In uno degli esperimenti
letterari mai portati a compimento, un lungo racconto o breve romanzo
dal titolo Poesia, segnato nell'invenzione da un realismo improbabile e sghembo e nello stile dall'enumerazione
caotica tardomedievale, c'è una storia d'amore tra il
protagonista (tal Teodoro) e una geisha. In
quel frangente mi cimentavo con pruriti e fantasticherie di sesso,
sebbene l'erotismo propriamente detto sia concentrato e sterilizzato
in una specie di digressione barzellettiera, una storia nella storia
che ha come narratore un napoletano chiamato Vesuvio, o anche Pizza.
Ho
sempre pensato che l'esperimento valesse assai poco, ma nutrivo per quelle
pagine un affetto paterno. Riletto quel testo oggi – l'ho scritto vent'anni
fa e sono almeno dieci che non ci butto un'occhiata - lo scopro
datatissimo, al limite dell'incomprensibilità per i riferimenti
e le allusioni, ma mi piace più del solito, forse per effetto della nostalgia. Ne propongo alcune
pagine nella speranza che qualcuno legga e commenti “bravo!”
oppure “che cazzata!” o le due cose insieme, il che mi darebbe
un'intensa ma effimera felicità. Ma vanno bene anche commenti meno amorosi: uno spruzzo d'acqua diaccia può anche giovare. (S.L.L.)
5. Per fatal combinazion
Tali e consimili inconcludenti
conversari si tenevano a casa dell’amico nel luglio del 1991, dopo
un pranzo fin troppo abbondante ma sobriamente annaffiato, in un
ampio salone arredato con ottocentesche credenze adattate a libreria
dalle scansie ricolme di volumi di storia e diritto, sulle cui pareti
spiccavano planisferi del Cinque o del Seicento, originali o in
curata ristampa anastatica, incorniciati a giorno, intorno ad una
rustica tavola da pranzo recuperata in una masseria e trasformata in
scrivania, ad un angolo della quale, su una chiara tovaglietta di
lino semplicemente ricamata a punto erba, erano poggiati una caraffa
di cristallo semipiena di caffè amaro allungato, freddo ma non
ghiacciato, e due bicchierini da un sedicesimo semivuoti di vetro
soffiato, in una cittadina toscana con tante belle cose da vedere, ma
fuori dai circuiti del turismo di massa.
Nello stesso pomeriggio vi giunse una
geisha, in taxi. Veniva da Akasaka, ma si era formata a Kyoto.
6. Per la via
Aveva una moglie giovane l’amico,
appassionata ammiratrice del marito, ma un po’ stupidamente
femminista. Lei andava a prendere il té e a fare una passeggiata con
una compagnia di coetanee, toccava a lui governare il neonato dalle
quattro alle sette.
Teodoro non ne volle sapere di
assisterlo nelle sue attività da balia: aveva già cresciuto due
figli, si era strarotto di pannolini, poppate, ruttini, rigurgiti e
interminabili ninne nanne, e l’odorino pungente di cacca infantile,
che un tempo lo aveva riempito di tenerezza, ora gli faceva schifo.
Andò nella strada, a quell’ora semideserta, alla ricerca di una
farmacia.
Neanche duecento metri e un taxi giallo
che procedeva in direzione opposta alla sua si accostò al suo stesso
marciapiede e si fermò a dieci metri da lui. Come paralizzato
contemplò una scena stupefacente. L’autista venne ad aprire la
portiera posteriore e ne scese la geisha, sollevando delicatamente
con entrambe le mani un lungo semplice kimono, di finissima seta
color cinabro con ricami floreali in oro e un ampia cintura di raso
azzurro. Il viso, come d’uso quasi completamente imbiancato,
riluceva, forse per la sostanza oleosa e colloidale che fissava
chissà quale fondotinta. Vi spiccava un rosso di zafferano che
sottile allungava le ciglia e sottolineava labbra assai piccole. Il
bello era che, agitando delicatamente un ventaglio di sandalo, ella
avanzava verso di lui nelle pantofoline di stoffa con il passo
clopin-clopant tipico della sua professione e, avanzando, gli
sorrideva.
Come sempre gli accadeva quando doveva
addomesticare l’imprevisto, Teodoro mise in fila velocissimamente
quanto nella memoria, letteraria e non, richiamasse il Giappone:
Luigi Tenco che orribilmente cantava La mia geisha,
Cio-cio-san e le farfalle, samurai, kamikaze, karakiri, judo e
jujitsu, L’impero dei segni di Barthes e L’impero dei
sensi che aveva visto a Parigi, transistor, Honda, Yamaha, Suzuki
e Kavasaki, la modernizzazione conservatrice e lo spirito Toyota, i
ventagli di Govoni, l’Art Nouveau e la Sezession, le file di
velocissimi turisti che attraversavano Firenze tutto fotografando, I
sette samurai e, per associazione, I magnifici sette,
La Chiave e il culo della Sandrelli. Decisamente troppo e troppo
poco. I giapponesi gli erano antipatici. Maoista in gioventù,
continuava a considerarli nemici.
Da ultimo gli tornò in mente il
racconto di un napoletano, probabilmente pallonaro. In un momento di
insolita ricchezza, turista nell’impero del sole, aveva voluto
conoscere una geisha e aveva pagato caro lo sfizio, due milioni
d’anteinflazione per una sera ed una notte in casa di lei.
7. Giallo napoletano
The, sakè, arpeggi, canti, danza,
poesia, conversazione in inglese di economia, filosofia buddista e
taoista, politica, il tutto con una profondità insolita per una
donna. Agli approcci dell’ospite, stuzzicati dai movimenti
aggraziati, corrispondono aggraziate prese di distanza. Solo dopo la
cena afroasiatica, leggera, forse afrodisiaca, verso la mezzanotte lo
conduce nella stanza del piacere e lo accomoda su un morbida stuoia.
C’è accanto un secchiello col ghiaccio. “Arriverà lo champagne”
- pensa il partenopeo. Accoccolata fa seguire carezze, solletichi,
titilli, baci, succhiotti e ciucci dappertutto, su tutti i toni,
dall’impercettibile al feroce, e su tutti i ritmi, dal lentissimo
all’impetuoso. Vesuvio, a suo dire resistentissimo, arriva al punto
di non poterne più. La geisha se ne accorge, afferra due cubetti di
ghiaccio e glieli colloca sotto le palle.
Bloccato! Ecco a che serviva.
Si torna a conversare in inglese. Si
parla del più e del meno, lui non vuole intervenire su questioni che
attengono alla competenza professionale dell’amica. Intanto, non si
sa come richiamata, la servetta sostituisce il secchiello. L’uomo
si preoccupa ed ha le sue buone ragioni. Nuovi giochetti, nuovi
cubetti, nuove conversazioni, nuovi secchielli si susseguono a
rotazione continua, fino alle quattro. Il borbonico è al limite. Ora
la geisha lo cavalca, all’orientale, e ne agevola la penetrazione.
Ma la speranza è ancora disillusa: sul più bello arrivano i
cubetti. Stavolta lui si lagna. “Potevi dirlo prima” dice lei in
inglese.
“Solo all’alba - concludeva Pizza -
sono arrivato alla fine. E lo sfogo aveva le proporzioni della
fontana di Trevi”. Sicuramente esagerava.
9. Seguire gl’impulsi
Mentre Teodoro mentalmente si
riconfortava con queste cazzate, la donna gli giunse caracollando a
portata di mano, accennò un inchino e, con pronunzia correttissima e
insospettata disinvoltura, disse: “Mi perdoni, signore, se non la
chiamo onorevole, ma so che in Italia l’appellativo può suonare
come un insulto. Saprebbe dirmi ove posso trovare la villa
Clitennestri ?”.
Teodoro spiegò balbettante che il
cognome gli era noto, ma che, non essendo del luogo, non sapeva
aiutarla; trovò tuttavia il coraggio di domandare cosa mai andasse a
fare nella dimora del famoso ministro socialista.
La stella d’oriente portò il
ventaglio davanti alla bocca, come per nascondere una risata, e
cominciò: “Glielo dirò molto volentieri, mio buon signore più
curioso che discreto”. Era stata ingaggiata per allietare un
week-end di politici e imprenditori d’assalto anche per la perfetta
conoscenza dell’italiano, con un compenso favoloso e proporzionati
rimborsi-spese. “Noi giapponesi - concluse - abbiamo i liberali,
voi italiani i socialisti”.
“Beh, veramente, noi italiani abbiamo
anche i liberali. E i socialdemocratici, e i democristiani, e altri
ancora” - disse Teodoro. “Però! - pensò - Il napoletano aveva
ragione. Ne capiscono davvero di politica. Come avrà fatto a capire
che non sono socialista?”.
Dopo un nuovo inchino e un tradizionale
sayonara gli volse le spalle. La pelle, nella postura frontale del
tutto celata da abiti e trucchi, era adesso valorizzata dall’ampia
scollatura. Quella nuca, solo in parte coperta da bistri, era più
eccitante del culo della Sandrelli. Teodoro cedette all’impulso.
Chiese, alzando un po’ la voce: “Ha mai visto la fontana di
Trevi?”.
La geisha volse il capo: “Sì,
signore, ed anche il Colosseo e il Cupolone”.
Teodoro corse verso di lei e gridò:
“Ti amo. Parti con me. Vieni a Malindi.”.
Lei rispose serena: “Sì, signore !”.
10. L'amore cieco
Chissà perché la geisha aveva
accettato. Teodoro non era un Adone e non aveva la faccia da ricco.
Ma anche lei lo amava e l’amore è cieco, o piuttosto ha un’altra
vista, capace di penetrare l’opaco e percepire l’altrove, come i
poeti, telescopica e radioscopica, come Nembo Kid.
Malindi aveva detto Teodoro, e non
Budapest o Tegucigalpa, ma per il Corno d’Africa non aveva alcuno
speciale interesse. Forse gli era scappato perché lì viveva, tra il
villeggiante e l’affarista, un antico compagno di dissipazione,
Tigrotto.
Sette giorni a Roma, lo stretto
necessario a svendere per procura un magazzino ereditato in Sicilia,
incassare il malloppo, agganciare Tigrotto acciocché gli procurasse
a Malindi una sistemazione confortevole e non proibitiva.
Hotel Raphael, quello di Craxi, ma
anche di Agostino, un suo paesano che lì faceva il portiere di notte
e otteneva lo sconto del cinquanta per quelli che presentava come
parenti. Camera squallidina, non dico incimiciata, ma con un sentore
sgradevole di disinfettanti e disinfestanti, anche per mascherare
l’olezzo di stantio, non come l’ala craxiana, totalmente
rinnovata e rinfrescata. Unica consolazione le arachidi salate nel
frigobar e la vicinanza con piazza Navona.
Sette giorni d’amore, come in
gioventù, come in un film osé. Così era nei voti. Ma a Kyoto non
lavorano sulla tecnica, curano piuttosto l’adji e le sue
impalpabili malie, e nelle camere d’albergo i giochi d’atmosfera
sono molto pericolosi. Se ne immetti troppa, la pressione cresce a
dismisura e rischi di scoppiare.
Al Raphael, pertanto, si trattenevano
l’indispensabile: scarsi i sonni notturni, ridotte al minimo le
voluttà del sesso, una sveltina postprandiale opportunamente seguita
da una breve pennichella. Piuttosto Ottone sperimentava gioie
ineffabili in certi contatti estemporanei, di quelli ridicoli,
trastulli innocui per bambini scemi, il popi popi alle mammelle, il
ganascino alle guance, il tiraggio delle orecchie, all’in su o
all’in giù. Più volte durante la giornata, di preferenza in
pubblico, sentiva salire prepotente un desiderio di pizzicotto
mordiefuggi, da azzeccare nell’interstizio tra vulva e sfintere, ma
gli abiti orientali che la geisha s’ostinava ad indossare rendevano
pressoché impossibile la manovra.
Passeggiavano.
E l’estate romana, soli, pini,
scalinate, tramonti, venticelli serotini, zefiri sereni e ponentini
complici, pittori di strada, musicanti collettori, norcini,
fruttaroli, negri, negre, palazzi principeschi, parchi, ruderi
imperiali e facciate barocche, gatti randagi, bar e clacson,
componeva un fondale perfetto. Non che si guardassero intorno,
passeggiavano e parlavano, ma in fondo sapevano che Roma era lì,
sfarzosa e miserabile, satolla e allupata, divina ed infetta,
gloriosa e indecente, sfavillante e puzzolente, Roma papalina e pasquinesca, monarchica, aristocratica e repubblicana, Roma imperiale, Roma fragile ed eterna, Roma casta e pervertita, magica,
fratacchiona, Roma. Altro che vacanze, era come marinare la scuola.
Ma ai piaceri della carne non
rinunciavano, andavano per trattorie, al ghetto, a Trastevere, al
Testaccio, abbacchio, coda alla vaccinara, trippa, matriciana e
puttanesca, carciofi alla giudìa.
Non ha occhi l’amore, ma quanto
mangia!
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