9.4.14

La buona mafia. Lezioni siculo-americane (Tano Gullo)

Fred  Gardaphé ragazzo col padre e la madre a una festa della piccola Italia nel 1963
L'articolo che segue, un'intervista a Fred Gardaphé, uno dei maggiori specialisti di letteratura siculo-americana, mi ha prima sconcertato, poi forse mi ha aperto gli occhi. Ho maturato la convinzione che sulla mafia e sulle mafie militari l'occhio dell'osservatore Usa medio sia ancor oggi più tollerante se non più compiacente che non in Europa. Sospetto che lì la presenza di poteri illegali nella società sia tuttora giudicata un fatto normale, che può avere perfino risvolti positivi, un elemento d'ordine, un collante. Mi pare insomma che negli Usa la convivenza, a volte armoniosa, a volte conflittuale, delle mafie con altri poteri, da quelli statuali a quelli della grande finanza, sia un fatto assodato e immodificabile. (S.L.L.)
Fred Gardaphé oggi
Prima orfano di mafia, poi spicciafaccende di un boss, infine docente universitario. Ora Fred Gardaphé, 60 anni,èa Palermo dove tiene un ciclo di lezioni sugli scrittori italoamericani e sui registi che raccontano Cosa nostra, organizzato dal dipartimento di Scienze umanistiche dell'Università. Eccola questa umana incarnazione del miracolo americano dentro l'Hotel de France accanto alla statua di Joe Petrosino, il poliziotto ucciso dalla Mano nera tra le gigantesche magnolie di piazza Marina. Giacca bianca, magliettae pantaloni blu, basco fregiato con un canguro, baffi e pizzetto bianchi, occhiali rossi e un diamantino nell'orecchio sinistro. Italiano con la tipica cadenza americana e tante risate.
Professore, gli scrittori italo americani sono una bella realtà nel panorama culturale d'oltreoceano. Tra questi, quanto pesano i siciliani?
«Moltissimo. Al punto che oggi si può parlare di una "Scuola siciliana", che analizzerò in uno dei miei prossimi libri. La sua particolarità è che oltre a raccontare i dolorosi o gli esaltanti aspetti dell'epopea dell'emigrazione fa i conti con la cruda realtà della mafia».
I nomi e le opere?
«Il numero uno per me è Jerre Mangione, un grande che ha descritto la vita dei siciliani sia in America che nell'Isola. Negli anni Sessanta, infatti, ha lavorato con Danilo Dolci a Trappeto e su quell'esperienza ha scritto un libro. Sulla mafia lui è ambiguo, è affascinato dai valori originari: rispetto e onore. Monte Allegro è la sua intrigante biografia a Little Sicily. Al secondo posto metto Ben Morreale, originario di Racalmuto, il paese di Sciascia, che nei suoi romanzi chiama Racalmora. Peccato che sia morto prima di completare il suo romanzo su Lucky Luciano».
Terzo?
«Non ho dubbi, Tony Ardizzone: il suo Nel giardino di Papa Santuzzu è un capolavoro. E infine gli altri, a cominciare dal mio amico Nat Scammacca, sofferente di schizofrenia, che divideva la sua vita tra Erice e gli Usa. A Chicago Nat, era amatissimo. Poi, Salvatore La Puma, Kenny Marotta, Antony Valerio, Sandra Mortola Gilbert, leader femminista, e tanti altri».
Come è strutturato il corso?
«Il progetto messo a punto con la docente Marina Cacioppo si propone di esplorare l'identità etnica nella produzione letteraria e cinematografica italoamericana dagli anni Trenta a oggi. Cioè, fornire agli studenti un panorama storico, teorico, letterario e filmico, dell'importante contributo degli emigranti alla cultura americana».
Di quali film parla agli studenti?
«Quelli di Coppola, Scorsesee Cimino, ovviamente: "Il siciliano", il più brutto di tutti, "Il padrino", "Chicago", "Goodfellas". Anche io nella mia prima vita sono stato un bravo ragazzo come quelli nel film di Scorsese. Uno dei tanti picciotti dell'universo mafioso».
La vogliamo raccontare la sua infanzia drammatica e la sua gioventù spericolata?
«Cominciamo con l'uccisione di mio padre, di mio padrino o di mio nonno?».
Faccia lei.
«Mio padre, Fred anche lui, come mio nonno, me stesso e mio figlio, e mio padrino Luigi Fusaro, erano due mafiosi di scarso peso collegati con la potente famiglia Genovese di New York che a Chicago era capeggiata da Tom Eboli senior. Mio padrino l'hanno fatto sparire nel 1959 perché aveva rubato in un Golf club protetto e mio padre è stato accoltellato quattro anni dopo. Non so se per sgarro o altro. Pochi anni fa ho capito che ad ucciderlo era stato un amico del mio padrino».
E suo nonno?
«A lui hanno sparato due neri che erano andati a rubare nel Banco dei pegni che gestiva. Ha estratto la pistola mai rapinatori sono stati più lesti».
Prima di continuare la sua storia, chiariamo il rompicapo dei nomi. Tutti vi chiamate Fred, come vi distinguete?
«Mio nonno è Bell, dal nome del Banco, mio padre Shadow, ombra, io Little e mio figlio Rico. L'altra mia figlia solo Marianna».
E dopo lo sterminio della sua famiglia?
«Alla morte del nonno nel 1966 avevo 14 anni, e sono stato costretto a lavorare nel Banco, affiancato da un poliziotto, perché doveva restare aperto almeno un anno per dare la possibilità ai clienti di riscattare gli oggetti impegnati. Poi mia madre mi ha mandato da Tom Eboli junior, figlio del boss, che aveva un magazzino di materiali per i ristoranti. Qui ci vuole una premessa: io ho conosciuto due mafie: una "buona", solo di business, e un'altra cattiva, estorsioni e omicidi.
Tom Eboli si dedicava solo agli affari, il fratello Luigi invece era nel filone criminale. Tom dava la mia paga a mia madre e il fratello mi ha proposto di lavorare anche per lui, così avrei avuto dei soldi in tasca. Di giorno ero un bravo impiegatoe la sera un cattivo ragazzo».
Si è macchiato di reati gravi?
«Non credo. Ero l'autista, lo spicciafaccende. Li accompagnavo e li andavo a prendere, quello che facevano nel frattempo non era affare mio. Al massimo mi sono trovato a bloccare qualcuno mentre gli altri lo pestavano. Ricordo che una volta il sangue di uno miè schizzato nella camicia, allora il mio capo mi ha dato venti dollari per compramene una nuova».
Quanto è durata questa sua vita quasi criminale?
«Dieci anni, dal 1967 in poi. Tante volte venivo utilizzato per depistare gli agenti dell'Fbi. Li portavo in giro per Chicago, loro erano convinti di seguire il mio boss, che invece era su un'altra auto. Poi quando nel 1972, anno di uscita del Padrino di Coppola, hanno sparato a Tom Eboli senior, capo vero; i due fratelli si sono nascosti e per qualche anno io ho fatto il porta ordini, tenevo i collegamenti tra i capi e i picciotti ».
Ha conosciuto qualche mammasantissima da vicino?
«Come no? Sam Giancana. Una volta il mio capo mi ha incaricato di portare le mazze da golf in campo per il boss».
Quando la svolta?
«Nel 1976, Tom Eboli, mi chiama i disparte e mi offre diecimila dollari a patto che mi laureassi. Così sono uscito dal giro e mi sono trasferito a New York».
Inizia la seconda vita, la laurea, la cattedra di letteratura in diversi college e Università.
Poi il primo viaggio in Italia, a Castellana Grotte in Puglia, paese d'origine della madre, la "folgorazione": studiare la grande storia attraverso le vicende della sua famiglia. Scrive il primo libro sulla rappresentazione della mafia nella letteratura americana e poi tanti altri testi sui vari flussi migratori e la consulenza per la serie I Sopranos. Un sogno afferrato grazie alla cultura sul crinale dell'incubo in cui lo avrebbero trascinato le sirene dei boss.

“la Repubblica”, 25 maggio 2013  

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