Fred Gardaphé ragazzo col padre e la madre a una festa della piccola Italia nel 1963 |
L'articolo che segue,
un'intervista a Fred Gardaphé, uno dei maggiori specialisti di
letteratura siculo-americana, mi ha prima sconcertato, poi forse mi ha aperto gli occhi. Ho maturato la convinzione che sulla mafia e sulle mafie
militari l'occhio dell'osservatore Usa medio sia ancor oggi più tollerante se
non più compiacente che non in Europa. Sospetto che lì la presenza di poteri
illegali nella società sia tuttora giudicata un fatto normale, che può avere perfino risvolti positivi, un elemento d'ordine, un collante. Mi pare insomma che negli Usa la convivenza, a volte armoniosa, a volte conflittuale, delle mafie con altri poteri, da quelli statuali a quelli della grande finanza, sia un fatto assodato e immodificabile. (S.L.L.)
Fred Gardaphé oggi |
Prima orfano di mafia,
poi spicciafaccende di un boss, infine docente universitario. Ora
Fred Gardaphé, 60 anni,èa Palermo dove tiene un ciclo di lezioni
sugli scrittori italoamericani e sui registi che raccontano Cosa
nostra, organizzato dal dipartimento di Scienze umanistiche
dell'Università. Eccola questa umana incarnazione del miracolo
americano dentro l'Hotel de France accanto alla statua di Joe
Petrosino, il poliziotto ucciso dalla Mano nera tra le gigantesche
magnolie di piazza Marina. Giacca bianca, magliettae pantaloni blu,
basco fregiato con un canguro, baffi e pizzetto bianchi, occhiali
rossi e un diamantino nell'orecchio sinistro. Italiano con la tipica
cadenza americana e tante risate.
Professore, gli scrittori
italo americani sono una bella realtà nel panorama culturale
d'oltreoceano. Tra questi, quanto pesano i siciliani?
«Moltissimo. Al punto
che oggi si può parlare di una "Scuola siciliana", che
analizzerò in uno dei miei prossimi libri. La sua particolarità è
che oltre a raccontare i dolorosi o gli esaltanti aspetti dell'epopea
dell'emigrazione fa i conti con la cruda realtà della mafia».
I nomi e le opere?
«Il numero uno per me è
Jerre Mangione, un grande che ha descritto la vita dei siciliani sia
in America che nell'Isola. Negli anni Sessanta, infatti, ha lavorato
con Danilo Dolci a Trappeto e su quell'esperienza ha scritto un
libro. Sulla mafia lui è ambiguo, è affascinato dai valori
originari: rispetto e onore. Monte Allegro è la sua
intrigante biografia a Little Sicily. Al secondo posto metto Ben
Morreale, originario di Racalmuto, il paese di Sciascia, che nei suoi
romanzi chiama Racalmora. Peccato che sia morto prima di completare
il suo romanzo su Lucky Luciano».
Terzo?
«Non ho dubbi, Tony
Ardizzone: il suo Nel giardino di Papa Santuzzu è un
capolavoro. E infine gli altri, a cominciare dal mio amico Nat
Scammacca, sofferente di schizofrenia, che divideva la sua vita tra
Erice e gli Usa. A Chicago Nat, era amatissimo. Poi, Salvatore La
Puma, Kenny Marotta, Antony Valerio, Sandra Mortola Gilbert, leader
femminista, e tanti altri».
Come è strutturato il
corso?
«Il progetto messo a
punto con la docente Marina Cacioppo si propone di esplorare
l'identità etnica nella produzione letteraria e cinematografica
italoamericana dagli anni Trenta a oggi. Cioè, fornire agli studenti
un panorama storico, teorico, letterario e filmico, dell'importante
contributo degli emigranti alla cultura americana».
Di quali film parla agli
studenti?
«Quelli di Coppola,
Scorsesee Cimino, ovviamente: "Il siciliano", il più
brutto di tutti, "Il padrino", "Chicago",
"Goodfellas". Anche io nella mia prima vita sono stato un
bravo ragazzo come quelli nel film di Scorsese. Uno dei tanti
picciotti dell'universo mafioso».
La vogliamo raccontare la
sua infanzia drammatica e la sua gioventù spericolata?
«Cominciamo con
l'uccisione di mio padre, di mio padrino o di mio nonno?».
Faccia lei.
«Mio padre, Fred anche
lui, come mio nonno, me stesso e mio figlio, e mio padrino Luigi
Fusaro, erano due mafiosi di scarso peso collegati con la potente
famiglia Genovese di New York che a Chicago era capeggiata da Tom
Eboli senior. Mio padrino l'hanno fatto sparire nel 1959 perché
aveva rubato in un Golf club protetto e mio padre è stato
accoltellato quattro anni dopo. Non so se per sgarro o altro. Pochi
anni fa ho capito che ad ucciderlo era stato un amico del mio
padrino».
E suo nonno?
«A lui hanno sparato due
neri che erano andati a rubare nel Banco dei pegni che gestiva. Ha
estratto la pistola mai rapinatori sono stati più lesti».
Prima di continuare la
sua storia, chiariamo il rompicapo dei nomi. Tutti vi chiamate Fred,
come vi distinguete?
«Mio nonno è Bell, dal
nome del Banco, mio padre Shadow, ombra, io Little e mio figlio Rico.
L'altra mia figlia solo Marianna».
E dopo lo sterminio della
sua famiglia?
«Alla morte del nonno
nel 1966 avevo 14 anni, e sono stato costretto a lavorare nel Banco,
affiancato da un poliziotto, perché doveva restare aperto almeno un
anno per dare la possibilità ai clienti di riscattare gli oggetti
impegnati. Poi mia madre mi ha mandato da Tom Eboli junior, figlio
del boss, che aveva un magazzino di materiali per i ristoranti. Qui
ci vuole una premessa: io ho conosciuto due mafie: una "buona",
solo di business, e un'altra cattiva, estorsioni e omicidi.
Tom Eboli si dedicava
solo agli affari, il fratello Luigi invece era nel filone criminale.
Tom dava la mia paga a mia madre e il fratello mi ha proposto di
lavorare anche per lui, così avrei avuto dei soldi in tasca. Di
giorno ero un bravo impiegatoe la sera un cattivo ragazzo».
Si è macchiato di reati
gravi?
«Non credo. Ero
l'autista, lo spicciafaccende. Li accompagnavo e li andavo a
prendere, quello che facevano nel frattempo non era affare mio. Al
massimo mi sono trovato a bloccare qualcuno mentre gli altri lo
pestavano. Ricordo che una volta il sangue di uno miè schizzato
nella camicia, allora il mio capo mi ha dato venti dollari per
compramene una nuova».
Quanto è durata questa
sua vita quasi criminale?
«Dieci anni, dal 1967 in
poi. Tante volte venivo utilizzato per depistare gli agenti dell'Fbi.
Li portavo in giro per Chicago, loro erano convinti di seguire il mio
boss, che invece era su un'altra auto. Poi quando nel 1972, anno di
uscita del Padrino di Coppola, hanno sparato a Tom Eboli senior, capo
vero; i due fratelli si sono nascosti e per qualche anno io ho fatto
il porta ordini, tenevo i collegamenti tra i capi e i picciotti ».
Ha conosciuto qualche
mammasantissima da vicino?
«Come no? Sam Giancana.
Una volta il mio capo mi ha incaricato di portare le mazze da golf in
campo per il boss».
Quando la svolta?
«Nel 1976, Tom Eboli, mi
chiama i disparte e mi offre diecimila dollari a patto che mi
laureassi. Così sono uscito dal giro e mi sono trasferito a New
York».
Inizia la seconda vita,
la laurea, la cattedra di letteratura in diversi college e
Università.
Poi il primo viaggio in
Italia, a Castellana Grotte in Puglia, paese d'origine della madre,
la "folgorazione": studiare la grande storia attraverso le
vicende della sua famiglia. Scrive il primo libro sulla
rappresentazione della mafia nella letteratura americana e poi tanti
altri testi sui vari flussi migratori e la consulenza per la serie I
Sopranos. Un sogno afferrato grazie alla cultura sul crinale
dell'incubo in cui lo avrebbero trascinato le sirene dei boss.
“la Repubblica”, 25 maggio 2013
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