20.9.17

Landolfi, il fantasma vestito di cachemire (Enrico Regazzoni)

"Giocando a fare il fantasma, si diventa un fantasma".
Sapeva tutto, del suo destino, Landolfi. E tra le tante malattie che gli incalzavano e arricchivano la vita, prediligeva quella che Karl Kraus giudica la peggiore, cioè la diagnosi. Della sua scrittura conosceva il carattere ispido e angosciante, quell'ansia della parola esatta che a folate la raggelava e la rendeva intelligibile a pochi. Tommaso Landolfi sapeva di scrivere per pochi. Unica musa di se stesso, Landolfi dava conto sulla pagina della sua vana lotta nel narrarsi appieno. Tanto peggio per quei lettori che l'avrebbero respinto. Altro non aveva da dire, altre vite non aveva da vivere. Tanto peggio.
Prezioso fantasma del Novecento italiano, a dodici anni dalla sua scomparsa Landolfi guida a pieno titolo la fila dei grandi rimossi della nostra letteratura. Come accade ai più nobili fra gli spettri, molto di lui si è parlato e poco si conosce. La critica alza le mani, in segno di resa e di innocenza, poiché fece di tutto per sostenerlo, inseguendolo con premi e riconoscimenti. Ma tutto fu inutile, il tentativo di mediazione con il grande pubblico fallì. "Uno come Gadda, che pure è molto più difficile, siamo riusciti a imporlo, abbiamo convinto il pubblico che è indispensabile leggerlo", ammette Edoardo Sanguineti, autore di finissime esegesi landolfiane e di una memorabile prefazione a La bière du pecheur. "Con questo, non tutti hanno letto Gadda ma tutti lo conoscono, magari grazie a formule tipo il plurilinguismo. Con Landolfi no, non ce l' abbiamo fatta". Ma perché? Perché proprio a Landolfi tocca far da confine all' area di influenza della critica letteraria? Sanguineti abbozza una risposta ironica, di stampo manageriale. Dice che mentre Gadda ebbe lo sponsor giusto, e cioè Contini, Landolfi ebbe quello sbagliato, e cioè Bo. "E poi diciamolo, il vero problema di Landolfi con il grande pubblico è che la sua scrittura non è appassionante. Nel senso che non è la scrittura del romanzo, fluviale, abbandonata. Tutte le pagine del suo diarismo testimoniano di questa impossibilità di lasciarsi andare, di cedere a una parola diretta, incontrollata. C'è un inciampare nel dire, la frase appena detta è subito chiosata da se stessa e sottolinea una forte innaturalità dello scrivere. L'imbarazzo della mediazione critica nasce proprio da qui: dal dover spiegare un'estetica che spesso occulta la necessità del dire. Il pubblico non ama simili occultamenti, e sospetta che dietro non ci sia nulla. Legge Dostoevskij e capisce che all'ombra di quei romanzi vive un personaggio tumultuoso: ma dietro Landolfi avverte la presenza di una paralisi, e ne ha paura".
La paura del fantasma, appunto. Il timore di dover affrontare un'elegante maschera che potrebbe nascondere la più buia delle nevrosi. Il sospetto di una calcolatissima finzione, l'abile raggiro di un letterato che disdegna la vita. Un sospetto che negli anni si è fatto certezza, grazie anche al tratto ormai leggendario col quale Landolfi scelse ironicamente di rappresentare il suo stesso personaggio. Freddo, pallido, beffardo, avvolto nell'aura di un dandismo spettrale. L'irriducibile passione per il gioco d'azzardo, le improvvise sparizioni nella dimora natale di Pico, le battute rigorosamente sibilline. Tracce falsamente false, indizi che ostentano la verità per dissimularla, pudori di un fantasma. Finzioni, sì, ma come quelle del poeta per Pessoa, che "riesce a fingere che è dolore il dolore che davvero sente".
Nei racconti di chi lo incontrò, il ricordo di Tommaso Landolfi è più aperto di una sfida. "L'ho conosciuto nel 1946, a Firenze. Io ero amico di Piero Santi e frequentavo il caffè delle Giubbe Rosse. Un giorno arrivò Landolfi da Pico: era bello, era molto bello", racconta Mario Novi, critico d' arte che nel dopoguerra era un po' la mascotte dei letterati delle Giubbe Rosse. "Noi si era lì, verso mezzogiorno e poi la sera. C'era Montale, gelido, che ordinava un caffè e ne offriva mezzo a Pratolini, c'era il tavolino degli ermetici con Luzi, Parronchi, Bigongiari, sempre zitti perché chi parlava veniva considerato male. C'era Rosai con il suo assistente Dino Caponi. C'era Bilenchi, quando poteva, e Leone Traverso che di Landolfi era molto amico. Poi Gadda, senza un soldo e un po' isterico, che ce l'aveva con Leopardi perché era ricco di famiglia, ma ce l'aveva come se Leopardi fosse lì, al caffè. Landolfi era sempre ironico, bruciante, e si accaniva soprattutto con Gadda. Lo vedeva entrare e sibilava: ' il gran bagatto!' . Non so perché, so che Gadda si infuriava, diventava tutto rosso e non riusciva a rispondergli". "Landolfi in quel periodo", continua Novi, "faceva la spola fra Pico, Firenze e San Remo. A San Remo per il casinò, ovviamente. Ma anche a Firenze giocava: a scacchi, a poker, a tutto quello che poteva. Giocava spesso con Delfini, e a volte i due litigavano. Landolfi, allora, gli si rivolgeva passando per una terza persona: ' Dica a quel signore...' . Ricordo che una volta, a Venezia, al caffè Florian, prese di punta Moravia. ' Alberto, ma perché scrivi?', gli domandò. Moravia si agitò moltissimo: 'Tommasino, e che dovrei fare, il giardiniere? Dimmi! Il giardiniere?'. Era come se Landolfi si sentisse staccato dalla letteratura italiana, e della sua scrittura non parlava mai".
Anche Mario Luzi, in un recente libretto (De quibus, Zanetto Editore), ricorda l'enigma delle apparizioni landolfiane, i suoi insondabili scarti d'umore, la "non celata disperazione" con cui affrontava la noia dell'inattività. Anche Luzi rammenta il rancore di Gadda, quando seppe che Landolfi l'aveva definito "quel professore impazzito". E il gioco, che non fu sempre al massacro per Tommaso. "Ricordo un periodo nel quale emergeva dalle sue notti sempre più ricco", scrive Luzi. "Il guardaroba landolfiano si arricchì di una serie copiosa di vestiti, scarpe, cappelli, guanti, sciarpe, camicie e maglie di primissima qualità. Ricordo soprattutto una batteria di cappotti morbidi e ampi, da commendatore opulento, di cui si compiaceva specialmente, essendo freddoloso. Accanto a queste gratificazioni Landolfi colse il momento propizio per concedersene un'altra: e comperò una potente motocicletta. Era abbastanza curioso vederlo vestito di quei panni in sella alla sua grossa cilindrata. Tuttavia la sua signorilità risolveva ogni incongruenza senza rimetterci nulla".
Il signorile folletto in cachemire che svolazza per la via Cassia su una rombante Northon è ora amorevolmente intrappolato nell'esauriente cronologia che la figlia Idolina ha inserito nel primo recente, volume dell'opera omnia da lei curata (Tommaso Landolfi, Opere 1937-1959, Rizzoli Editore). Quarantacinque pagine di una biografia tessuta al dettaglio, spesso sulla scorta di tracce minime, una cartolina, una ricevuta, un biglietto ferroviario. "L'ho fatto per sfatare troppe cose riferite senza ragione su di lui", dice Idolina. "Per mostrare come la sua leggenda sia l'invenzione di gente gretta e meschina che non riesce a non invidiare e a non giudicare assurdo uno che coltiva la libertà di perdere enormi cifre al gioco, di non comprarsi una casa, di non avere ideali di carriera, di fama, di denaro. Dico la gente, ma penso anche a tutti i suoi amici accademici, gente strapagata per scrivere due righe".
Strappata all'aneddotica, la vita di Landolfi dona interezza e un respiro continuo a quella grande scrittura che frana su se stessa. La illustra, la rispecchia, la contiene. Non ci sono rivelazioni, né facili metafore: ma l'ossessione del gioco, il riserbo degli affetti, il gusto colpevole dell'inattività, la perenne inconsapevolezza dei momenti felici, le solitudini paurose nella casa dell'infanzia, le improvvisate nel mondo degli altri, la quiete della sconfitta. Tutto questo, visto per intero, conferma di essere la radice di una pianta cresciuta senza luce, di un uomo che scriveva al buio. Prigioniero di un' anima slava e ottocentesca - quei russi che tanto amò e tanto tradusse - Landolfi abitava nella coscienza fratturata di questo secolo: non si occultava, ma inseguiva uno stile che illuminasse di necessità i nascondigli della sua pena. E questo inseguimento era il suo gioco, il gioco del fantasma. Chi lo incontrasse oggi, prima di spaventarsi ammiri il lino di quel lenzuolo.


“la Repubblica”, 9 agosto 1991  

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