"Giocando a fare il
fantasma, si diventa un fantasma".
Sapeva tutto, del suo
destino, Landolfi. E tra le tante malattie che gli incalzavano e
arricchivano la vita, prediligeva quella che Karl Kraus giudica la
peggiore, cioè la diagnosi. Della sua scrittura conosceva il
carattere ispido e angosciante, quell'ansia della parola esatta che a
folate la raggelava e la rendeva intelligibile a pochi. Tommaso
Landolfi sapeva di scrivere per pochi. Unica musa di se stesso,
Landolfi dava conto sulla pagina della sua vana lotta nel narrarsi
appieno. Tanto peggio per quei lettori che l'avrebbero respinto.
Altro non aveva da dire, altre vite non aveva da vivere. Tanto
peggio.
Prezioso fantasma del
Novecento italiano, a dodici anni dalla sua scomparsa Landolfi guida
a pieno titolo la fila dei grandi rimossi della nostra letteratura.
Come accade ai più nobili fra gli spettri, molto di lui si è
parlato e poco si conosce. La critica alza le mani, in segno di resa
e di innocenza, poiché fece di tutto per sostenerlo, inseguendolo
con premi e riconoscimenti. Ma tutto fu inutile, il tentativo di
mediazione con il grande pubblico fallì. "Uno come Gadda, che
pure è molto più difficile, siamo riusciti a imporlo, abbiamo
convinto il pubblico che è indispensabile leggerlo", ammette
Edoardo Sanguineti, autore di finissime esegesi landolfiane e di una
memorabile prefazione a La bière du pecheur. "Con
questo, non tutti hanno letto Gadda ma tutti lo conoscono, magari
grazie a formule tipo il plurilinguismo. Con Landolfi no, non ce l'
abbiamo fatta". Ma perché? Perché proprio a Landolfi tocca far
da confine all' area di influenza della critica letteraria?
Sanguineti abbozza una risposta ironica, di stampo manageriale. Dice
che mentre Gadda ebbe lo sponsor giusto, e cioè Contini, Landolfi
ebbe quello sbagliato, e cioè Bo. "E poi diciamolo, il vero
problema di Landolfi con il grande pubblico è che la sua scrittura
non è appassionante. Nel senso che non è la scrittura del romanzo,
fluviale, abbandonata. Tutte le pagine del suo diarismo testimoniano
di questa impossibilità di lasciarsi andare, di cedere a una parola
diretta, incontrollata. C'è un inciampare nel dire, la frase appena
detta è subito chiosata da se stessa e sottolinea una forte
innaturalità dello scrivere. L'imbarazzo della mediazione critica
nasce proprio da qui: dal dover spiegare un'estetica che spesso
occulta la necessità del dire. Il pubblico non ama simili
occultamenti, e sospetta che dietro non ci sia nulla. Legge
Dostoevskij e capisce che all'ombra di quei romanzi vive un
personaggio tumultuoso: ma dietro Landolfi avverte la presenza di una
paralisi, e ne ha paura".
La paura del fantasma,
appunto. Il timore di dover affrontare un'elegante maschera che
potrebbe nascondere la più buia delle nevrosi. Il sospetto di una
calcolatissima finzione, l'abile raggiro di un letterato che disdegna
la vita. Un sospetto che negli anni si è fatto certezza, grazie
anche al tratto ormai leggendario col quale Landolfi scelse
ironicamente di rappresentare il suo stesso personaggio. Freddo,
pallido, beffardo, avvolto nell'aura di un dandismo spettrale.
L'irriducibile passione per il gioco d'azzardo, le improvvise
sparizioni nella dimora natale di Pico, le battute rigorosamente
sibilline. Tracce falsamente false, indizi che ostentano la verità
per dissimularla, pudori di un fantasma. Finzioni, sì, ma come
quelle del poeta per Pessoa, che "riesce a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente".
Nei racconti di chi lo
incontrò, il ricordo di Tommaso Landolfi è più aperto di una
sfida. "L'ho conosciuto nel 1946, a Firenze. Io ero amico di
Piero Santi e frequentavo il caffè delle Giubbe Rosse. Un giorno
arrivò Landolfi da Pico: era bello, era molto bello", racconta
Mario Novi, critico d' arte che nel dopoguerra era un po' la mascotte
dei letterati delle Giubbe Rosse. "Noi si era lì, verso
mezzogiorno e poi la sera. C'era Montale, gelido, che ordinava un
caffè e ne offriva mezzo a Pratolini, c'era il tavolino degli
ermetici con Luzi, Parronchi, Bigongiari, sempre zitti perché chi
parlava veniva considerato male. C'era Rosai con il suo assistente
Dino Caponi. C'era Bilenchi, quando poteva, e Leone Traverso che di
Landolfi era molto amico. Poi Gadda, senza un soldo e un po'
isterico, che ce l'aveva con Leopardi perché era ricco di famiglia,
ma ce l'aveva come se Leopardi fosse lì, al caffè. Landolfi era
sempre ironico, bruciante, e si accaniva soprattutto con Gadda. Lo
vedeva entrare e sibilava: ' il gran bagatto!' . Non so perché, so
che Gadda si infuriava, diventava tutto rosso e non riusciva a
rispondergli". "Landolfi in quel periodo", continua
Novi, "faceva la spola fra Pico, Firenze e San Remo. A San Remo
per il casinò, ovviamente. Ma anche a Firenze giocava: a scacchi, a
poker, a tutto quello che poteva. Giocava spesso con Delfini, e a
volte i due litigavano. Landolfi, allora, gli si rivolgeva passando
per una terza persona: ' Dica a quel signore...' . Ricordo che una
volta, a Venezia, al caffè Florian, prese di punta Moravia. '
Alberto, ma perché scrivi?', gli domandò. Moravia si agitò
moltissimo: 'Tommasino, e che dovrei fare, il giardiniere? Dimmi! Il
giardiniere?'. Era come se Landolfi si sentisse staccato dalla
letteratura italiana, e della sua scrittura non parlava mai".
Anche Mario Luzi, in un
recente libretto (De quibus, Zanetto Editore), ricorda
l'enigma delle apparizioni landolfiane, i suoi insondabili scarti
d'umore, la "non celata disperazione" con cui affrontava la
noia dell'inattività. Anche Luzi rammenta il rancore di Gadda,
quando seppe che Landolfi l'aveva definito "quel professore
impazzito". E il gioco, che non fu sempre al massacro per
Tommaso. "Ricordo un periodo nel quale emergeva dalle sue notti
sempre più ricco", scrive Luzi. "Il guardaroba landolfiano
si arricchì di una serie copiosa di vestiti, scarpe, cappelli,
guanti, sciarpe, camicie e maglie di primissima qualità. Ricordo
soprattutto una batteria di cappotti morbidi e ampi, da commendatore
opulento, di cui si compiaceva specialmente, essendo freddoloso.
Accanto a queste gratificazioni Landolfi colse il momento propizio
per concedersene un'altra: e comperò una potente motocicletta. Era
abbastanza curioso vederlo vestito di quei panni in sella alla sua
grossa cilindrata. Tuttavia la sua signorilità risolveva ogni
incongruenza senza rimetterci nulla".
Il signorile folletto in
cachemire che svolazza per la via Cassia su una rombante Northon è
ora amorevolmente intrappolato nell'esauriente cronologia che la
figlia Idolina ha inserito nel primo recente, volume dell'opera omnia
da lei curata (Tommaso Landolfi, Opere 1937-1959, Rizzoli Editore).
Quarantacinque pagine di una biografia tessuta al dettaglio, spesso
sulla scorta di tracce minime, una cartolina, una ricevuta, un
biglietto ferroviario. "L'ho fatto per sfatare troppe cose
riferite senza ragione su di lui", dice Idolina. "Per
mostrare come la sua leggenda sia l'invenzione di gente gretta e
meschina che non riesce a non invidiare e a non giudicare assurdo uno
che coltiva la libertà di perdere enormi cifre al gioco, di non
comprarsi una casa, di non avere ideali di carriera, di fama, di
denaro. Dico la gente, ma penso anche a tutti i suoi amici
accademici, gente strapagata per scrivere due righe".
Strappata all'aneddotica,
la vita di Landolfi dona interezza e un respiro continuo a quella
grande scrittura che frana su se stessa. La illustra, la rispecchia,
la contiene. Non ci sono rivelazioni, né facili metafore: ma
l'ossessione del gioco, il riserbo degli affetti, il gusto colpevole
dell'inattività, la perenne inconsapevolezza dei momenti felici, le
solitudini paurose nella casa dell'infanzia, le improvvisate nel
mondo degli altri, la quiete della sconfitta. Tutto questo, visto per
intero, conferma di essere la radice di una pianta cresciuta senza
luce, di un uomo che scriveva al buio. Prigioniero di un' anima slava
e ottocentesca - quei russi che tanto amò e tanto tradusse -
Landolfi abitava nella coscienza fratturata di questo secolo: non si
occultava, ma inseguiva uno stile che illuminasse di necessità i
nascondigli della sua pena. E questo inseguimento era il suo gioco,
il gioco del fantasma. Chi lo incontrasse oggi, prima di spaventarsi
ammiri il lino di quel lenzuolo.
“la Repubblica”, 9
agosto 1991
Nessun commento:
Posta un commento