Maria Antonietta condotta al patibolo in uno schizzo di Jacques-Louis David |
"C'è nella
rivoluzione francese qualcosa di satanico che la distingue da tutto
ciò che si è visto finora, e forse da tutto ciò che si vedrà in
futuro". E' questa l'opinione espressa nel 1797, nell'opuscolo
Considerazioni sulla Francia, da uno dei maggiori esponenti
della cultura controrivoluzionaria europea, Joseph de Maistre. Al suo
nome è annodata una ricca tradizione di pensiero "reazionario"
che ha avuto in Europa una funzione politica e culturale non
secondaria, e che non va confusa con le forme codine e poliziesche
della Restaurazione. Per questo pensiero la rivoluzione francese
rappresentava una svolta "eccessiva" della storia, non solo
perché la nuova classe che aveva preso il potere, la borghesia,
aveva decapitato il re e tutta la piramide del sistema politico e
sociale feudale, ma perché quella rivoluzione aveva decapitato Dio e
ribaltato completamente (così, almeno, sembrava) il ruolo fino
allora svolto dalla Chiesa e dalla religione. Ma, a parte la
questione religiosa che stava tanto a cuore a de Maistre, ciò che
colpiva questi scrittori antirivoluzionari era il carattere infernale
di una macchina che in pochi anni aveva abbattuto la millenaria
società feudale finendo poi col divorare gran parte dei suoi stessi
distruttori, mescolando così, specie nei mesi del Terrore (tra il
1793 e il 1794), i colpevoli di reati controrivoluzionari con molti
tra coloro che la rivoluzione l' avevano voluta. De Maistre pensava
in particolare a quegli scrittori e scienziati che avevano a suo
parere tradito la cultura e la scienza accettando il principio della
violenza, per poi restarne vittime. "Umanamente, non si potrebbe
mai rimpiangerli abbastanza; ma la giustizia divina non porta il
minimo rispetto per i geometri o per i fisici".
Questo è solo un
campione del crudo linguaggio controrivoluzionario. Ma il giudizio di
de Maistre sulla distruzione di tutti i "valori" umani
provocato dalla rivoluzione e quindi dall'avvento della borghesia non
era poi, paradossalmente, tanto diverso da quello che ne darà il
Manifesto del partito comunista, cinquant' anni più tardi.
Marx e Engels però, vedevano più in profondità le ragioni sociali
e le conseguenze di quella svolta "satanica" della storia:
"Dove è giunta al potere, la borghesia ha distrutto tutte le
condizioni di vita feudali, patriarcali e idilliache. Essa ha
lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale
avvincevano l' uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra
uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato
"pagamento in contanti"". Marx e Engels avevano dunque
la stessa diffidenza di de Maistre nei confronti degli ideali
borghesi realizzati con la rivoluzione di Francia; almeno per quanto
riguarda quel carattere di pura violenza che la rivoluzione aveva
prodotto con la giustificazione che questa violenza era un vettore di
idee che dovevano cambiare il mondo. Per questo Marx non fu affatto
d'accordo con Heinrich Heine che vedeva in Robespierre nient'altro
che "la mano insanguinata" che aveva estratto dal grembo
del tempo un corpo la cui anima era stata creata da Rousseau.
Certo, si fa fatica ad
ammettere che tante migliaia di condanne a morte fossero veramente
necessarie al consolidamento degli istituti rivoluzionari in Francia.
Ma è possibile un giudizio storico equanime su quanto è avvenuto in
quegli anni roventi? Mi ponevo questa domanda sfogliando appunto il
volume di Olivier Blanc che raccoglie centocinquanta tra lettere e
biglietti d'addio di condannati al patibolo. Si tratta di documenti
custoditi negli Archivi nazionali di Parigi, in parte noti (ad
esempio le bellissime lettere della regina Maria Antonietta,
giustiziata nell'ottobre 1793, e di Madame Roland) ma molti altri
rimasti sepolti tra le carte di Fouquier-Tinville, l'accusatore
pubblico del Tribunale rivoluzionario che poi, con la caduta di
Robespierre, seguirà il tragico destino di coloro che egli aveva
contribuito a far condannare.
Bisogna però dire che
fino all'estate del 1793 i tribunali che giudicavano i delitti contro
la sicurezza dello Stato (la Francia era allora in guerra contro una
coalizione di eserciti stranieri) e le attività controrivoluzionarie
avevano agito con una certa moderazione. Solo dopo il tradimento del
generale Dumouriez (aprile 1793) ed alcuni tentativi di insurrezione
fomentati dagli aristocratici, il clima interno della Francia si era
avvelenato. Robespierre non era un sanguinario; ma certo, man mano
che il governo rivoluzionario giacobino si spostava "a
sinistra", la resistenza ad esso si estendeva a tutti i livelli
della vita pubblica del paese; di un paese, ripetiamo, in piena
guerra di sopravvivenza. Ed è giusto anche ricordare che questa
resistenza si organizzava contro il regime non soltanto mediante
insurrezioni, complotti e spionaggi, ma con l'arma più sottile e
pericolosa del "delitto economico", cioè con gli
accaparramenti di prodotti agricoli, con l' aumento arbitrario dei
prezzi da parte di produttori e commercianti, con la frode sulle
derrate e sulle forniture militari e infine (e questo fu il crimine
che fece cadere molte teste sui patiboli) con la stampa e la
circolazione di monete false atte a provocare l' inflazione. Di qui
nascono i decreti del 17 settembre (legge sui "sospetti") e
del 20 settembre 1793 sul maximum generale, cioè sul
controllo e calmiere politico dei prezzi. Insieme alla emanazione di
quest'ultimo decreto la Convenzione decise di equiparare i fornitori
infedeli dell'esercito ai cospiratori e di farli giudicare, di
conseguenza, non come criminali comuni ma come criminali politici. Se
a questo si aggiunge lo stato di guerra civile esistente nella Vandea
e nella regione dell'Ovest della Francia nonchè nelle immediate
retrovie del fronte, si può capire in quale situazione psicologica
si trovassero ad operare i giudici dei tribunali rivoluzionari.
Scorrendo le lettere di
questo volume si comprende facilmente che molti condannati (dalla
stessa Maria Antonietta a Lavoisier) erano solo colpevoli di
appartenere a un mondo che aveva avuto anche una sua ragione e che
stava ora scomparendo, e non certo di essersi macchiati di qualche
delitto; erano cioè innocenti. Ma, come scrive Olivier Blanc, non
erano innocenti i banchieri e gli speculatori o gli "emigrati"
che complottavano con gli eserciti stranieri per schiacciare la
Francia. "La speculazione assestò terribili colpi alla giovane
Repubblica. Veniva esercitata a tutti i livelli: dal semplice cambio
di un assegnato da cento lire al cinquanta per cento del suo valore
(...) fin nei posti più alti dell' amministrazione, in particolare
nei contratti stipulati fra l' amministrazione e le compagnie di
trasporti militari". Mediatori occulti di queste operazioni
erano spesso insospettabili professionisti (notai, avvocati,
finanzieri) che avevano obblighi di fedeltà alla Repubblica e la cui
punizione doveva quindi essere, secondo i giacobini, un esempio di
"giustizia rivoluzionaria". Robespierre fu in prima linea
in questa lotta per la sopravvivenza della Francia, ma non si deve
attribuire a lui la totale responsabilità delle condanne a morte. Il
suo potere effettivo durò infatti meno di un anno e per molti mesi
egli fu lontano dall'esercizio del governo a causa di una forte
depressione fisica e nervosa. Gli ingranaggi del Terrore finirono poi
per isolarlo politicamente provocandone la caduta il 28 luglio 1794.
Tentò di suicidarsi ma non vi riuscì e fu condotto alla
ghigliottina. Tuttavia nell'ultimo grande discorso da lui pronunciato
il giorno prima dell'arresto lanciò una sfida storica che non può
essere dimenticata: "Io sono nato per combattere il delitto, non
per governarlo. Non è ancora giunto il tempo in cui gli uomini
onesti possano servire la patria impunemente; i difensori della
libertà saranno sempre proscritti finché l'orda dei furfanti
continuerà a dominare".
"la Repubblica", 15 ottobre 1985
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