6.9.17

Firenze e i Medici. Ecco dove è nata la civiltà d'Europa (Eugenio Garin 1980)

Eugenio Garin
Nel 1980, divisa in sezioni tematiche e distribuita in più edifici storici della città, una grande mostra sulla cultura medicea si svolse in Firenze, con un enorme successo di pubblico. Arti maggiori e minori, letteratura, politica, scienza, tutto vi confluì. Fu – a mia memoria – il primo esempio di grandi movimenti di masse, soprattutto giovanili, sollecitati dall'organizzazione di eventi culturali fuori dall'ordinario. Fu affidato al filosofo Eugenio Garin, grande studioso della tradizione umanistico-rinascimentale il compito di aprire la mostra con una prolusione che ne indicasse il senso il 15 marzo. Il testo, molto ricco e bello, fu pubblicato il giorno dopo sul quotidiano romano “Paese Sera”, a quel tempo diretto da Peppino Fiori. (S.L.L.)
Savonarola, Machiavelli e Galileo
Nel 1646 Cartesio, uno dei padri del pensiero scientifico moderno, incontrò a l'Aia la sua regale amica Elisabetta del Palatinato. La giovane principessa, che cercava di alleviare l’esilio meditando, chiese al filosofo di scriverle un parere su un libro scandaloso che la interessava molto: Il Principe di Machiavelli. A Cartesio il libro non piaceva. Gli sembrava un’opera triste e crudele, che dava il senso della malvagità dei potenti e della sventura dei popoli, quei popoli, soggiungeva, che hanno sete di giustizia, e che per la giustizia sono disposti a sopportare tutto, ma non l'arroganza del potere.
Con ciò Cartesio non intendeva ripetere una generica condanna moralistica; trovava, anzi, pieni di verità i Discorsi. Rimpiangeva che Il Principe da specchio della malvagità dei potenti potesse divenire scuola d’iniquità. A Elisabetta, invece Il Principe aveva fatto una grande impressione. Se Machiavelli ha sbagliato — replicava — il suo errore è quello stesso dei Padri della Chiesa: ha generalizzato fino al paradosso alcune esperienze — ma erano esperienze reali, nate dalla conoscenza della natura umana quale è, senza veli.
Col dialogo fra Cartesio e Elisabetta siamo ormai nel gran secolo della scienza. Interlocutore nel campo delle scienze dell’uomo resta Machiavelli, quel Machiavelli che anche un’altra allieva regale di Cartesio, Cristina di Svezia, medita e postilla. Interlocutore nel campo delle scienze della natura è, di nuovo, un toscano, Galileo, la cui condanna segnò cosi profondamente la vita del pensatore francese. Né può passarsi sotto silenzio una di quelle coincidenze fatali, in cui sembra quasi esprimersi un ritmo segreto della storia. Due opere decisive per le origini della scienza moderna, i Saggi di Cartesio e i Discorsi di Galileo, e cioè la nuova "geometria" e la nuova "fisica", vengono alla luce nello stesso luogo, nell'ospitale città di Leyda. e quasi nello stesso tempo, fra il 1637 e il 1638. Né si deve dimenticare che Descartes, teorico della musica, fa conto anche delle osservazioni musicali di Galileo, rimandandoci così a Vincenzo Galilei e alla Camerata Fiorentina, nonché a tutta la tematica delle armonie cosmiche. Da Machiavelli a Galileo la nuova scienza dell'uomo e del mondo, aperta all'idea dell'armonia universale, affonda le sue radici in terra di Toscana, e continua a tenere viva in Europa l'immagine di un piccolo stato, e di una città singolare, in cui. a un certo momento della storia un momento durato quasi due secoli sembrò essersi riunito a convegno, come dicevano i poeti, il coro delle Muse per circondare di un fascino ambiguo le figure e l'opera di due pontefici romani e di due regine di Francia: personaggi tutti, da Leone X a Clemente VII, da Caterina a Maria, destinati a lasciare dietro di sé un’eco lunga, e non sempre edificante. Un prolifico quanto mediocre storico francese del Seicento invocherà addirittura la penna di Procopio per scrivere la storia segreta di Casa Medici e le vicende aneddotiche di Firenze: Firenze, insomma, come Bisanzio, e Caterina e Maria come Teodora. Eppure i toni ora equivoci e sinistri, ed ora tragici, che accompagnarono spesso il nome dei Fiorentini nell’Europa del Cinquecento, non diminuirono la grandezza di quel momento magico in cui, proprio qui a Firenze, un’eccezionale esperienza della realtà presente, vissuta in tutta la sua ricchezza, riuscì a fondersi armonicamente con la conoscenza critica della rinata antichità classica.
Fu un incontro travagliato, in un'atmosfera traversata da crisi profonde, mentre un passato fervidamente rivissuto si rovesciava dialetticamente in creazioni di una originalità senza pari. La città con i suoi artisti e i suoi filosofi, con i suoi profeti ed i suoi martiri, col suo fasto e la potenza dei suoi signori, già all’inizio del Cinquecento si collocava in una prospettiva ideale, trasfigurandosi in un mito dai toni magici e misteriosi. Nuova Atene e nuova Gerusalemme, a metà del Quattrocento Firenze era stata il luogo d’incontro fra Oriente e Occidente, allorché, all’ombra della cupola del Brunelleschi compiuta da poco, era sembrato potesse realizzarsi la più grande speranza dell’umanità: la pace universale nella riconciliazione delle fedi. In piazza del Duomo i discorsi solenni in greco e in latino dei dignitari delle Chiese avevano dato sostanza per un istante a un sogno bellissimo. Sembrava che la pace del Signore avesse scelto quel luogo incantato per scendere in terra. Fu il messaggio che la cultura fiorentina, l'arte, la religione, la filosofia, lanciarono a un'Europa lacerata e impaurita, allorché i Turchi avanzavano sull'ultimo lembo dell'Impero di Roma. Alla crociata che Papi, Imperatori e Dogi cercavano di organizzare senza crederci, Firenze contrappose una sfida diversa. Perduto l'impero fondato sul potere delle armi scriveva un umanista un altro se ne doveva costruire, più saldo e più duraturo: dell’arte e della scienza, della cultura e della pace,
Alla fine del secolo un giovane filosofo venuto dal Nord d'Italia, che di Firenze fece la sua patria, e che a Firenze fece venire Savonarola: una sorta di asceta e di profeta laico, un principe ricchissimo che lasciò i suoi denari all'ospedale di Santa Maria Nuova — Giovanni Pico - di quel programma di pace universale sostanziò la sua filosofia. La sua morte prematura, mentre uno dopo l’altro scomparivano i suoi compagni di lavoro — da Angelo Poliziano a Lorenzo de’ Medici - non molto prima che salisse sul rogo il suo grande amico Girolamo Savonarola, simbolo di una battaglia perduta. La grande stagione di Firenze, col superbo disegno di trasformare la piccola città-stato in un libera repubblica di popolo all’avanguardia di una grande riforma intellettuale e morale — la nuova Gerusalemme che Savonarola voleva edificare al posto della nuova Atene: tutto questo tra il finire del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento si concluderà in tragedia. Il rogo di Savonarola, fra la fedeltà disperata dei suoi seguaci e l’angosciosa protervia dei suoi nemici, segna l’inizio della disfatta, fra lo strazio e le viltà del Sacco di Prato del 1512, e l’ultima disperata resistenza del 1530.
Savonarola non fu Calvino, Firenze non fu Ginevra. La repubblica fiorentina non fu il Regno di Cristo proclamato dal frate di San Marco, né il popolo fiorentino fu il popolo di Dio gridato dai Ciompi. Fra l'inquietudine e l’amarezza i grandi spiriti abbandonavano la città: Leonardo morto ad Amboise nel '19; nel ’27 Machiavelli fuggito «nell'Inferno [...] a ragionare di Stato»; Michelangelo. dopo aver dato mano alle fortificazioni per l’assedio, definitivamente trasferito a Roma.
Tornarono i Medi:i, i tiranni, i quali per altro, dopo un ultimo sussulto della retorica di Bruto, seppero con Cosimo I raccogliere e filtrare in Italia e in Europa quella grande ricchezza culturale che il Quattrocento aveva accumulato, e che la disfatta politica aveva rivestito di nuova dignità. Fu la grandezza tragica di Michelangelo; fu il senso tragico della vita che percorre anche la Mandragola dove (come ha scritto un grande storico) perfino «la maschera comica ha [...] il viso e il riso della disperazione», perché quando la sventura si abbatte sull’uomo, «si debbe al volto della sua fortuna / voltare il viso di lacrime asciutto». Quel viso asciutto di lacrime con cui il biografo racconterà dell'ultimo capitano della milizia popolare, «di mercatante divenuto generale», caduto «per la libertà della patria» il 2 agosto 1530 e sepolto «lungo il muro della chiesa» della montagna che aveva difeso: «et era ragione, che il maggiore uomo che nella guerra avesse la Repubblica, avesse per sepoltura il monte Appennino».
Nella intransigenza di Savonarola, e nei teorici della Vita civile, i repubblicani avevano trovato la forza morale per affrontare la morte. Poi, dopo «i supplizi e le persecuzioni, sulla città debole, impoverita e divisa, «restò più libera e più assoluta e quasi regia la potestà de’ Medici», come disse in una pagina eloquente Francesco Guicciardini. Ma la ’’quasi regia” potestà dei Medici seppe amministrare proficuamente anche la tragedia, e favorì la connservazione, la collocazione storica e la messa in valore di un grande patrimonio di cultura. Saranno i nuovi istituti, dai musei ai giardini, dai circoli alle accademie, che promuoveranno e organizzeranno la produzione e la ricerca, attuando una cosciente politica culturale al servizio di una ideologia — il mito dei Medici — incanalando e sfruttando, ma anche sottilmente controllando e censurando.
All’impeto creatore di una società varia, policentrica, capace di spingersi al limite dell’anarchia, il Principe sostituisce istituti cui affida compiti precisi, secondo disegni consapevoli. L’intellettuale dell’età repubblicana che è anche politico, cancelliere, oratore, consigliere, ingegnere e urbanista al servizio della città, si trasforma in retore, in funzionario del sovrano, in strumento di propaganda. Le grandi avventure speculative vengono a patti con la tradizione e rinunciano a ogni radicalismo rivoluzionario, mentre il loro messaggio si fa allusivo, cifrato, iscritto nei simboli sempre più complicati delle arti figurative. Trionfano i volgarizzamenti, che non sono solo traduzioni in lingua toscana del latino umanistico, ma anche, non di rado, attenuazioni e riduzioni. Per fare un esempio, al posto della inverosimile audacia di Leon Battista Alberti troviamo le composte versioni di Cosimo Bartoli. In compenso quel libro straordinario che è l'Architettura può circolare tradotto in Italia e in Europa, quasi sigillo dell’egemonia dell’architettura che proprio l’Alberti aveva teorizzato: e che è urbanistica, politica, etica e perfino metafisica e teologia, se solo nella Città Solare, fedele specchio del cosmo, l’uomo può realizzare se stesso. E il mondo è fatto male, come si legge nel Momo, proprio perché Giove non l’ha fatto fare dagli architetti.
Conservazione e ordinamento, dunque, ma anche una disseminazione dovunque, e a molti livelli, moda e senso comune; le dottrine più sottili circolano nelle figure del gran teatro del mondo: visualizzate, tradotte in simboli, presenti nelle immagini, nelle vesti, negli apparati di feste e funerali, nei giardini, nei motti, nelle imprese — ma soprattutto in prodotti artistici la cui lettura è una sempre più complessa decifrazione, mentre le grandi tematiche quattrocentesche, dall’ermetismo alla filosofia dell’amore, dalla cabbalah al pitagoreismo e al neoplatonismo rilanciati da Ficino e da Pico, penetrano ovunque nella coscienza europea fino al Seicento avanzato.
Ovviamente non senza profonde trasformazioni: il legame fra l’uomo e la città, la simmetria fra l’uomo e il mondo, la riconciliazione dell’intera realtà che è la mèta suprema di tanta riflessione quattrocentesca, si logorano ed entrano in crisi. Nelle nuove terre, che i Vespucci o i Sassetti vanno visitando, si scoprono specie ignote; i mostri turbano le armonie; la nuova visione del cielo spezza le cristalline sfere stellari, anche se i satelliti di Giove scoperti dal cannocchiale galileiano, e divenuti i pianeti medicei, sembrano consolidare l’immagine quasi paradigmatica dei Medici, grandi mecenati e saggi reggitori. Che è un mito caro ai Cinquecento. In una pagina famosa del 1517 quel gran personaggio della cultura germanica che fu Giovanni Reuchlin scrive che era stata la luce solare di Lorenzo il Magnifico a dissipare «le tenebre della notte profonda» di barbarie; che i Medici, da Cosimo il Vecchio a Leone X, avevano reso Firenze la città più bella del secolo («Flo-rentia illo aevo nihil erat floridius»). Ed è quasi commovente il testo in cui dice della sua meraviglia, quando selvaggio venuto dalle foreste del Nord, si trovò davanti ai miracoli architettonici di Firenze, alle biblioteche, ai giardini pensili, agli alberi dai frutti dorati come i giardini delle Esperidi.
Era un mito, ma un mito durevole diffuso dovunque in Europa. Nel 1578, in Francia, Guy Le Fèvre de la Boderie in un suo poema canterà la gloria dei Medici e di Firenze per avere «restaurato la purezza delle arti cacciando l’ignoranza par les fleurs des Esprits florissants à Florence».
Mi sia concesso concludere tornando come a un simbolo a quell’incontro ideale nella libera terra d’Olanda fra Machiavelli, Galileo e Cartesio. La cultura toscana consegnava all’Europa i risultati di una eccezionale difesa della ragione. Sulla ragione e sulla scienza aveva costruito la bellezza più pura quando i suoi artisti si erano chiamati Filippo Brunelleschi e Leonardo da Vinci. Il dramma politico, se aveva disegnato così spesso uno sfondo di tragedia alla grande arte, aveva anche trasformato le conquiste della cultura in testimonianze di dignità umana e di volontà eroica. Galileo, con il dolore sofferto per la difesa di una libera scienza, indicava all’Europa il valore supremo della ragione e della verità.


“Paese Sera”, 16 marzo 1980

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