Giovedì
19 novembre del 1964 la tv mandò in onda alle ore 21 e 30 sull'unico
canale all'epoca funzionante la prima delle otto puntate di Specchio
segreto,
la “candid camera” pensata e realizzata in Italia dal regista
allora trentanovenne Nanni Loy e dalla sua équipe. Loy aveva già
ottenuto un successo come regista cinematografico con Le
quattro giornate di Napoli e
altri ne avrebbe ottenuto in futuro: ricordiamo tra gli altri film
Detenuto in attesa
di giudizio
(1971), Cafè
express
(1980), Mi manda
Picone
(1984).
L'intervista
che segue, dedicata a Specchio
segreto, alla
tv di Bernabei e all’Italia degli anni Sessanta, gli fu rivolta da
Silverio Novelli e Gianandrea Turi per il supplemento di
“Avvenimenti” che essi curavano, dedicato alla storia della
cosiddetta Prima Repubblica. (S.L.L.)
Specchio segreto
nasce e arriva in tv in piena era Bemabei, nel 1964...
Era
una Rai assolutamente integralista. L'idea di fare una "Candid
Camera" certo piaceva, visto il successo negli Stati Uniti, in
Inghilterra, in Francia e in Germania. Ma i dirigenti di viale
Mazzini avevano paura. Alla fíne si decise di fare una puntata
"pilota".
Questa
però è una procedura abbastanza usuale.
Sì
sì, ma in questo caso non si trattava di motivi tecnici o economici.
Si trattava di censura. Allora non si poteva fare un programma senza
che venisse controllato o interamente predisposto. I funzionari
volevano conoscere i dialoghi in anticipo. E io dàgli a spiegare che
non poteva esistere una "candid camera" con tanto di
copione o di sceneggiatura. In Rai avevano provato a fame una finta
con attori professionisti... Una cosa deprimente, per fortuna non ne
fecero nulla.
La
puntata pilota comunque si fece, no?
Si
fece grazie soprattutto al sostegno di Angelo Guglielmi e Mario
Motta, gli unici dirigenti dell'azienda convinti della bontà del
nostro progetto.
E
il risultato piacque, perché la tv trasmise otto puntate di
"Specchio segreto", compresa la pilota.
Non
andò proprio così liscia. Durante i provini con gli attori che
"provocavano" il passante, non riuscivo ad ottenere, per
esempio, che lasciassero il primo piano al protagonista. Ma più che
altro accadeva spesso che l'attore proseguiva imperterrito sulla
traccia che avevamo concordato prima delle riprese senza tenere conto
di quello che il suo interlocutore stava dicendo. Alla fine diventò
chiaro che il sistema migliore, oltre che il più economico, era
quello di far interpretare il molo di spalla, del "provocatore",
a uno di noi, me - cioè il regista - Giorgio Arlorio o Fernando
Morandi.
La
scelta cadde su di lei.
Principalmente
su di me. Con la mia pipa in mano potevo avvicinarmi abbastanza
tranquillamente al viso dell'interlocutore: il microfonino, che
tenevo nascosto con una fasciatura al polso, funzionava bene solo da
molto vicino, non oltre il mezzo metro. Anche qui, non fu tutto
facile. Per trovare il microfonino dovemmo andare in Germania, così
piccoli in Italia non se ne facevano. E non bastò, perché, per
strada, le scariche degli impianti elettrici delle macchine facevano
"friggere" il sonoro. In Germania ci inventarono un sistema
di schermatura adeguato.
E
per nascondere la macchina da presa?
Adottammo,
con qualche messa a punto, il sistema del vetro-specchio utilizzato
allora dalla questura di Roma. Noi, per giustificare nelle strade la
presenza di uno specchio, preparammo un camioncino con la scritta
"traslochi". I due lati lunghi erano occupati da due armadi
con grandi specchiere: all'esterno "erano" specchi,
dall'interno del camioncino, nella più completa oscurità, la lastra
funzionava da vetro quasi trasparente, privato in gran parte com'era
dello strato di nitrato d'argento.
Insomma,
una macchina da presa clandestina...
Tra
chi allora criticò la trasmissione - si accese un bel dibattito tra
sostenitori e detrattori - ci fu la scrittrice Natalia Ginzburg:
«L'indiscrezione ci sembra opprimente e illecita e ci lascia un
senso di disagio, come se ci trovassimo in presenza di un inutile
sfoggio di crudeltà». Scrisse così. Eppure a mio avviso lo
specchio segreto è l'unico sistema che permette ai cittadini comuni
di diventare protagonisti in tv. E in ogni caso non mandavamo in onda
nulla senza l'autorizzazione scritta delle persone riprese.
Questa
autorizzazione ve la davano sempre?
Quasi
sempre. Più di novanta volte su cento. Alcuni hanno voluto
controllare il montaggio finale. Come gli operai dell'Alfa Romeo di
Milano. La classe operaia di allora era cazzuta forte. Erano tempi
duri per gli operai. Davanti ai cancelli, io tutto male in arnese,
con la barba lunga, impugnavo un cartello con su scritto "aiutate
un vostro compagno". A quelli che si fermavano dicevo che non
avevo più voglia di lavorare e che se erano davvero miei compagni
dovevano darmeli loro, i soldi.
Una
vera provocazione.
Sì.
Io gli spiegavo che, anche se avevo solo quarantanni, avevo lavorato,
a forza di straordinari, quanto i più anziani di loro e i soldi per
la mia famiglia, ora che non avevo più voglia di faticare, doveva
tirarli fuori la classe operaia. Alla fine alcuni mi davano ragione,
altri, nel capannello che si stava facendo sempre più fitto,
diventarono minacciosi. A un certo punto mi sentii sollevato come un
fuscello e sbattuto dentro un cellulare: la polizia aveva pensato
bene di salvarmi. «C'è un equivoco, sono un regista della Rai»,
dissi al maresciallo con i baffi che guidava. E quello, di rimando:
«Sì, e io sono Rita Pavone». Sta di fatto che qualche giorno dopo
l'intero consiglio di fabbrica dell'Alfa si presentò agli studi tv.
Ci fu un dibattito di ore, accesissimo, poi gli operai firmarono. Noi
accettammo di "tagliare" quelli di loro che ci avevano
fatto la figura più da stronzi.
Ci
ha immerso, attraverso questa rievocazione, nell'atmosfera di quei
tempi. Da "Specchio segreto" vien fuori, d pare, un'Italia
molto viva.
L'Italia
dei cittadini, alla quale davamo voce, era così. Lo vedevamo anche,
o forse proprio, negli sketch che poi non mandavamo in onda. Un 24
dicembre, a Milano, in piazza del Duomo, nevicava, e io vestito molto
male vendevo il "Corriere dell'informazione". Si avvicina
un giovane, elegantissimo, con un cappotto di cammello, e mi chiede
il giornale. Io prendo i soldi ma, prima di darglielo «scusi se
approfitto - faccio -, io qui a Milano sono solo, sono immigrato. Non
so con chi passare questa sera. Lei mi potrebbe ospitare?». La
proposta non era così leggera come può sembrare, io ero veramente
malmesso. Il giovanotto mi guarda,dice: «Anch'io sono solo». E
resta zitto, lì, senza andarsene. Allora io faccio: «Bene, allora
possiamo...». Mi prende sotto il braccio e mi porta verso un punto
meno affollato. Abbassa la voce e «sono omosessuale», mi confida.
Di famiglia ricca, con villa a Como, era obbligato a trascorrere il
Natale con i suoi e invece era innamorato di un ragazzo che stava a
Milano e con il quale voleva passare la festa. Poi, a un tratto,
scoppia a piangere, questo ragazzo bellissimo (avrà avuto
trent'anni). Lui avrebbe anche firmato: si portava dentro il peso di
un segreto del quale non si poteva far cenno e il fatto di poter
parlare finalmente con qualcuno che non mostrava repulsione era stato
liberatorio. È venuto sul camioncino. «Se volete firmo». «No,
guardi ci pensi bene, nella sua situazione può essere davvero
difficile». Qualche giorno dopo rinunciò, mica era così semplice
nell'Italia di allora per un omosessuale.
1961-1967. Il centro-sinistra, i Beatles, il tentato golpe, supplemento ad "Avvenimenti", 2 marzo 1994
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