La cacciata dall'Eden |
Questa l’ha raccontata
Umberto Eco a Vittorio Messori: e lui ce la riferisce nel suo ultimo
libro, Inchiesta sul cristianesimo (S.E.I.). Un omicida è
divorato dal rimorso; entra in una sinagoga: «Rabbi, ho ucciso!»;
«Che il sangue di quell’uomo ricada su di te»; corre a un tempio
protestante: «Pastore, ho commesso un assassinio!»; «E vieni a
dirlo a me? Veditela col Signore, o va’ alla polizia!».
Finalmente, una chiesa cattolica: «Padre, ho ucciso!»; e dall’altra
parte del confessionale una voce risponde: «Quante volte,
figliolo?».
Prendetela un po’ come
vi pare. Chiamatela pure pedante casistica da ragionieri dell’anima
che qualcuno può avere insegnato a quelli di noi che hanno avuto
un'educazione cattolica, quando ancora si spiegava ai ragazzi come
fare «l’esame di coscienza»; oppure, se preferite, parlate del
cinismo di fondo di questo cattolicesimo che pretende di perdonare i
peccati attraverso una rozza paleopsicoterapia auricolare; o,
altrimenti, chiamate in causa la superiore saggezza della Chiesa, che
sa bene come il peccato peggiore sia la disperazione.
Peccato, e soprattutto
tentazione terribile. Chi ha seguito i riti pasquali, anche da laico
interessato a rivivere il dramma storico di un uomo così come lo
narra una tradizione millenaria, sa bene che nel mistero della
passione e della morte di Gesù c’è davvero qualcosa di
universale, qualcosa che - in tempi e in modi diversi - tutti gli
uomini hanno in comune: l’angoscia della fine, la paura del dolore,
della prova e del buio che verrà dopo.
In quel «Signore, perché
mi hai abbandonato?» vibra un terrore pieno, assoluto, senza
remissione: così differente nelle forme espressive eppure così
simile nella sostanza alla disperazione greve, plumbea, costante che
accompagna in ogni attimo della sua vita il cittadino felice di
quest’occidente postcristiano, postmoderno, postindustriale (e
anche postumano, visto che l'ingegneria biologica comincia a poter
fare a meno degli uomini, anche come produttori di ormoni?).
Insomma, abbiamo paura.
Anche noi, figli del libero e forte Occidente e della grande civiltà
tecnologica e informatica, abbiamo paura. Un sentimento sottile, al
quale non sempre riusciamo neppure a dare un nome perché ormai
abbiamo forse disimparato a conoscerlo nelle sue forme tradizionali:
difatti non abbiamo più paura dei nemici, del fuoco, delle tempeste,
delle belve, del buio che si diceva un tempo abitato dai morti e
dalle creature della notte. Ma lei, l’antica compagna, ci
perseguita: per esorcizzarla vestiamo e viviamo «giovane», abbiamo
macchine-ferie-cinema-tivù, magari nei momenti di solitudine (quelli
in cui un tempo ci si consigliava di prepararsi col pensiero alla
morte) inforchiamo le cuffie e ci ubriachiamo di musica il più
demenziale possibile. Evadere dal carcere della condizione
esistenziale; sfuggire all'angoscia del vivere, anche se è proprio
questo continuò sforzo di sfuggirla che, in realtà, le conferisce
una forza che forse non dovrebbe avere.
E si torna, allora, a
vecchie e usurate verità. «Paura di che?», si chiedeva quella
buona rompiscatole d'una Lucia Mondella. Molti di noi non lo sanno: e
sempre più spesso - ora che la confessione auricolare, psicoterapia
rozza ma almeno gratuita, è divenuta desueta - chiedono di esserne
liberati allo psicanalista.
E sia pure, tanto più
che i bei vecchietti curvi e sdentati d’una volta non si vedono più
in giro, qui in Occidente. Finché si può, e se hanno di che
permetterselo, si truccano da giovani a colpi di protesi e di
maquillage; quando poi proprio non ce la fanno più, vengono
occultati. Quelli fra loro che hanno più fortuna, in quei bei
depositi immersi nel verde e popolati di avvenenti infermiere
svizzere. Gli altri, in depositi che odorano di minestra e dove
allignano ancora monache cordiali come sergenti prussiani.
Insomma, la paura, più
la si esorcizza e si finge di esserne immuni, più acquista campo e
accresce il suo tristo impero. Forse, il modo migliore di combatterla
consiste nel conoscerla. Del resto, è proprio il suo carattere
oscuro a renderla affascinante, quasi eccitante.
A descriverla, ci hanno
provato in molti: anche di recente, Rosellina Balbi è riuscita a
farne un tema di moda. Ma lo storico per eccellenza della paura è
Jean Delumeau, il quale già ne La paura in Occidente (scritto
nel '78 e tradotto in italiano l’anno successivo) aveva affrontato
quella che, con occhi di storico, poteva sembrargli una grande
contraddizione.
L’Occidente si è
sviluppato e si è definito sulla base della coscienza di essere un
territorio assediato, fuori e dentro se stesso: persiani, arabi,
turchi (e più tardi magari sovietici e cinesi) fuori; ed eretici,
ebrei, zingari, streghe (e poi magari appestati, untori, e ancora
fascisti, comunisti, anarchici e ammalati di Aids) dentro.
A prima vista,
quest'abbondanza di nemici avrebbe dovuto e dovrebbe vaccinare la
nostra società dal rischio dell’introspezione. E invece no: come
dicono gli psicanalisti, non c’è nemico tanto pericoloso da poter
reggere il confronto con il Terribile interno, con il giudice, il
signore e l’avversario che ciascuno di noi si porta dentro. Da qui
il tema ascetico della lotta contro se stessi, la «pugna
spiritualis»; da qui l’idea - espressa anche dal cristianesimo
delle crociate e dallo jihad islamico - che ogni guerra è tale
anzitutto contro il nemico che sta in noi.
Le sconfitte, gli
arretramenti di fronte, le rese a quel nemico, nelle religioni
storiche e rivelate (ebraismo, cristianesimo, Islam) hanno un nome.
Il peccato. Singoli e società strutturate cercano di ripetere
(magari laicizzandolo in termini politici) da sempre il rito del
capro espiatorio: individuare il peccato, cacciarlo dal loro seno,
riconquistare il diritto a sentirsi puri e quindi immuni dal
pericolo. Perché l’idea di peccato genera angoscia, ed essa a sua
volta paura della punizione e bisogno di forme individuali e
collettive di espiazione che allontanino l’ira divina.
In un nuovo libro che è
appena uscito a cura del Mulino di Bologna, Il peccato e la paura.
L'idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Jean
Delumeau riprende il discorso del suo lavoro precedente e propone una
sistemazione del rapporto peccato-paura in un lungo delicato momento
della storia europea: i cinque-sei secoli compresi (si può dire) fra
la «scoperta della morte» e l’aurora del pensiero laico.
Il Medioevo - lo hanno
dimostrato, sia pure in disaccordo nelle loro tesi di fondo, i lavori
di Philippe Ariès e di Alberto Tenenti - non aveva granché paura
della morte. Forse perché la sua fede era soprattutto quella nel
Cristo vittorioso e trionfale sovrano dell’Apocalisse; forse perché
la certezza di un aldilà nel quale meriti e colpe sarebbero stati
puntualmente e inesorabilmente retribuiti rendeva più leggero il
sopportare le molte pene dell’esistere (un esistere ben più
scomodo
- non si illudano gli
ecologisti! - dell’odierno) e fugava comunque il vero rischio
dell’angoscia, quello che deriva dal timore dell’annientamento;
forse - e quasi certamente - proprio perché il vivere era tanto duro
che il morire poteva davvero configurarsi come il riposo.
Ma con il Due-Trecento,
la vita era diventata più dolce. Nasce allora l’angoscia della
morte: prima come devozione al Cristo sofferente del venerdì santo
(un’umanizzazione del cristianesimo nella quale Francesco d’Assisi
ha un ruolo da protagonista); quindi come progressivo spostamento
dell'ideale ascetico del disprezzo dell’uomo e del mondo, e
pertanto come crescente attaccamento alle gioie e alle dolcezze della
vita; infine come ossessione non priva di elementi morbosi e talora
di una sessualità sublimata (il trionfo della Morte, la danza
macabra).
La morte è il salario
del peccato, sta scritto. Ma dinanzi a una religione che offre la
vita eterna e addirittura la resurrezione dei corpi, a una religione
che parte dall’assunto che l’Incarnazione avrebbe vinto il
peccato e la morte, il fedele si sente poi disorientato dinanzi alla
sua esperienza, che gli insegna invece come siano proprio la morte e
il peccato a portare corona nel mondo.
Lotta al peccato, quindi,
e nello stesso tempo desiderio bruciante di razionalizzare qualunque
sventura tocchi ai singoli e alle società costituite come
conseguenza del peccato: il Dio cristiano ridiventa il terribile Dio
del Sinai, il Signore geloso della vendetta e della giustizia.
Sfortune private e sciagure collettive vengono interpretate «peccatis
nostris exigentibus», come salario «dei nostri peccati». Ma si
sviluppa immediatamente una sorta di santa ragioneria, di
computisteria dell’Eterno: ogni sfortuna, ogni sofferenza va a
sconto della vita eterna. Il libro dell’Arcangelo non contiene
errori, e tutto vi è registrato.
Se la pastorale cattolica
s’indirizza d’altronde sul doppio computo della paura del castigo
eterno e dello scarico periodico che ridà saggiamente fiducia e
allontana l’angoscia (dopo la confessione «ci si sente più
leggeri»), la morale protestante con il senso della predestinazione
è ben lungi (lo aveva compreso bene Max Weber) dal tradursi in
termini di fatalismo e di disperazione. Al contrario, i buoni, i
giusti e magari anche i «successful men» hanno proprio perché tali
la certezza di essere figli prediletti, candidati alla salvezza; e
lottano per divenire ciò che sono, vale a dire appunto buoni,
giusti, «successful men». La lotta contro il peccato si trasforma
immediatamente in lotta contro la paura.
Il libro di Delumeau
giunge alle soglie dell’illumini-smo e dell’età moderna. Resta
da vedere che cosa è accaduto e sta accadendo oggi, in tempi di
morte di Dio e quindi di lotta al senso del peccato. Basteranno la
laicizzazione della morale, la coscienza che quel che era peccato è
ora crimine (e che quel che era peccato e ora non è crimine
corrispondeva in realtà a un inutile non-senso), la morale kantiana
e l’umanitarismo a liberarci dalla paura?
Dopo la morte di Dio,
l’idea di male, certo, si è molto relativizzata. Al contrario,
sembra essersi assolutizzata la paura. Essa, lungi dallo scomparire,
ha allungato la sua ombra proprio in quanto si è trasformata
anzitutto in angoscia del Nulla. □
EUROPEO/6 GIUGNO 1987
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