Ora, a distanza
di tanti anni, possiamo smentire André
Gide a cuor leggero: no, Victor Hugo non è
il più grande poeta francese dell’Ottocento.
Il primato se lo contendono ancora
Charles Baudelaire e Stéphane
Mallarmé, per ragioni diverse e in un
certo senso speculari.
Visto da qui
appare inconcepibile il contegno
tenuto dai suoi contemporanei verso
Baudelaire: a cominciare da
SainteBeuve che lo tratta con il sospettoso
paternalismo che gli adulti sono
soliti riservare agli adolescenti
ombrosi e bizzarri. Per la maggior parte
della sua vita indigente, Charles non
ottiene il successo cui aspira con
discrezione; e quando alla fine, a
pochi passi dalla tomba, giungono i
primi riconoscimenti, tributati
da quei giovani scavezzacolli passati
alla storia con il nome di Simbolisti,
ne è addirittura contrariato, se
non proprio sconvolto.
Per la maggior
parte della sua vita indigente,
Charles non ottiene il successo cui aspira
con discrezione; e quando alla fine, a
pochi passi dalla tomba, giungono i
primi riconoscimenti, tributati
da quei giovani scavezzacolli passati
alla storia con il nome di Simbolisti,
ne è addirittura contrariato, se
non proprio sconvolto.
È l’ultimo
scotto pagato a un’indole fatalmente
incongruente. Baudelaire resta
avvinto fino in fondo alla propria
infedeltà a se stesso: il bizzarro che
aborrisce la bizzarria; l’innovatore
che tiene in gran conto la tradizione; il
trasgressore alfiere dell’ordine;
il debosciato che venera il lavoro.
Mentre la sifilide gli divora i
neuroni, riducendolo all’afasia,
qualcosa inizia a muoversi intorno
a lui, a dispetto della sua volontà, e in
suo nome: qualcosa di implacabile,
che avrà un’importanza straordinaria
non tanto per lui, ma per la letteratura
moderna. Ecco Rimbaud, che pure gli imputa
a brutto muso una «forma meschina»,
inchinarsi al suo magistero, e Mallarmé
muovere i primi passi all’ombra del suo
carisma; Laforgue gli deve la forza di
rompere con il pubblico; Huysmans,
allestendo la biblioteca di des
Esseintes, mette I fiori del male accanto
al Satyricon di Petronio; Valéry, pur
riconoscendo l’esistenza di poeti
francesi più dotati di Baudelaire,
è costretto ad ammettere che «nessuno
è più importante di lui».
È così che I
fiori del male diventano un’opera
tanto capitale da risolvere una
volta per tutte la secolare querelle
tra Antichi e Moderni; un Faro per Proust,
Benjamin e tanti altri; pietra
miliare per urbanisti e critici
d’arte; ispirazione per alcolizzati
penitenti e per depressi ansiosi
di fuga e di riscossa. Si tratta di un
longseller immortale, uno dei pochi
canzonieri che compulsa anche chi non
frequenta la poesia. Altro che rottura
con il pubblico! Baudelaire è il poeta
del pubblico: dagli adolescenti
ribelli ai vecchi reazionari. In un
certo senso il suo destino è assimilabile
a quello di Leopardi, anche se su scala
mondiale.
Il caso
Mallarmé
Ben altra sorte
è toccata a Mallarmé e alla sua smilza
levigatissima opera: in un certo
senso l’ascendente mallarmeano è
altrettanto decisivo, la sua rivolta
egualmente imprescindibile, e
tuttavia più ritrosa ed elitaria.
Anche per questo
salutiamo con gioia e riconoscenza
la nuova edizione delle sue poesie
proposta da Marsilio nella collana
di Francesco Fiorentino. A sessant’anni
dal fortunato volumetto curato
da Luciana Frezza (un classico), e dopo
la più recente e audace traduzione
di Patrizia Valduga, arriva in
libreria il 30 marzo una nuova e assai bella
versione delle Poesie ad opera di Chetro
De Carolis, con il mirabile commento
di Luca Bevilacqua, tra i massimi
specialisti italiani di Mallarmé.
L’asceta e
il borghese
Non troverete
nella storia letteraria un poeta più
devoto alla sua vocazione e alla
sua arte, eppure la sua influenza è così
prorompente da trascenderne l’opera.
Alcuni suoi versi fanno parte ormai del
mainstream: «Il vergine, il vivace e il
bello oggidì», «La carne è triste,
ahimè! e ho letto tutti i libri». Ma al di là
di queste gemme è difficile anche per
il lettore più paziente ed esperto
affrontare la poesia di Mallarmé a
cuor leggero, senza guida. Mallarmé
invita i suoi esegeti a non arrendersi
alle prime difficoltà, e neppure
alle seconde.
Parecchi anni
dopo la sua morte, Paul Valéry, il suo allievo
più fervente, ricordando la leggendaria
stagione della poesia francese
rischiarata dal pallido sole
mallarmeano, scrisse con nostalgia:
«Mai più alta apparve la Torre d’avorio».
Protetta da
bastioni imponenti e impenetrabili,
quella Torre resistette a stento alla
furia delle intemperie e degli
invasori. Non si capisce l’impegno
di Mallarmé, infatti, se non si tiene
conto dell’ostilità e la derisione
di cui fu fatto oggetto. Anatole France,
tanto per citarne uno, disse che l’oscurità
di Mallarmé era tale da scadere nel
ridicolo (molti anni dopo Valéry
avrebbe vendicato quest’affronto).
Il dato ironico,
in un certo senso anche il più toccante, è
che la vita di Mallarmé, a fronte di tale
titanica determinazione, fu
per certi versi antitetica a quella
di Baudelaire. Nel suo nido piccolo-borghese
non era ammessa alcuna stravaganza;
la malvagia diffidenza della società
letteraria era gestita da Mallarmé
con garbo, ironia e seraficità; e
mentre un modesto impiego di insegnante
di inglese gli assicurava il
necessario per vivere, il ménage
coniugale garantiva la serenità
e la frenesia indispensabili alla
concentrazione.
Certo, c’erano
i mardì, i famosi martedì in cui
Mallarmé apriva la casa a scrittori e
pittori tra i più grandi dell’epoca, e non
solo della sua. Ma a vedere certe
istantanee di quel salottino all’8 di Rue
de Rome si resta sconcertati all’idea che
lì si sia consumata la «rivoluzione
del linguaggio poetico» di cui parla Julia
Kristeva: sebbene quei vani angusti,
e fin troppo arredati, non rechino
traccia di sediziosità, è lì che tutto
ebbe inizio. Ancora Valéry, in un
ritratto dedicato al maestro,
precisa: «La sua opera difficile da
capire, impossibile da ignorare,
divideva il pubblico colto. Povero
e senza onori, la nudità della sua
condizione rendeva vili le altrui
fortune; ma si era assicurato, senza
cercarle, delle fedeltà straordinarie.
Quanto a lui, il cui sorriso da saggio, da
vittima superiore, era biasimo
silente dell’universo, mai aveva
domandato al mondo se non ciò che vi è di più
raro e prezioso. Lo trovava in se stesso».
Ma a vedere
certe istantanee di quel salottino
all’8 di Rue de Rome si resta sconcertati
all’idea che lì si sia consumata la
«rivoluzione del linguaggio poetico»
di cui parla Julia Kristeva: sebbene
quei vani angusti, e fin troppo arredati,
non rechino traccia di sediziosità,
è lì che tutto ebbe inizio. Ancora
Valéry, in un ritratto dedicato
al maestro, precisa: «La sua opera difficile
da capire, impossibile da ignorare,
divideva il pub- blico colto. Povero
e senza onori, la nudità della sua
condizione rendeva vili le altrui
fortune; ma si era assicurato, senza
cercarle, delle fedeltà straordinarie.
Quanto a lui, il cui sorriso da saggio, da
vittima superiore, era biasimo
silente dell’universo, mai aveva
domandato al mondo se non ciò che vi è di più
raro e prezioso. Lo trovava in se stesso».
Autarchia
L’autosufficienza.
Ecco la parola chiave in cui si esprime
l’estremismo mallarmeano. Dev’essere
autosufficiente il Poeta, dev’esserlo
la Poesia, e tanto più vi è costretto il
Lettore. Non a caso ancora oggi la
domanda resta la stessa che turbava i
suoi contemporanei (sia i fan che i
detrattori): come si legge una poesia
di Mallarmé? Come accostarla? Come
gestire l’oscurità, la sterilità,
il preziosismo? E il lessico raro? E la
sintassi sconquassata? Talvolta lo
stesso Mallarmé sembra animato dal
desiderio di fornire un metodo di
lettura. La sua ossessione per il
controllo è sfrenata (grazie al cielo
almeno in questo fallì). La caratteristica
del lettore mallarmeano, urge
ribadirlo, è l’autosufficienza.
Affrontare un testo di Mallarmé
significa sfidare il mare aperto,
senza timone, senza bussola, muniti
di pazienza, amore e immaginazione.
E questo perché Mallarmé ha abolito
la relazione tra le parole e gli oggetti
che esse dovrebbero rappresentare,
il sacro vincolo su cui avevano scommesso
sia i poeti romantici che i romanzieri
realisti. Come ci ricorda George
Steiner: «Attribuire alle parole
una corrispondenza con “gli oggetti
lì fuori”, giudicare e usarle come
se rappresentassero in qualche modo
la “realtà” del mondo, non è soltanto
un’illusione volgare. È trasformare
la lingua in menzogna». È con Mallarmé
che si consuma il divorzio definitivo
tra il dizionario e la realtà. Anche le
parole più corrive devono ambire
all’autosufficienza. Per farlo
devono purificarsi. Da qui la
spaventosa difficoltà in cui
sprofonda il lettore.
Come leggere
Mallarmé
Bevilacqua,
nella prefazione (la cui eleganza e
stringatezza sembrano un omaggio a
Mallarmé), torna sulla questione: la
chiama la «fenomenologia della
lettura delle poesie di Mallarmé».
Identifica due famiglie di mallarmeani
portatori di ricette antitetiche:
da una parte c’è Paul Bénichou, dall’altra
JeanPaul Richard, due pesi massimi della
critica francese del Novecento.
Bénichou
auspica e sostiene «la possibilità
concreta di pervenire a un significato
unico e definitivo da attribuire
alla singola poesia e alle sue diverse
parti, significato che coincide
con l’intenzione di Mallarmé». Richard,
invece, afferma che non c’è «nulla di
più sfuggente di queste poesie il cui senso
sembra modificarsi da una lettura
all’altra, e che non lasciano mai dentro di noi
la rassicurante certezza di averle
veramente, definitivamente,
afferrate».
Insomma, chi ha
ragione tra Bénichou e Richard?
Bevilacqua
sembra pendere dalla parte del secondo,
ricordando en passant che lo stesso
Mallarmé auspicava una «comprensione
multipla». E sebbene ci metta in guardia
dal rischio di abbandonarsi a una lettura
troppo libera, conclude che «leggere
le Poesie di Mallarmé vuol dire sottoporsi
a un apprendistato grazie al quale si
perviene a una nuova pratica della
lettura, per cui ogni passaggio sul testo è
suscettibile di essere superato,
persino cancellato da quello
successivo. In una certa misura, è
come se ogni singolo componimento
risultasse ogni volta nuovo. Il lettore
accetta allora deliberatamente
la sua condizione di eterno ingenuo,
mentre la poesia — come leggiamo in Le
Mystère dans les lettres — è destinata
a mantenersi per sempre vergine».
Bevilacqua
sembra pendere dalla parte del secondo,
ricordando en passant che lo stesso
Mallarmé auspicava una «comprensione
multipla». E sebbene ci metta in guardia
dal rischio di abbandonarsi a una lettura
troppo libera, conclude che «leggere
le Poesie di Mallarmé vuol dire sottoporsi
a un apprendistato grazie al quale si
perviene a una nuova pratica della
lettura, per cui ogni passaggio sul testo è
suscettibile di essere superato,
persino cancellato da quello
successivo. In una certa misura, è
come se ogni singolo componimento
risultasse ogni volta nuovo. Il lettore
accetta allora deliberatamente
la sua condizione di eterno ingenuo,
mentre la poesia — come leggiamo in Le
Mystère dans les lettres — è destinata
a mantenersi per sempre vergine».
Il paradosso
è tutto qui: in apparenza non c’è poeta
che sdegni più il pubblico, che se ne infischi
della sua approvazione, che viva nel
mito della propria autarchia; eppure
se c’è qualcuno che ha bisogno del
contributo del lettore, che chiede uno
sforzo supplementare, uno scatto di
reni all’immaginazione è proprio
lui, Stéphane Mallarmé.
La religione
della poesia
Date le
circostanze temo di dover ancora
scomodare Valéry: «Lo dico in
conoscenza di causa: in quell’epoca noi
abbiamo avuto la sensazione che
sarebbe potuta nascere una specie
di religione, di cui l’emozione poetica
sarebbe stata l’essenza». Il discorso
è delicato. Quando si associano
arte e religione si corre sempre il
rischio di impantanarsi nelle melme
della retorica decadente. E non è
mia intenzione infangarmi le scarpe.
La religione cui allude Valéry
non agisce sul tenore di vita del Poeta, né
condiziona le sue abitudini. La
religione della poesia è
paradossalmente un atto di ateismo,
è la sola liturgia laica concessa al
nichilista, un’aspirazione verso
un Assoluto in cui è impossibile
credere fino in fondo. È un rifiuto
della vita e della natura non molto
diverso da quello operato a suo tempo
da Flaubert e da Baudelaire, ma se possibile
in una forma rinnovata, ancora più
esclusiva e intransigente. Mallarmé,
come Pascal, è ossessionato dal Nulla
che ci assedia. Ad esso sembra opporre
il Livre, ovvero un’Opera tanto capiente
e precisa da contenere l’essenza
e il mistero del cosmo. Al Poeta, proprio
come a un fedele di qualsiasi confessione
monoteista, è concesso un solo Libro.
Il resto, come si suol dire, è letteratura.
È quasi
inimmaginabile la conseguenza
che tale concezione cosmologica
ha avuto sulla letteratura
occidentale. Non solo tra i poeti, ma
ancor più tra i narratori.
Per quanto assurdo
possa apparire, l’ansia dei modernisti
(di Proust, Joyce, Musil, Broch e di tanti
altri ancora) di consacrare la propria
vita a opere estreme e totalizzanti
— ecosistemi mastodontici,
intricati, pieni di zone oscure,
capaci di contenere lo scibile e
di non invecchiare mai — deriva dalla
rivoluzione operata da quel discreto,
affabile, testardo insegnante
di inglese.
Per quanto assurdo
possa apparire, l’ansia dei modernisti
(di Proust, Joyce, Musil, Broch e di tanti
altri ancora) di consacrare la propria
vita a opere estreme e totalizzanti
— ecosistemi mastodontici,
intricati, pieni di zone oscure,
capaci di contenere lo scibile e
di non invecchiare mai — deriva dalla
rivoluzione operata da quel discreto,
affabile, testardo insegnante
di inglese.
“La lettura –
Corriere della Sera”, 19 marzo 2017
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