Il testo che segue è un
brano dal volume Papa Francesco tra religione e politica (Ponte
alle Grazie, 2013), diffuso come anteprima dall'autore sul proprio
sito. (S.L.L.)
E’ sin troppo ovvio che
l’America Latina godrà di particolari attenzioni di questo
Pontefice e non solo per la sua provenienza geografica, ma anche per
la particolare situazione della Chiesa in quel continente: come
abbiamo accennato, il “forziere” della cattolicità è da tempo
insidiato dalle sette evangeliche.
C’è un singolare
doppio movimento da nord a sud e da sud a nord: da nord calano i
missionari evangelici, molto ben forniti di dollari, che puntano a
soppiantare la secolare egemonia cattolica, ma da sud salgono gli
immigrati latinos, che parlano spagnolo e sono cattolici.
Nel sud America si conta
che gli evangelici abbiano strappato ai cattolici circa il 20% dei
fedeli, circa l’1% all’anno, ed la totalitaria adesione alla
Chiesa cattolica non è più tale. Nel nord i latinos sono da
tempo una minoranza tutt’altro che trascurabile e negli stati a
ridosso del confine messicano ci sono già segnali stradali
trilingui: English, Spanish e Spenglish che ormai è più di una
semplice macedonia linguistica. E con la lingua di Cervantes sale
anche la cattolicità: la Chiesa in Nord America riceve forti flussi
corroboranti dal sud.
Insomma, degli Usa meno
Wasp e un Sud America meno cattolico che iniziano a somigliarsi. Solo
quindici anni fa, Samuel Huntington vaneggiava di uno specifico
modello di civiltà latino americano distinto da quello europeo (dove
ci sono nazioni che parlano le stesse lingue e professano la stessa
religione) e da quello americano, a sostegno della sua battaglia
contro l’ingresso dei chicanos negli Usa: roba dimenticata.
Le due Americhe iniziano
a convergere ed il Conclave ne è stato un segnale importante e poco
capito. Sino a tempi recentissimi, la diffidenza regnava sovrana fra
gli episcopati delle due metà d’America e c’era una preclusione
reciproca: i nord americani erano disposti ad accettare tutto meno
che un papa sudamericano e, vice versa i sud americani nei confronti
di un papa yankee. Poi, nel 1997, Woitjla volle che fosse celebrata
un’assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per l’America ed
iniziò lentamente quel processo di convergenza che è sfociato
nell’attuale Conclave, in cui la maggior parte dei cardinali nord e
sud americani si sono mossi come gruppo compatto (ricordiamo che i
nord americani sono stati determinanti nell’ascesa di Bergoglio).
L’unico ad aver
segnalato la cosa è stato Ignazio Ingrao sul sito di Aspenia; la
questione merita più di una riflessione. Questo profila uno
spostamento del baricentro della Chiesa cattolica verso l’asse
Atlantico, ma questo implica anche una simmetrica caduta di
prospettive sulla crescita in Asia, perché (torniamo ad un punto già
discusso) una Chiesa troppo identificata con l’Occidente non è una
Chiesa che possa validamente aspirare a porsi come centrale nei
processi di globalizzazione.
D’altro canto, ci sono
forti spinte perché il Papa imbocchi questa strada. In primo luogo,
come si è detto, è la stessa provenienza geografica del pontefice a
far sorgere aspettative del genere: il papa sudamericano non può non
avere come prima preoccupazione la difesa della cattolicità del suo
continente, così come Woitjla, l’altro “prete di frontiera”,
ebbe come sua prima missione lo sfondamento ad est. E, dunque, il
problema delle sette evangeliche. A questo proposito notiamo come,
nel discorso ai rappresentanti delle Chiese, delle comunità
ecclesiali e di altre religioni, nella sala Clementina, il nuovo
pontefice abbia avuto parole molto calorose per gli ortodossi,
ribadito l’impegno ecumenico, salutato con una speciale simpatia i
rappresentanti dell’ebraismo e i rappresentanti di tutte le altre
fedi religiose, dedicando uno specifico cenno all’Islam (tornando
al discorso di Woitjla sull’adorazione del medesimo Dio), salutato
persino i non credenti, ma non abbia fatto nessun cenno alle chiese
protestanti. Solo una occasionale dimenticanza?
Comunque sia, il problema
della penetrazione delle sette protestanti in America Latina è
presente con tutta evidenza nell’agenda del Pontefice, ma la sua
soluzione sta più a Nord che a Sud: la loro forte presa, più che
una qualche particolare ondata spirituale, è da mettere in relazione
al grande dispiegamento di mezzi a disposizione dei predicatori
evangelici che attirano i fedeli con mense, ospedali, scuole ecc.
Tutte cose fatte anche dalla Chiesa Cattolica in passato, ma con ben
altri mezzi economici. E questo è parte di una vera e propria
offensiva contro la “superstizione papista” che ha trovato grande
sviluppo quando occorreva contrastare la Teologia della Liberazione
vista come strumento di penetrazione comunista. Dunque, occorrerà
discuterne ma ad una latitudine diversa da quella in cui il fenomeno
si manifesta.
E questo avviene in un
momento politico particolare, nel quale l’amministrazione americana
ha molte ragioni per riconsiderare il suo tradizionale atteggiamento
nei confronti del sud del continente che oggi non è più l’insieme
di paesi sottosviluppati, poveri o poverissimi, che era ancora negli
anni settanta. Oggi il continente ospita una potenza come il Brasile
e paesi emergenti come il Messico, il Venezuela o l’Argentina e,
per certi versi, anche la Bolivia. Il Brasile, poi, è la prima
lettera dello sgraditissimo acronimo Bric. Infine, troppi fronti sono
aperti per una potenza americana che è in crisi finanziaria e non
più in grado di reggere il volume di spese militari erogato sinora.
Dunque, un’integrazione delle due metà d’America sarebbe, dal
punto di vista di Washington, un processo auspicabilissimo, magari
attraverso una speciale partnership fra Nafta e Mercosur, una sorta
di serpente monetario, una riscoperta potenziata dell’Organizzazione
degli Stati Americani; magari attraverso un ruolo di mediazione del
Messico, forse persino spingendosi a concedere una liberalizzazione
agli ingressi negli Usa. Un ruolo molto importante potrebbe svolgerlo
proprio la Chiesa cattolica. Il maggiore ostacolo attuale a questo
processo para-federativo fra le due metà d’America è
probabilmente di ordine politico: i governi di Argentina, Bolivia e
Venezuela (per non nominare Cuba) sono in mano a forze politiche
dichiaratamente anti yankee ed anche il Brasile e il Perù hanno
governi che non nutrono alcuna particolare simpatia per gli Usa. Sono
tutti governi di tipo nazionalista a prevalente coloritura di
sinistra o populista.
Si comprende facilmente
come gli Usa possano accarezzare il sogno di un nuovo “prete di
frontiera” che rappresenti per la Rousseff, la Kirchner, Morales, i
chavisti ecc. quello Woitjla fu per i regimi del “socialismo
reale”. Anche perché Bergoglio è un personaggio parimenti
carismatico e dotato di una forte credibilità popolare che,
peraltro, si è già messo alla testa dell’opposizione al governo
della Kirchner, anche se su una questione specifica come i matrimoni
gay.
D’altro canto, agli Usa
non mancano né messaggeri (come l’autorevole membro dei Cavalieri
di Colombo che siede nel consiglio di soprintendenza dello Ior) né
efficaci strumenti di pressione sul Vaticano (ricordiamo le campagne
mediatiche come il Codice da Vinci, la questione, appunto, dei
finanziamenti alle sette evangeliche) ma soprattutto la spinosa
questione dei preti pedofili, sin qui affrontata dalla Chiesa
americana pagando pur di evitare processi imbarazzanti ma, come
ricorda Francesco Sisci “Se si tolgono i limiti temporali per le
accuse di molestie, presunti molestati di 20, 30, 40 anni fa
potrebbero citare tutte le diocesi americane mandando al fallimento
tutto il cattolicesimo in Usa. I cattolici americani potrebbero
restare senza nemmeno le chiese in cui pregare, e senza un dollaro da
versare a Roma, portando quindi in pratica alla bancarotta la Chiesa
cattolica globale.”
Peraltro, il cardinal
Bergoglio non ha mai espresso simpatia per questi governi, anzi.. per
cui non dovrebbe costargli molto aderire all’invito da Washington.
Ma, ci risiamo, Francesco I non è il cardinal Bergoglio. Nel “grande
disegno woitjliano” di cui Francesco I si propone continuatore, non
c’è spazio per una Chiesa così sbilanciata ad Occidente, per cui,
se per alcuni tratti la sua strada può effettivamente coincidere con
quella vagheggiata dagli Usa, per altri aspetti questa coincidenza
non è auspicabile.
E, tanto per rendere lo
cose ancor meno semplici, occorre anche fare i conti con un altro
aspetto: la divaricazione fra laicato e gerarchia nelle chiese
americane. Nel sud è appena il caso di ricordare l’adesione di
tanti cattolici ai partiti “populisti” di Argentina, Bolivia,
Brasile, Venezuela ecc. ma ancora più marcata è la divaricazione
nel nord dove, tradizionalmente i cattolici (in massima parte di
origini italiane o irlandesi) votano per i democratici (e la cose si
è ulteriormente accentuata con l’arrivo dei latinos che al 90%
votano per il “nero” Obama) mentre la gerarchia propende per i
repubblicani. Come Dolan che “tifava” apertamente per il mormone
Romney. Altro rebus da risolvere.
Lo scenario americano si
presenta per il nuovo Papa come un sistema di equazioni a più
incognite da risolvere, quasi una quadratura del cerchio. Però i
gesuiti hanno avuto nella loro storia eccellenti matematici come
Orazio Grassi o Matteo Ricci…
da AldoGiannuli.it - marzo 2014
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