Più che i quarant'anni
della morte di Freud, a me viene voglia di ricordare i
sessant'anni dalla stesura di Al di là del principio del piacere,
il che ci darebbe anche un po' di fiato, in stretto regime di
anniversari, per il prossimo anno. Intendo dire che la svolta
segnata da quel libro, che riplasma il pensiero del suo autore
sull'asse dell'opposizione di Eros e Thanatos, è ancora un duro
enigma, e che lo zelo con cui Freud volle negarne l'origine
occasionale e gli stimoli privati, certo è perfettamente
accoglibile e scrupolosamente testimoniato; ma per ripetere le sue
parole, non tutto quello che è probabile è vero. Resiste comunque come sintomo.
Il filosofo della morte, che si dispiega in quelle pagine composte appunto tra il '19 e il '20, ebbe comunque un curioso destino, sdoppiato, per tacere dei fraintendimenti, tra le tenaci resistenze scientifiche e lo sterminato successo ideologico. Insomma, ci si può chiedere, a conforto delle preoccupazioni stesse di Freud, se la fortuna quasi anonima del concetto di "pulsione di morte", non dimostri che, con quella nozione, Freud ha in sostanza dato voce alla coscienza collettiva occidentale egemone, tra le due guerre mondiali, e infine alla forma presente del nostro disagio della civiltà.
E' troppo facile, altrimenti, ripiegare sopra il famoso Come deve essere dolce morire, pronunciato dinanzi al suo più famoso cedimento, in forma di svenimento, dinanzi al suo più famoso caso di "coazione a ripetere", a Monaco, e tirare innanzi con Jung, e più ancora con Fliess. A proposito di Fliess, infatti, c'è il rischio di allegorico periodizzamento, con quel '39 della morte che cade così giusto, tra ebreo esule a Londra, nazisti a Vienna, guerra che si scatena, cancro, eutanasia, e tutto il resto. Non manca niente. Tutto funziona troppo bene.
Giocando per libera associazione, è meglio che la morte di Freud ci riporti alla sua idea della morte, come esplosione, ma di significato collettivo e non personale, di una angoscia coltivata un po' per tutta una lunga vita, e recata infine a fondazione teorica vent'anni prima della messa in opera soggettiva. Da Al di là del principio del piacere, allora, vorrei citare un passo, che a me suona rivelatore: quello in cui Freud dichiara che non può non prendere atto di essere approdato nel porto della filosofia di Schopenauer, per il quale la morte è "il vero e proprio risultato e, come tale, scopo della vita", mentre la bramosia sessuale è l'incarnazione della volontà di vivere. Ma Freud approda anche nel porto apprestato da Flaubert, nella tanto giovanilmente ammirata Tentazione, con quel celebrato grido: «Essere la materia!».
Per tornare al '39, a Schur, che gli chiese se quella sarebbe stata l'ultima guerra, Freud rispose: «E' la mia ultima, in ogni caso». Allora, vorrei finire ricordando una lettera di Freud alla moglie, dell''83, in cui oppone "noi" al "popolo". Il disagio delle classi superiori, meglio civilizzate, è connesso al risparmio del godimento, a un preveggente supplemento di repressione, alla prevalenza accordata, sopra la ricerca del piacere, al timore del dolore. «C'è una psicologia dell'uomo comune che è in un certo senso differente dalla nostra. Quella gente ha anche un senso della comunità superiore al nostro, ed essi soli sentono che ogni vita è la continuazione di un'altra, mentre per ciascuno di noi il mondo scompare con la propria morte». Per questa lettera, soprattutto, mi preparerei con calma al centenario. Lì, in una scrittura privata, è depositato per sempre lo scacco ultimo della borghesia di fronte al problema della morte.
Il filosofo della morte, che si dispiega in quelle pagine composte appunto tra il '19 e il '20, ebbe comunque un curioso destino, sdoppiato, per tacere dei fraintendimenti, tra le tenaci resistenze scientifiche e lo sterminato successo ideologico. Insomma, ci si può chiedere, a conforto delle preoccupazioni stesse di Freud, se la fortuna quasi anonima del concetto di "pulsione di morte", non dimostri che, con quella nozione, Freud ha in sostanza dato voce alla coscienza collettiva occidentale egemone, tra le due guerre mondiali, e infine alla forma presente del nostro disagio della civiltà.
E' troppo facile, altrimenti, ripiegare sopra il famoso Come deve essere dolce morire, pronunciato dinanzi al suo più famoso cedimento, in forma di svenimento, dinanzi al suo più famoso caso di "coazione a ripetere", a Monaco, e tirare innanzi con Jung, e più ancora con Fliess. A proposito di Fliess, infatti, c'è il rischio di allegorico periodizzamento, con quel '39 della morte che cade così giusto, tra ebreo esule a Londra, nazisti a Vienna, guerra che si scatena, cancro, eutanasia, e tutto il resto. Non manca niente. Tutto funziona troppo bene.
Giocando per libera associazione, è meglio che la morte di Freud ci riporti alla sua idea della morte, come esplosione, ma di significato collettivo e non personale, di una angoscia coltivata un po' per tutta una lunga vita, e recata infine a fondazione teorica vent'anni prima della messa in opera soggettiva. Da Al di là del principio del piacere, allora, vorrei citare un passo, che a me suona rivelatore: quello in cui Freud dichiara che non può non prendere atto di essere approdato nel porto della filosofia di Schopenauer, per il quale la morte è "il vero e proprio risultato e, come tale, scopo della vita", mentre la bramosia sessuale è l'incarnazione della volontà di vivere. Ma Freud approda anche nel porto apprestato da Flaubert, nella tanto giovanilmente ammirata Tentazione, con quel celebrato grido: «Essere la materia!».
Per tornare al '39, a Schur, che gli chiese se quella sarebbe stata l'ultima guerra, Freud rispose: «E' la mia ultima, in ogni caso». Allora, vorrei finire ricordando una lettera di Freud alla moglie, dell''83, in cui oppone "noi" al "popolo". Il disagio delle classi superiori, meglio civilizzate, è connesso al risparmio del godimento, a un preveggente supplemento di repressione, alla prevalenza accordata, sopra la ricerca del piacere, al timore del dolore. «C'è una psicologia dell'uomo comune che è in un certo senso differente dalla nostra. Quella gente ha anche un senso della comunità superiore al nostro, ed essi soli sentono che ogni vita è la continuazione di un'altra, mentre per ciascuno di noi il mondo scompare con la propria morte». Per questa lettera, soprattutto, mi preparerei con calma al centenario. Lì, in una scrittura privata, è depositato per sempre lo scacco ultimo della borghesia di fronte al problema della morte.
“L'Europeo”, 20
settembre 1979
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