L’antichità classica è
stata un banco di prova importante, sul piano teorico e su quello
pratico, per quel che riguarda il problema dell’organizzazione
sociale, del rapporto tra individuo e comunità, dei valori che
possono legare l’individuo alla comunità garantendone la tenuta.
La rilevanza della problematica e delle soluzioni prospettate è
stata tale che le epoche successive hanno dialogato con quegli
antichi contribuendo non poco a fornir loro una collocazione
extra-storica o, addirittura, al di sopra della storia.
Ciò è comprensibile: le
soluzioni che è possibile prospettare al problema del vivere entro
una società organizzata (è appunto questo l’oggetto della
filosofia «pratica», o, se si vuole usare un termine greco
piuttosto impreciso, dell’etica) non sono poi tantissime, e per
giunta - in mutate situazioni - sembrano riproporsi al di là del
mutare delle epoche. Il meccanismo mentale del classicismo fa il
resto: e così può accadere che Plutarco additi vite «esemplari»
di personaggi che paiono tutti tra loro contemporanei anche quando
sono divisi da secoli, e Karl Popper - nell’età nostra - veda
davvero in Platone l’antecedente teorico del moderno totalitarismo
(così come Eduard Schwartz, molti anni prima di lui, aveva
paragonato il reclutamento dei platonici reggitori-filosofi a quello
dell’ordine gesuitico).
È dunque questo un
terreno che può offrirsi facilmente alle idealizzazioni e ai
corti-circuiti. Chi vi si è cimentato difficilmente si è sottratto
al rischio: da Jaeger (Paideia) a Pohlenz (L’uomo
greco) al ripensamento non ignaro di Freud cui Vernant e
scolari hanno sottoposto la tragedia attica. Certo, c’erano anche
altre strade: la più importante delle quali era, credo, lo studio
del diritto: sia del diritto positivo, sia dei concetti e pregiudizi
che gli fanno da sfondo. Come non vedere l’intreccio che vi è tra
pensiero e normativa giuridica da un lato, etica (come teoria e come
prassi) dall’altro?
Per il mondo romano
questo piano di ricerca è stato a lungo fiorente e ha anche avuto
una particolare ramificazione negli studi sui «concetti di valore»
(Wertbegriffe). Per il mondo greco - così frantumato e
disugualmente documentato - l’indagine è stata meno sistematica e
meno influente: ma almeno il nome di Gernet e la sua importante
prefazione alle Leggi di Platone dev’essere qui ricordato.
Il mondo della prassi giudiziaria ha, d’altro canto, alle spalle
un’etica diffusa - non codificata ma efficace, e non poco debitrice
dei valori dei ceti dominanti: per il mondo greco del V/IV secolo
a.C. è stato Kenneth James Dover a tentare una descrizione
sistematica nel bel libro sulla Morale popolare dei Greci (nel
quale gli oratori attici costituiscono una parte rilevante della
documentazione).
Mario Vegetti ha tentato,
con il suo manuale dal titolo L’etica degli antichi, Laterza,
(dove però è soprattutto il mondo greco, dalle origini a Plotino,
che figura in primo piano), una esposizione equilibrata
dell’intreccio etica-politica (pensiero etico e prassi politica)
nella polis classica. Il
pregio dell’esposizione è nel rifiuto radicale, e ben motivato,
del mito della polis. Se c’è una trappola in cui gli antichisti
filellèni cadono facilmente è quella che consiste nel far propria
l’auto-rappresentazione della polis dovuta ai «signori favorevoli
al sistema democratico».
Uno che è caduto in
pieno in tale trappola è Christian Meier, considerato - a causa del
suo libro sulla Nascita del politico - il maggior interprete
odierno delle categorie politiche greche. Scrive ad esempio Meier:
«Il punto di vista che prevaleva nella concezione dell’ordine
della polis non era quello dei governanti né quello dei governati:
era quello della totalità della comunità».
Al contrario, Vegetti
mette bene in luce che l’etica su cui la polis si regge è quella
degli «uguali» aventi accesso alla politica: non dunque i valori
dell’uomo «universale» ma i valori di un ceto.
Aggiungerei che, nel caso
di quella comunità tutt’altro che aperta che fu la democrazia
ateniese, assistiamo a un fenomeno di mimesi, che merita attenzione.
Gli «uguali» qui sono i detentori della cittadinanza (coloro che
Solone recuperò alla libertà stabilendo un baratro tra libertà e
schiavitù), nondimeno il funzionamento di questa relativamente vasta
comunità di uguali (più vasta di quella spartana a base razziale) è
garantito dalla opzione di alcune grandi famiglie - gli Alcmeonidi in
primis - in favore della «democrazia» (cioè del sistema che
garantiva il sorteggio tra tutti i cittadini di alcune cariche
rilevanti).
Quando Alcibiade descrive
dinanzi agli Spartani il sistema ateniese arriva a dire che il
comando, ad Atene, è tramandato per via ereditaria nell’ambito
della famiglia, cui lo stesso Alcibiade appartiene, degli Alcmeonidi.
I «signori» ostili a questo compromesso erano infatti ostili
innanzi tutto alle grandi famiglie che avevano accettato il sistema.
Ma il patto era precario e si poteva andare incontro a serie crisi,
come infatti accadde più volte in Atene. E’ possibile affermare -
non senza un qualche schematismo - che, pur tra repulse ed entusiasmi
- è al sistema di valori di quei «signori» (Clistene, Pericle,
Alcibiade nel V sec.) che si rapporta l’etica «democratica».
Piuttosto presto questo
equilibrio si è rotto, dando avvio per un verso al giusnaturalismo
«selvaggio» della sofistica, per l’altro alla ricerca platonica
di una fuoriuscita dal circolo vizioso della città democratica: e la
fuoriuscita era appunto, per Platone, nella formazione di un ceto
selezionato per virtù e destinato al governo. A questa severa
utopia, destinata a non sopirsi mai del tutto, tiene dietro la pacata
sistemazione aristotelica: cui però non corrisponde nessuna città
terrena. Dopo di lui la strada che masse assetate di salvezza e
grandi elargitori di promesse di salvezza percorreranno sarà quella
della «interiorizzazione della morale».
Opportunamente Vegetti
prende le mosse - nel tratteggiare questo lungo cammino - dalle
origini orfiche e dionisiache: un magma extra-cittadino (o forse
anche anti-cittadino) che si sottrae alla «normalità» della polis
racchiusa nello spazio compreso tra dèi da un lato e animali
dall’altro. Il seguace di Orfeo mira alla perfezione divina, il
soggiogato da Dioniso sprofonda in una ferinità senza ritorno. Tra i
ceti e i gruppi (e con loro le donne) che la città antica respingeva
ai suoi margini, queste forme di ricerca della salvazione individuale
ebbero - com’è noto da Mondolfo a Burkert - una grande diffusione.
Ed è ben noto (vale anche per il nostro presente) che quando i ceti
scontenti della polis si rifugiano in queste fumisterie, vuol dire
che la strada della liberazione è diventata un vicolo cieco. Per i
signori, invece, c'è sempre salvezza: la predicheranno i nuovi
maestri «cittadini del mondo», al cui fascino non si sottrassero i
conquistatori del mondo: dagli Scipioni a Marco Aurelio, a Gallieno,
promotore - con la consorte Salonina - della velleitaria Platonopoli
di Plotino.
“La talpa libri – il
manifesto”, ritaglio senza data, ma 1990
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