È sconfinata la boria
mentale con cui ci pensiamo «moderni» (o «postmoderni»)! Ma in
tutte le epoche ogni uomo si è sentito moderno, secondo la bella
frase di Walter Benjamin (e immaginiamo
con che disdegno ci
guarderanno i posteri). In questa nostra prospettiva dall’alto in
basso, l’alterigia c’impedisce di riconoscere che tante nostre
accanite discussioni replicano credenze antiche, addirittura
primordiali, che pensavamo ormai sepolte come fossili sotto
innumerevoli strati geologici di «civiltà».
Una di tali credenze
riguarda quello che potremmo chiamare l’«animismo cellulare».
Questa credenza ha un significato addirittura letterale quando
trapela dal dibattito sulle cellule staminali, dove persino alla
singola cellula è attribuita un’anima. Ma laici incalliti
potrebbero pensare che si tratta di un residuo di superstizione, come
il sangue di San Gennaro.
Cugini, nipoti, ex
mariti
Più stupefacente è che
lo stesso schema concettuale affiori in un best-seller internazionale
scritto da una laureata in biologia, divulgatrice scientifica del
“New York Times”, un saggio scelto come «miglior libro del 2010»
da più di 60 media, subito tradotto in 25 lingue, tra cui l’italiano
(è già uscito presso Adelphi).
Sull’oggetto del saggio
«Alias» ha già pubblicato il 24 settembre uno splendido dossier di
Alessandro Delfanti che in quel contesto ha usato il libro stesso
solo come fonte, senza discuterne né l’impostazione né la
filosofia. Sto parlando delle cellule cosiddette ‘He La’ e del
libro La vita immortale di Henrietta Lacks di Rebecca Skloot.
Il libro racconta la
storia delle cellule tumorali (di un tumore all’utero) di una
signora chiamata Henrietta Lacks: nel 1951 queste cellule furono le
prime a essere riprodotte ad libitum in una coltura di laboratorio
(questo lignaggio cellulare è chiamato «He La» e sotto questo nome
è noto ai ricercatori biologici e medici di tutto il mondo) e quindi
a essere cedute – o vendute – e spedite ai laboratori di tutta la
terra.
Il libro di Rebecca
Skloot racconta con molti dettagli non solo le peripezie
tecnico-commerciali e scientifiche di queste cellule e delle loro
innumerevoli discendenti, ma anche la vita, la morte, gli amori, le
manie, le depressioni, le repressioni, le gelosie, le superstizioni
non solo di Henrietta Lacks, ma anche dei suoi parenti, nonno paterno
bianco, mamma e papà, sorella, primo marito, cugino (e secondo
marito), cinque figli, svariati cugini, nipoti, matrigna dei suoi
figli rimasti orfani, marito divorziato di sua figlia, e molteplici
amici e conoscenti. Il libro molto si commuove sul fatto che, benché
il giro di affari intorno alle cellule He La sia assai consistente, i
consanguinei di Henrietta non abbiano mai visto un centesimo. Ancor
più il libro – che più politicamente corretto non si può – si
commuove perché cellule tratte da una persona nera siano servite
alla ricerca che tante vite bianche ha salvato.
Il tono è già dato dal
titolo. Presupposto che queste cellule tumorali hanno il doppio dei
cromosomi di qualunque cellula umana e quindi difficilmente possono
essere catalogate come «umane», in che senso le He La costituiscono
«Henrietta» in tutta la sua complessità, tanto che il loro
riprodursi si traduce nella sua «vita immortale»? Supponiamo che le
cellule di una radice dei peli della mia barba
siano riproducibili in
vitro per millenni. Può l’immortalità della mia radice pilifera
farmi parlare di una mia «vita immortale»? Quest’idea di
«immortalità» ricorda la visione di quei popoli che mangiano gli
organi dei defunti per appropriarsi del loro valore che si
trasmetterebbe attraverso l’ingestione di un pezzetto della loro
carne, un po’ di coratella. Se alla base del libro non ci fosse
quest’assunzione di «animismo cellulare» – cioè l’idea che
l’immortalità delle cellule He La è di fatto una forma di
immortalità della signora Henrietta Lacks – raccontare le storie,
e le fisime, della sua famiglia allargata sarebbe del tutto non
pertinente. Sarebbe come raccontare le peripezie sentimentali del
portiere di casa Einstein per spiegare alcune caratteristiche della
teoria della relatività. A lunghezza di pagine, i parenti della
povera Henrietta continuano a immaginare «Henrietta» sottoposta a
esperimenti di laboratorio, ne soffrono, ci si arrovellano. Viene il
dubbio che a instilllare nei suoi personaggi queste ansie sia
l’autrice del libro.
Antirazzismo
sospetto
Questa visione della
cellula è conforme alla concezione maschilista del gene che la
grande filosofa della scienza Evelyn Fox Keller accomuna
all’homunculus di Lacan, al «piccolo uomo dentro l’uomo»,
al frammento infinitesimale che riproduce (e già contiene in
potenza) il tutto. Certo che se questa concezione implicasse anche
solo una briciola di verità, sarebbe una visione orripilante quella
di miliardi di esemplari di te stesso/a sottoposti a tutti i tipi
possibili di manipolazioni in migliaia di laboratori diversi (al
momento in cui il libro è stato scritto, erano usciti più di 60.000
articoli scientifici basati su ricerche condotte su cellule He La).
Ma appunto, che senso ha se non in un contesto animistico dove il
culto degli antenati è sostituito dal culto delle cellule antenate
(per di più tumorali)?
Questo animismo è
interessante perché può essere coniugato insieme al più rigoroso
scientismo, senza che l’uno arrechi disturbo all’altro. Infatti
Rebecca Skloot si guarda bene dal formulare apertamente l’animismo
cellulare, ma senza questa implicita assunzione il suo libro non
avrebbe né capo né coda. Senza di essa, perché mai dovrebbe
importarci qualcosa della razza di Henrietta o della razza dei malati
che hanno tratto sollievo e vantaggio dalle ricerche sulle
riproduzioni delle sue cellule tumorali? L’immortale vita di
Henrietta Lacks trasuda di tanto nobile antirazzismo da farti
sospettare che l’autrice un po’ razzista lo sia, se attribuisce
alla razza una tale rilevanza ontologica. Francamente, cosa
cambierebbe nella ricerca medica se invece cellule asportate da una
cinese o da una caucasica fossero servite a guarire pazienti neri?
Vi è poi un secondo
problema, oltre a quello dell’«animismo cellulare». Ed è il
«capitalismo genetico». È vero che diciamo «il mio corpo», come
diciamo che «il piede mi appartiene». Ma questo «appartenere» non
significa «essere proprietà di», significa «essere parte di». In
logica matematica questo legame è designato del simbolo di
appartenenza di un elemento all’insieme che lo contiene e che è
formato proprio dagli elementi che gli appartengono. Per esempio:
ogni italiano appartiene al popolo italiano, nel senso che ne fa
parte, e che a sua volta il popolo italiano è costituito dagli umani
che appartengono a quest’insieme, che per questa ragione sono detti
«italiani». Ma ciò non vuol dire che un italiano è proprietà del
popolo italiano, che potrebbe quindi venderlo o comprarlo: certo, è
vero che oggi alcuni poveracci sono spinti a vendere un proprio rene
od occhio per poter sopravvivere, ma è altrettanto aberrante quanto
i monarchi africani che «vendevano» i propri sudditi ai negrieri
bianchi.
Avere e possedere
È vero che quando un
ragazzo muore per esempio in moto, ci vuole il permesso dei
famigliari per asportargli degli organi. Ma il permesso è necessario
per ragioni di ordine etico e religioso, non perché i suddetti
parenti possono mettersi a vendere gli organi o bandire un’asta sul
fegato, sul cuore e sui reni! Se questo è vero a livello di organi,
immaginiamo a quello cellulare. Perciò una cellula «apparteneva» a
Henrietta Lacks nel senso che «faceva parte» di essa e che
Henrietta era l’insieme costituito da tutte le sue cellule;ma
questo non implica che fosse una proprietà commerciale – e quindi
vendibile – della famiglia Lacks. Dire che i medici che hanno
asportato e riprodotto in coltura un frammento di tessuto da una
biopsia effettuata su una paziente afflitta da tumore terminale,
hanno «defraudato» i figli e i nipoti, o hanno «sfruttato»
Henrietta, anzi che i soliti bianchi hanno «sfruttato» la donna
nera, è un ragionamento del tutto subalterno alla mercantilizzazione
dell’universo e di ogni relazione umana e biologica. Discutere di
questo problema – seppur per prospettare una soluzione diversa –
significa sussumere tutte le possibili diverse relazioni di
appartenenza all’unica forma di relazione proprietaria. Ma
«appartenere», «essere parte di» possono avere, e per fortuna
hanno, significati molto diversi non riducibili allo scambio di
mercato e al rapporto proprietario.
Proprio come il verbo
«avere» (e persino il verbo «possedere») non significa solo
«essere proprietario»: per esempio, «avere grande intelligenza» o
«possedere una sensibilità delicata» non significa essere
proprietario di queste due doti, tantomeno di poterle smerciare. Solo
una concezione paranoica della realtà, dell’universo come mercato,
può farci intenerire (come succede a Rebecca Skloot) perché il
terzo cugino o il bisnipote di Henrietta non percepiscono le
royalties sulle repliche delle sue cellule tumorali (che per
altro, dopo tanti passaggi, hanno subito tante di quelle mutazioni
che sarebbe difficile ricollegarle con l’«originale»). Tanto è
vero che perfino una legislazione dei brevetti e della proprietà
integralista del mercato come quella vigente, riconosce che le
cellule asportate non sono proprietà dell’essere umano da cui sono
tratte. Anche qui: Rebecca Skloot si guarda bene dall’avallare il
«capitalismo genetico», ma tutta la sua commozione sulla famiglia
Lacks che non ha profittato del commercio di He La non ha senso
alcuno se non proprio in una prospettiva «proprietaria» delle
cellule.
Un coro di osanna
Mala faccenda più
curiosa è non l’animismo cellulare, né il razzismo di rimbalzo
all’antirazzismo, e neanche il capitalismo cellulare. No, è che
nelle centinaia di recensioni che osannano il libro, nessuno abbia
notato o messo in evidenza questi problemi. Anzi tutti si
sgiuggiolano sui problemi «etici e razziali nella ricerca medica»
che l’autrice esamina. Forse la recensione più disincantata è la
breve segnalazione del «New Yorker»: «Questo resoconto
straordinario ci mostra che professionisti del miracolo, credenti e
truffatori popolano non solo le chiese ma anche gli ospedali, e che
anche una scrittrice scientifica può trovarsi a recitare una parte
centrale nella mitologia di qualcun altro».
“il manifesto”, 5
novembre 2011
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