Il monumento ad Arminio nella foresta di Teitoburgo |
Nella «Selva di
Teutoburgo», nell’anno 9 dell’era volgare, l’esercito romano
al comando di Publio Quintilio Varo, attaccato a sorpresa durante la
marcia dai quartieri estivi a quelli invernali, fu distrutto dalle
truppe germaniche guidate dal principe Arminio, capo della tribù dei
Cherusci. Il sito esatto della battaglia è tuttora controverso.
Arminio, «liberator haud dubie Germaniae» secondo la celebre
definizione di Tacito, era stato condotto a Roma sin dall’8 a.C. e
lì educato e addestrato nell’ambito di quella scuola militare «di
eccellenza» che era l’esercito romano. Dal 4 al 6 d.C. fu tribunus
militum e durante la campagna di Tiberio contro i Germani
combatté nei ranghi dell’esercito romano. Per i suoi meriti in
quelle campagne ebbe la cittadinanza romana e il rango equestre.
L’ostilità di Arminio
contro i Romani venne maturando quando Quintilio Varo promosse una
romanizzazione forzata (nel campo del diritto innanzitutto)
nell’ampia area germanica in quel periodo sotto controllo romano.
Il passaggio dall’altra parte fu dunque, nel caso di Arminio, un
gesto che dal punto di vista di Roma era un tradimento, dal punto di
vista di una (ipotizzata) coscienza nazionale germanica un atto di
guerriglia e di liberazione nazionale. Il passaggio attraverso il
tirocinio nei ranghi romani da parte di leader divenuti simbolo della
lotta contro Roma non era un fenomeno nuovo. Anche Vercingetorige, al
tempo della sofferta conquista cesariana della Gallia, aveva compiuto
lo stesso cammino. E forse anche Spartaco, al tempo suo, era stato
nelle truppe ausiliarie romane, prima di disertare e divenire in
quanto fugitivus schiavo-gladiatore e infine guida sagace
della più temibile sollevazione di schiavi del mondo antico.
Francia e Germania quasi
contemporaneamente, in momenti di particolare slancio nazionalistico,
hanno innalzato monumenti rispettivamente a Vercingetorige e Arminio.
Il monumento a Vercingetorige fu voluto da Napoleone III; quello per
Arminio, alto 26 metri (Hermannsdenkmat), in stile «peplum»,
fu eretto a Detmold nella regione westfalica tra il 1841 e il 1875.
Era la risposta tedesca non solo a Roma, ma anche alla Francia del
Secondo impero.
Per completezza
ricordiamo che in occasione della rivoluzione del 1830 un monumento
se lo meritò anche Spartaco a Parigi: dapprima esposto nel giardino
delle Tuileries e poi ritirato nel Louvre. Era il risultato
innanzitutto di un vero e proprio sussulto rivoluzionario, dopo gli
anni cupi di Carlo X; ma non è improbabile che una tale statua di
tipo canoviano abbia a che fare anche con il risentimento contro Roma
dominatrice, visto che Spartaco aveva fatto tremare la Repubblica
imperiale nel cuore stesso dell’Italia.
Per Mommsen, Teutoburgo
aveva segnato una tappa epocale nel processo di riunificazione
tedesca, e costituiva l’antecedente più glorioso della
riunificazione bismarckiana della Germania. Suo genero Wilamowitz, in
un importante «discorso di guerra» pronunciato in Bruxelles
occupata dai tedeschi (nel giorno di Pasqua del 1918), si spinse a
teorizzare che «gli Stati antichi sono senza eccezione Stati
nazionali», mentre gli Stati moderni «sono diventati nazionali non
senza l’influenza di modelli antichi». E precisava: «Il
sentimento nazionale tedesco è emerso con intensità solo dopo la
riscoperta di Tacito e quando venne alla luce la figura eroica di
Arminio, il liberator haud dubie patriae suae».
Ci si può seriamente
interrogare sulla legittimità dell’uso della nozione di «Stato
nazionale» in relazione alla realtà germanica del 9 d.C. Ma, se si
considera che anche Engels considerava una battaglia di libertà la
lotta dei Germani, e di Arminio, contro l’introduzione del diritto
romano in terra germanica (reo di introdurre la proprietà privata),
si può ben concludere che il mito di Arminio è un mito davvero
pantedesco, condiviso dal liberale Mommsen, dallo Junker-conservatore
Wilamowitz e dal socialista Engels (e, nel dodicennio nazista,
dall’Ahnenerbe di Himmler, adoratore della Germania di
Tacito). Le parole di Engels fanno impressione anche per certe
inflessioni razziali: «Varo aveva fatto male i suoi conti. I Germani
non erano i Sirii! Imponendo loro la civiltà romana, egli mostrò
alle tribù confinanti, costrette a confederarsi, che razza di giogo
insopportabile li minacciava e li costrinse a quella unificazione che
essi fino a quel momento non erano mai stati capaci di trovare»
(Storia e Lingua dei Germani, 1881-1882).
Naturalmente Teutoburgo
ha un’importanza storica enorme: non tanto perché anticipi un
processo di unificazione nazionale che in realtà si produsse molto
dopo e attraverso una storia molto accidentata e non sempre
esaltante. Fu, quella battaglia, il segnale chiaro e inequivoco —
allo stesso modo che Carre sessantadue anni prima all’altro capo
dell’impero — dei limiti oggettivi, e non valicabili se non con
grande rischio, della possibilità di espansione romana. Nello
scontro tra potenze la regola aurea è di comprendere quei limiti e
di non trascenderli.
E la ragione per cui, ad
esempio, Stalin riteneva azzardato creare un avamposto del proprio
impero addirittura fin sull’Elba e avrebbe preferito che, a guerra
finita, si costituisse una Germania riunificata e neutrale. Non
passò, allora, quel progetto (più moderato di quello di De Gaulle
che proponeva la frantumazione del Reich sconfìtto in quattro
Stati). Il mezzo secolo successivo ha portato la Germania a quella
egemonia sull’Europa che a torto il Führer aveva perseguito con le
armi, e che oggi è fondata sulla moneta. Finché la ruota della
storia non si rimetterà daccapo in moto, con buona pace di Frau
Merkel.
“Corriere della sera”,
27 giugno 2012
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