi specifici, ma già contenenti schemi
generali di calcolo, che sarebbero rimasti invariati fino ai nostri
giorni. Donald Knuth, uno dei padri dell’informatica, ha notato che
i calcoli babilonesi già possedevano lo stesso ordine e lo stesso
carattere categorico delle moderne procedure, del loro mirare a un
risultato concreto in un numero finito di passi.
Viene da aggiungere che
troviamo un carattere simile in quegli innumerevoli algoritmi a cui
deleghiamo con fiducia, e non senza rischi di fraintendimento, ogni
misurazione e raccolta dei dati da cui dipendono le nostre previsioni
e le nostre scelte. Ma in assenza di un’analisi dell’algoritmo,
della complessità e della propagazione dell’errore nei calcoli, i
numeri perentoriamente stampati dalla macchina alla fine di un
processo potrebbero essere inutili e privi di senso. La percezione di
una fondamentale incertezza e la diffusa avversione per i numeri
traggono anche da qui la loro forza, a scapito però della
credibilità di una scienza da cui dipende la possibilità di
stabilire un nesso tra i nostri pensieri e la realtà delle cose.
“la Repubblica –
Robinson” 26 marzo 2017
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