9.4.14

Aspettando la ghigliottina (Lucio Villari)

Maria Antonietta condotta al patibolo
in uno schizzo di Jacques-Louis David
"C'è nella rivoluzione francese qualcosa di satanico che la distingue da tutto ciò che si è visto finora, e forse da tutto ciò che si vedrà in futuro". E' questa l'opinione espressa nel 1797, nell'opuscolo Considerazioni sulla Francia, da uno dei maggiori esponenti della cultura controrivoluzionaria europea, Joseph de Maistre. Al suo nome è annodata una ricca tradizione di pensiero "reazionario" che ha avuto in Europa una funzione politica e culturale non secondaria, e che non va confusa con le forme codine e poliziesche della Restaurazione. Per questo pensiero la rivoluzione francese rappresentava una svolta "eccessiva" della storia, non solo perché la nuova classe che aveva preso il potere, la borghesia, aveva decapitato il re e tutta la piramide del sistema politico e sociale feudale, ma perché quella rivoluzione aveva decapitato Dio e ribaltato completamente (così, almeno, sembrava) il ruolo fino allora svolto dalla Chiesa e dalla religione. Ma, a parte la questione religiosa che stava tanto a cuore a de Maistre, ciò che colpiva questi scrittori antirivoluzionari era il carattere infernale di una macchina che in pochi anni aveva abbattuto la millenaria società feudale finendo poi col divorare gran parte dei suoi stessi distruttori, mescolando così, specie nei mesi del Terrore (tra il 1793 e il 1794), i colpevoli di reati controrivoluzionari con molti tra coloro che la rivoluzione l' avevano voluta. De Maistre pensava in particolare a quegli scrittori e scienziati che avevano a suo parere tradito la cultura e la scienza accettando il principio della violenza, per poi restarne vittime. "Umanamente, non si potrebbe mai rimpiangerli abbastanza; ma la giustizia divina non porta il minimo rispetto per i geometri o per i fisici".
Questo è solo un campione del crudo linguaggio controrivoluzionario. Ma il giudizio di de Maistre sulla distruzione di tutti i "valori" umani provocato dalla rivoluzione e quindi dall'avvento della borghesia non era poi, paradossalmente, tanto diverso da quello che ne darà il Manifesto del partito comunista, cinquant' anni più tardi. Marx e Engels però, vedevano più in profondità le ragioni sociali e le conseguenze di quella svolta "satanica" della storia: "Dove è giunta al potere, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali e idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l' uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato "pagamento in contanti"". Marx e Engels avevano dunque la stessa diffidenza di de Maistre nei confronti degli ideali borghesi realizzati con la rivoluzione di Francia; almeno per quanto riguarda quel carattere di pura violenza che la rivoluzione aveva prodotto con la giustificazione che questa violenza era un vettore di idee che dovevano cambiare il mondo. Per questo Marx non fu affatto d'accordo con Heinrich Heine che vedeva in Robespierre nient'altro che "la mano insanguinata" che aveva estratto dal grembo del tempo un corpo la cui anima era stata creata da Rousseau.
Certo, si fa fatica ad ammettere che tante migliaia di condanne a morte fossero veramente necessarie al consolidamento degli istituti rivoluzionari in Francia. Ma è possibile un giudizio storico equanime su quanto è avvenuto in quegli anni roventi? Mi ponevo questa domanda sfogliando appunto il volume di Olivier Blanc che raccoglie centocinquanta tra lettere e biglietti d'addio di condannati al patibolo. Si tratta di documenti custoditi negli Archivi nazionali di Parigi, in parte noti (ad esempio le bellissime lettere della regina Maria Antonietta, giustiziata nell'ottobre 1793, e di Madame Roland) ma molti altri rimasti sepolti tra le carte di Fouquier-Tinville, l'accusatore pubblico del Tribunale rivoluzionario che poi, con la caduta di Robespierre, seguirà il tragico destino di coloro che egli aveva contribuito a far condannare.
Bisogna però dire che fino all'estate del 1793 i tribunali che giudicavano i delitti contro la sicurezza dello Stato (la Francia era allora in guerra contro una coalizione di eserciti stranieri) e le attività controrivoluzionarie avevano agito con una certa moderazione. Solo dopo il tradimento del generale Dumouriez (aprile 1793) ed alcuni tentativi di insurrezione fomentati dagli aristocratici, il clima interno della Francia si era avvelenato. Robespierre non era un sanguinario; ma certo, man mano che il governo rivoluzionario giacobino si spostava "a sinistra", la resistenza ad esso si estendeva a tutti i livelli della vita pubblica del paese; di un paese, ripetiamo, in piena guerra di sopravvivenza. Ed è giusto anche ricordare che questa resistenza si organizzava contro il regime non soltanto mediante insurrezioni, complotti e spionaggi, ma con l'arma più sottile e pericolosa del "delitto economico", cioè con gli accaparramenti di prodotti agricoli, con l' aumento arbitrario dei prezzi da parte di produttori e commercianti, con la frode sulle derrate e sulle forniture militari e infine (e questo fu il crimine che fece cadere molte teste sui patiboli) con la stampa e la circolazione di monete false atte a provocare l' inflazione. Di qui nascono i decreti del 17 settembre (legge sui "sospetti") e del 20 settembre 1793 sul maximum generale, cioè sul controllo e calmiere politico dei prezzi. Insieme alla emanazione di quest'ultimo decreto la Convenzione decise di equiparare i fornitori infedeli dell'esercito ai cospiratori e di farli giudicare, di conseguenza, non come criminali comuni ma come criminali politici. Se a questo si aggiunge lo stato di guerra civile esistente nella Vandea e nella regione dell'Ovest della Francia nonchè nelle immediate retrovie del fronte, si può capire in quale situazione psicologica si trovassero ad operare i giudici dei tribunali rivoluzionari.

Scorrendo le lettere di questo volume si comprende facilmente che molti condannati (dalla stessa Maria Antonietta a Lavoisier) erano solo colpevoli di appartenere a un mondo che aveva avuto anche una sua ragione e che stava ora scomparendo, e non certo di essersi macchiati di qualche delitto; erano cioè innocenti. Ma, come scrive Olivier Blanc, non erano innocenti i banchieri e gli speculatori o gli "emigrati" che complottavano con gli eserciti stranieri per schiacciare la Francia. "La speculazione assestò terribili colpi alla giovane Repubblica. Veniva esercitata a tutti i livelli: dal semplice cambio di un assegnato da cento lire al cinquanta per cento del suo valore (...) fin nei posti più alti dell' amministrazione, in particolare nei contratti stipulati fra l' amministrazione e le compagnie di trasporti militari". Mediatori occulti di queste operazioni erano spesso insospettabili professionisti (notai, avvocati, finanzieri) che avevano obblighi di fedeltà alla Repubblica e la cui punizione doveva quindi essere, secondo i giacobini, un esempio di "giustizia rivoluzionaria". Robespierre fu in prima linea in questa lotta per la sopravvivenza della Francia, ma non si deve attribuire a lui la totale responsabilità delle condanne a morte. Il suo potere effettivo durò infatti meno di un anno e per molti mesi egli fu lontano dall'esercizio del governo a causa di una forte depressione fisica e nervosa. Gli ingranaggi del Terrore finirono poi per isolarlo politicamente provocandone la caduta il 28 luglio 1794. Tentò di suicidarsi ma non vi riuscì e fu condotto alla ghigliottina. Tuttavia nell'ultimo grande discorso da lui pronunciato il giorno prima dell'arresto lanciò una sfida storica che non può essere dimenticata: "Io sono nato per combattere il delitto, non per governarlo. Non è ancora giunto il tempo in cui gli uomini onesti possano servire la patria impunemente; i difensori della libertà saranno sempre proscritti finché l'orda dei furfanti continuerà a dominare".

"la Repubblica", 15 ottobre 1985

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