12.9.17

Scontri di civiltà. Arminio e la battaglia di Teutoburgo (Luciano Canfora)


Il monumento ad  Arminio nella foresta di Teitoburgo
Nella «Selva di Teutoburgo», nell’anno 9 dell’era volgare, l’esercito romano al comando di Publio Quintilio Varo, attaccato a sorpresa durante la marcia dai quartieri estivi a quelli invernali, fu distrutto dalle truppe germaniche guidate dal principe Arminio, capo della tribù dei Cherusci. Il sito esatto della battaglia è tuttora controverso. Arminio, «liberator haud dubie Germaniae» secondo la celebre definizione di Tacito, era stato condotto a Roma sin dall’8 a.C. e lì educato e addestrato nell’ambito di quella scuola militare «di eccellenza» che era l’esercito romano. Dal 4 al 6 d.C. fu tribunus militum e durante la campagna di Tiberio contro i Germani combatté nei ranghi dell’esercito romano. Per i suoi meriti in quelle campagne ebbe la cittadinanza romana e il rango equestre.
L’ostilità di Arminio contro i Romani venne maturando quando Quintilio Varo promosse una romanizzazione forzata (nel campo del diritto innanzitutto) nell’ampia area germanica in quel periodo sotto controllo romano. Il passaggio dall’altra parte fu dunque, nel caso di Arminio, un gesto che dal punto di vista di Roma era un tradimento, dal punto di vista di una (ipotizzata) coscienza nazionale germanica un atto di guerriglia e di liberazione nazionale. Il passaggio attraverso il tirocinio nei ranghi romani da parte di leader divenuti simbolo della lotta contro Roma non era un fenomeno nuovo. Anche Vercingetorige, al tempo della sofferta conquista cesariana della Gallia, aveva compiuto lo stesso cammino. E forse anche Spartaco, al tempo suo, era stato nelle truppe ausiliarie romane, prima di disertare e divenire in quanto fugitivus schiavo-gladiatore e infine guida sagace della più temibile sollevazione di schiavi del mondo antico.
Francia e Germania quasi contemporaneamente, in momenti di particolare slancio nazionalistico, hanno innalzato monumenti rispettivamente a Vercingetorige e Arminio. Il monumento a Vercingetorige fu voluto da Napoleone III; quello per Arminio, alto 26 metri (Hermannsdenkmat), in stile «peplum», fu eretto a Detmold nella regione westfalica tra il 1841 e il 1875. Era la risposta tedesca non solo a Roma, ma anche alla Francia del Secondo impero.
Per completezza ricordiamo che in occasione della rivoluzione del 1830 un monumento se lo meritò anche Spartaco a Parigi: dapprima esposto nel giardino delle Tuileries e poi ritirato nel Louvre. Era il risultato innanzitutto di un vero e proprio sussulto rivoluzionario, dopo gli anni cupi di Carlo X; ma non è improbabile che una tale statua di tipo canoviano abbia a che fare anche con il risentimento contro Roma dominatrice, visto che Spartaco aveva fatto tremare la Repubblica imperiale nel cuore stesso dell’Italia.
Per Mommsen, Teutoburgo aveva segnato una tappa epocale nel processo di riunificazione tedesca, e costituiva l’antecedente più glorioso della riunificazione bismarckiana della Germania. Suo genero Wilamowitz, in un importante «discorso di guerra» pronunciato in Bruxelles occupata dai tedeschi (nel giorno di Pasqua del 1918), si spinse a teorizzare che «gli Stati antichi sono senza eccezione Stati nazionali», mentre gli Stati moderni «sono diventati nazionali non senza l’influenza di modelli antichi». E precisava: «Il sentimento nazionale tedesco è emerso con intensità solo dopo la riscoperta di Tacito e quando venne alla luce la figura eroica di Arminio, il liberator haud dubie patriae suae».
Ci si può seriamente interrogare sulla legittimità dell’uso della nozione di «Stato nazionale» in relazione alla realtà germanica del 9 d.C. Ma, se si considera che anche Engels considerava una battaglia di libertà la lotta dei Germani, e di Arminio, contro l’introduzione del diritto romano in terra germanica (reo di introdurre la proprietà privata), si può ben concludere che il mito di Arminio è un mito davvero pantedesco, condiviso dal liberale Mommsen, dallo Junker-conservatore Wilamowitz e dal socialista Engels (e, nel dodicennio nazista, dall’Ahnenerbe di Himmler, adoratore della Germania di Tacito). Le parole di Engels fanno impressione anche per certe inflessioni razziali: «Varo aveva fatto male i suoi conti. I Germani non erano i Sirii! Imponendo loro la civiltà romana, egli mostrò alle tribù confinanti, costrette a confederarsi, che razza di giogo insopportabile li minacciava e li costrinse a quella unificazione che essi fino a quel momento non erano mai stati capaci di trovare» (Storia e Lingua dei Germani, 1881-1882).
Naturalmente Teutoburgo ha un’importanza storica enorme: non tanto perché anticipi un processo di unificazione nazionale che in realtà si produsse molto dopo e attraverso una storia molto accidentata e non sempre esaltante. Fu, quella battaglia, il segnale chiaro e inequivoco — allo stesso modo che Carre sessantadue anni prima all’altro capo dell’impero — dei limiti oggettivi, e non valicabili se non con grande rischio, della possibilità di espansione romana. Nello scontro tra potenze la regola aurea è di comprendere quei limiti e di non trascenderli.
E la ragione per cui, ad esempio, Stalin riteneva azzardato creare un avamposto del proprio impero addirittura fin sull’Elba e avrebbe preferito che, a guerra finita, si costituisse una Germania riunificata e neutrale. Non passò, allora, quel progetto (più moderato di quello di De Gaulle che proponeva la frantumazione del Reich sconfìtto in quattro Stati). Il mezzo secolo successivo ha portato la Germania a quella egemonia sull’Europa che a torto il Führer aveva perseguito con le armi, e che oggi è fondata sulla moneta. Finché la ruota della storia non si rimetterà daccapo in moto, con buona pace di Frau Merkel.


“Corriere della sera”, 27 giugno 2012

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