Eugenio Garin |
Nel 1980, divisa in
sezioni tematiche e distribuita in più edifici storici della città,
una grande mostra sulla cultura medicea si svolse in Firenze, con un
enorme successo di pubblico. Arti maggiori e minori, letteratura,
politica, scienza, tutto vi confluì. Fu – a mia memoria – il
primo esempio di grandi movimenti di masse, soprattutto giovanili,
sollecitati dall'organizzazione di eventi culturali fuori
dall'ordinario. Fu affidato al filosofo Eugenio Garin, grande
studioso della tradizione umanistico-rinascimentale il compito di
aprire la mostra con una prolusione che ne indicasse il senso il 15
marzo. Il testo, molto ricco e bello, fu pubblicato il giorno dopo
sul quotidiano romano “Paese Sera”, a quel tempo diretto da
Peppino Fiori. (S.L.L.)
Savonarola, Machiavelli e Galileo |
Nel 1646 Cartesio, uno
dei padri del pensiero scientifico moderno, incontrò a l'Aia la sua
regale amica Elisabetta del Palatinato. La giovane principessa, che
cercava di alleviare l’esilio meditando, chiese al filosofo di
scriverle un parere su un libro scandaloso che la interessava molto:
Il Principe di Machiavelli. A Cartesio il libro non piaceva.
Gli sembrava un’opera triste e crudele, che dava il senso della
malvagità dei potenti e della sventura dei popoli, quei popoli,
soggiungeva, che hanno sete di giustizia, e che per la giustizia sono
disposti a sopportare tutto, ma non l'arroganza del potere.
Con ciò Cartesio non
intendeva ripetere una generica condanna moralistica; trovava, anzi,
pieni di verità i Discorsi. Rimpiangeva che Il Principe da
specchio della malvagità dei potenti potesse divenire scuola
d’iniquità. A Elisabetta, invece Il Principe aveva fatto
una grande impressione. Se Machiavelli ha sbagliato — replicava —
il suo errore è quello stesso dei Padri della Chiesa: ha
generalizzato fino al paradosso alcune esperienze — ma erano
esperienze reali, nate dalla conoscenza della natura umana quale è,
senza veli.
Col dialogo fra Cartesio
e Elisabetta siamo ormai nel gran secolo della scienza. Interlocutore
nel campo delle scienze dell’uomo resta Machiavelli, quel
Machiavelli che anche un’altra allieva regale di Cartesio, Cristina
di Svezia, medita e postilla. Interlocutore nel campo delle scienze
della natura è, di nuovo, un toscano, Galileo, la cui condanna segnò
cosi profondamente la vita del pensatore francese. Né può passarsi
sotto silenzio una di quelle coincidenze fatali, in cui sembra quasi
esprimersi un ritmo segreto della storia. Due opere decisive per le
origini della scienza moderna, i Saggi di Cartesio e i
Discorsi di Galileo, e cioè la nuova "geometria" e
la nuova "fisica", vengono alla luce nello stesso luogo,
nell'ospitale città di Leyda. e quasi nello stesso tempo, fra il
1637 e il 1638. Né si deve dimenticare che Descartes, teorico della
musica, fa conto anche delle osservazioni musicali di Galileo,
rimandandoci così a Vincenzo Galilei e alla Camerata Fiorentina,
nonché a tutta la tematica delle armonie cosmiche. Da Machiavelli a
Galileo la nuova scienza dell'uomo e del mondo, aperta all'idea
dell'armonia universale, affonda le sue radici in terra di Toscana, e
continua a tenere viva in Europa l'immagine di un piccolo stato, e di
una città singolare, in cui. a un certo momento della storia un
momento durato quasi due secoli sembrò essersi riunito a convegno,
come dicevano i poeti, il coro delle Muse per circondare di un
fascino ambiguo le figure e l'opera di due pontefici romani e di due
regine di Francia: personaggi tutti, da Leone X a Clemente VII, da
Caterina a Maria, destinati a lasciare dietro di sé un’eco lunga,
e non sempre edificante. Un prolifico quanto mediocre storico
francese del Seicento invocherà addirittura la penna di Procopio per
scrivere la storia segreta di Casa Medici e le vicende aneddotiche di
Firenze: Firenze, insomma, come Bisanzio, e Caterina e Maria come
Teodora. Eppure i toni ora equivoci e sinistri, ed ora tragici, che
accompagnarono spesso il nome dei Fiorentini nell’Europa del
Cinquecento, non diminuirono la grandezza di quel momento magico in
cui, proprio qui a Firenze, un’eccezionale esperienza della realtà
presente, vissuta in tutta la sua ricchezza, riuscì a fondersi
armonicamente con la conoscenza critica della rinata antichità
classica.
Fu un incontro
travagliato, in un'atmosfera traversata da crisi profonde, mentre un
passato fervidamente rivissuto si rovesciava dialetticamente in
creazioni di una originalità senza pari. La città con i suoi
artisti e i suoi filosofi, con i suoi profeti ed i suoi martiri, col
suo fasto e la potenza dei suoi signori, già all’inizio del
Cinquecento si collocava in una prospettiva ideale, trasfigurandosi
in un mito dai toni magici e misteriosi. Nuova Atene e nuova
Gerusalemme, a metà del Quattrocento Firenze era stata il luogo
d’incontro fra Oriente e Occidente, allorché, all’ombra della
cupola del Brunelleschi compiuta da poco, era sembrato potesse
realizzarsi la più grande speranza dell’umanità: la pace
universale nella riconciliazione delle fedi. In piazza del Duomo i
discorsi solenni in greco e in latino dei dignitari delle Chiese
avevano dato sostanza per un istante a un sogno bellissimo. Sembrava
che la pace del Signore avesse scelto quel luogo incantato per
scendere in terra. Fu il messaggio che la cultura fiorentina, l'arte,
la religione, la filosofia, lanciarono a un'Europa lacerata e
impaurita, allorché i Turchi avanzavano sull'ultimo lembo
dell'Impero di Roma. Alla crociata che Papi, Imperatori e Dogi
cercavano di organizzare senza crederci, Firenze contrappose una
sfida diversa. Perduto l'impero fondato sul potere delle armi
scriveva un umanista un altro se ne doveva costruire, più saldo e
più duraturo: dell’arte e della scienza, della cultura e della
pace,
Alla fine del secolo un
giovane filosofo venuto dal Nord d'Italia, che di Firenze fece la sua
patria, e che a Firenze fece venire Savonarola: una sorta di asceta e
di profeta laico, un principe ricchissimo che lasciò i suoi denari
all'ospedale di Santa Maria Nuova — Giovanni Pico - di quel
programma di pace universale sostanziò la sua filosofia. La sua
morte prematura, mentre uno dopo l’altro scomparivano i suoi
compagni di lavoro — da Angelo Poliziano a Lorenzo de’ Medici -
non molto prima che salisse sul rogo il suo grande amico Girolamo
Savonarola, simbolo di una battaglia perduta. La grande stagione di
Firenze, col superbo disegno di trasformare la piccola città-stato
in un libera repubblica di popolo all’avanguardia di una grande
riforma intellettuale e morale — la nuova Gerusalemme che
Savonarola voleva edificare al posto della nuova Atene: tutto questo
tra il finire del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento si
concluderà in tragedia. Il rogo di Savonarola, fra la fedeltà
disperata dei suoi seguaci e l’angosciosa protervia dei suoi
nemici, segna l’inizio della disfatta, fra lo strazio e le viltà
del Sacco di Prato del 1512, e l’ultima disperata resistenza del
1530.
Savonarola non fu
Calvino, Firenze non fu Ginevra. La repubblica fiorentina non fu il
Regno di Cristo proclamato dal frate di San Marco, né il popolo
fiorentino fu il popolo di Dio gridato dai Ciompi. Fra l'inquietudine
e l’amarezza i grandi spiriti abbandonavano la città: Leonardo
morto ad Amboise nel '19; nel ’27 Machiavelli fuggito «nell'Inferno
[...] a ragionare di Stato»; Michelangelo. dopo aver dato mano alle
fortificazioni per l’assedio, definitivamente trasferito a Roma.
Tornarono i Medi:i, i
tiranni, i quali per altro, dopo un ultimo sussulto della retorica di
Bruto, seppero con Cosimo I raccogliere e filtrare in Italia e in
Europa quella grande ricchezza culturale che il Quattrocento aveva
accumulato, e che la disfatta politica aveva rivestito di nuova
dignità. Fu la grandezza tragica di Michelangelo; fu il senso
tragico della vita che percorre anche la Mandragola dove (come
ha scritto un grande storico) perfino «la maschera comica ha [...]
il viso e il riso della disperazione», perché quando la sventura si
abbatte sull’uomo, «si debbe al volto della sua fortuna / voltare
il viso di lacrime asciutto». Quel viso asciutto di lacrime con cui
il biografo racconterà dell'ultimo capitano della milizia popolare,
«di mercatante divenuto generale», caduto «per la libertà della
patria» il 2 agosto 1530 e sepolto «lungo il muro della chiesa»
della montagna che aveva difeso: «et era ragione, che il maggiore
uomo che nella guerra avesse la Repubblica, avesse per sepoltura il
monte Appennino».
Nella intransigenza di
Savonarola, e nei teorici della Vita civile, i repubblicani
avevano trovato la forza morale per affrontare la morte. Poi, dopo «i
supplizi e le persecuzioni, sulla città debole, impoverita e divisa,
«restò più libera e più assoluta e quasi regia la potestà de’
Medici», come disse in una pagina eloquente Francesco Guicciardini.
Ma la ’’quasi regia” potestà dei Medici seppe amministrare
proficuamente anche la tragedia, e favorì la connservazione, la
collocazione storica e la messa in valore di un grande patrimonio di
cultura. Saranno i nuovi istituti, dai musei ai giardini, dai circoli
alle accademie, che promuoveranno e organizzeranno la produzione e la
ricerca, attuando una cosciente politica culturale al servizio di una
ideologia — il mito dei Medici — incanalando e sfruttando, ma
anche sottilmente controllando e censurando.
All’impeto creatore di
una società varia, policentrica, capace di spingersi al limite
dell’anarchia, il Principe sostituisce istituti cui affida compiti
precisi, secondo disegni consapevoli. L’intellettuale dell’età
repubblicana che è anche politico, cancelliere, oratore,
consigliere, ingegnere e urbanista al servizio della città, si
trasforma in retore, in funzionario del sovrano, in strumento di
propaganda. Le grandi avventure speculative vengono a patti con la
tradizione e rinunciano a ogni radicalismo rivoluzionario, mentre il
loro messaggio si fa allusivo, cifrato, iscritto nei simboli sempre
più complicati delle arti figurative. Trionfano i volgarizzamenti,
che non sono solo traduzioni in lingua toscana del latino umanistico,
ma anche, non di rado, attenuazioni e riduzioni. Per fare un esempio,
al posto della inverosimile audacia di Leon Battista Alberti troviamo
le composte versioni di Cosimo Bartoli. In compenso quel libro
straordinario che è l'Architettura può circolare tradotto in
Italia e in Europa, quasi sigillo dell’egemonia dell’architettura
che proprio l’Alberti aveva teorizzato: e che è urbanistica,
politica, etica e perfino metafisica e teologia, se solo nella Città
Solare, fedele specchio del cosmo, l’uomo può realizzare se
stesso. E il mondo è fatto male, come si legge nel Momo,
proprio perché Giove non l’ha fatto fare dagli architetti.
Conservazione e
ordinamento, dunque, ma anche una disseminazione dovunque, e a molti
livelli, moda e senso comune; le dottrine più sottili circolano
nelle figure del gran teatro del mondo: visualizzate, tradotte in
simboli, presenti nelle immagini, nelle vesti, negli apparati di
feste e funerali, nei giardini, nei motti, nelle imprese — ma
soprattutto in prodotti artistici la cui lettura è una sempre più
complessa decifrazione, mentre le grandi tematiche quattrocentesche,
dall’ermetismo alla filosofia dell’amore, dalla cabbalah al
pitagoreismo e al neoplatonismo rilanciati da Ficino e da Pico,
penetrano ovunque nella coscienza europea fino al Seicento avanzato.
Ovviamente non senza
profonde trasformazioni: il legame fra l’uomo e la città, la
simmetria fra l’uomo e il mondo, la riconciliazione dell’intera
realtà che è la mèta suprema di tanta riflessione quattrocentesca,
si logorano ed entrano in crisi. Nelle nuove terre, che i Vespucci o
i Sassetti vanno visitando, si scoprono specie ignote; i mostri
turbano le armonie; la nuova visione del cielo spezza le cristalline
sfere stellari, anche se i satelliti di Giove scoperti dal
cannocchiale galileiano, e divenuti i pianeti medicei, sembrano
consolidare l’immagine quasi paradigmatica dei Medici, grandi
mecenati e saggi reggitori. Che è un mito caro ai Cinquecento. In
una pagina famosa del 1517 quel gran personaggio della cultura
germanica che fu Giovanni Reuchlin scrive che era stata la luce
solare di Lorenzo il Magnifico a dissipare «le tenebre della notte
profonda» di barbarie; che i Medici, da Cosimo il Vecchio a Leone X,
avevano reso Firenze la città più bella del secolo («Flo-rentia
illo aevo nihil erat floridius»). Ed è quasi commovente il testo in
cui dice della sua meraviglia, quando selvaggio venuto dalle foreste
del Nord, si trovò davanti ai miracoli architettonici di Firenze,
alle biblioteche, ai giardini pensili, agli alberi dai frutti dorati
come i giardini delle Esperidi.
Era un mito, ma un mito
durevole diffuso dovunque in Europa. Nel 1578, in Francia, Guy Le
Fèvre de la Boderie in un suo poema canterà la gloria dei Medici e
di Firenze per avere «restaurato la purezza delle arti cacciando
l’ignoranza par les fleurs des Esprits florissants à Florence».
Mi sia concesso
concludere tornando come a un simbolo a quell’incontro ideale nella
libera terra d’Olanda fra Machiavelli, Galileo e Cartesio. La
cultura toscana consegnava all’Europa i risultati di una
eccezionale difesa della ragione. Sulla ragione e sulla scienza aveva
costruito la bellezza più pura quando i suoi artisti si erano
chiamati Filippo Brunelleschi e Leonardo da Vinci. Il dramma
politico, se aveva disegnato così spesso uno sfondo di tragedia alla
grande arte, aveva anche trasformato le conquiste della cultura in
testimonianze di dignità umana e di volontà eroica. Galileo, con il
dolore sofferto per la difesa di una libera scienza, indicava
all’Europa il valore supremo della ragione e della verità.
“Paese Sera”, 16
marzo 1980
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