Nell'ottobre 2011, nel
corso del FestivalStoria di Torino dedicato a Risorgimenti,
ricostruzioni, rinascite, uno
degli incontri di maggiore successo fu quello con lo storico Shlomo
Sand, professore all'Università di Tel Aviv e autore del saggio
L'invenzione del popolo ebraico (Rizzoli,
2010), molto criticato nel suo paese.
Una
trascrizione del suo intervento (quella qui ripresa) fu pubblicata
dal “manifesto” per la cura e la traduzione di Francesca
Chiarotti. Il meccanismo che viene studiato ed evidenziato da Sand è
quello tipico dei risorgimenti nazionali ottocenteschi europei, in
cui gruppi intellettuali animati da un preciso disegno politico
reinterpretano, riscrivono e talora inventano il passato in funzione
del presente. I miti che ne derivano spesso non si limitano a
sorreggere la formazione di uno stato “nazionale”, ma facilmente
degenerano in un nazionalismo aggressivo ed imperialistico.
Israele
sembra rispettare questa parabola, ma con due differenze importanti.
Primo: la base del mito identitario è la trasformazione della
“storia sacra” in “storia civile”. Secondo: il “popolo
ebraico” disperso nel mondo ha una identità debole fino
all'inconsistenza, mentre il “sionismo” continua a negare
identità a un popolo che ha una sua esistenza oggettiva, quello
degli israeliani dello stato d'Israele. Lettura molto interessante,
vivamente consigliata. (S.L.L.)
Shlomo Sand |
Il ricorso al termine
fluido di «popolo», ha conosciuto molti avatar nell’epoca
moderna. Se in un lontano passato, il termine si applicava a gruppi
religiosi come «il popolo di Israele», il «popolo cristiano», o
ancora, «il popolo di Dio», nei tempi moderni, il suo uso è
diretto alla designazione di collettività umane che hanno in comune
componenti culturali e linguistiche laiche.
In generale, considerando
il periodo precedente l’avvento della stampa, dei libri, dei
giornali, e dell’educazione controllati dallo Stato, è molto
difficile utilizzare il concetto di «popolo» per definire un gruppo
umano.
Un unico ceppo
Finché il livello di
comunicazione tra le tribù da un villaggio all’altro era debole ed
episodico, finché il miscuglio di dialetti differiva secondo le
vallate, e il contadino o il pastore disponevano di un ristretto
vocabolario, limitato al proprio lavoro e alle proprie credenze
religiose, la realtà dell’esistenza dei popoli, può essere
seriamente messa in discussione. La definizione di «popolo»
relativa a una società di contadini analfabeti, mi è sempre
sembrata problematica, e intrisa di un inquietante anacronismo
Sempre legati ai
documenti scritti, trasmessi, all’occorrenza, dai centri di potere
intellettuali del passato, gli storici sono stati imprudentemente
inclini a generalizzare, e ad applicare alle società, nel loro
insieme, le identità proprie di un sottile strato di élites, di cui
davano testimonianza i documenti storici. Nei regni e principati,
dotati di un linguaggio amministrativo, per la stragrande maggioranza
dei soggetti, il grado di identificazione con l’apparato statale
era, nella maggior parte dei casi, molto vicino allo zero. Se una
forma di identificazione ideologica col potere è potuta esistere,
essa era legata alla nobiltà terriera e alle élites urbane; queste
compiacevano il sovrano, e davano una base al suo potere.
Cinquecento anni fa non
esisteva il popolo francese, italiano o vietnamita, e, parimenti, non
c’era neppure un popolo ebraico disperso per il mondo. Esisteva
invece, fondata sulla pratica del culto e sulla fede religiosa, una
importante identità ebraica, più o meno forte a seconda del
contesto e delle circostanze; più le componenti culturali della
comunità erano lontane dal culto, più si contaminavano con le
pratiche culturali e linguistiche degli ambienti non ebrei che le
circondavano. Le considerevoli differenze nella cultura quotidiana
tra le varie comunità ebraiche, hanno costretto gli storici sionisti
a sottolineare un’origine «etnica» unica: la maggior parte, se
non tutte le comunità ebraiche, deriverebbero da uno stesso ceppo:
quello degli ebrei antichi. La maggior parte dei sionisti non
pensavano a una razza pura, tuttavia quasi tutti questi storici,
hanno fatto riferimento a un’origine biologica comune come criterio
decisivo di definizione di appartenenza allo stesso popolo.
Dal seme di Adamo
Così come i francesi
erano persuasi di avere come antenati i Galli, così come i tedeschi
sono stati nutriti nell’idea di essere discendenti diretti degli
ariani teutonici, così anche gli ebrei dovevano sapere di essere gli
autentici discendenti degli ebrei fuggiti dall’Egitto. Solo questo
mito degli «antenati ebraici» poteva giustificare la rivendicazione
di un diritto in Palestina; sono in molti a esserne ancora convinti,
ai nostri giorni. Ciascuno sa che, nel mondo moderno, l’appartenenza
a una comunità religiosa non costituisce diritto di proprietà su un
territorio,mentre, al contrario, un popolo «etnico» trova sempre
una terra che possa rivendicare come quella dei suoi antenati.
Ecco perché, agli occhi
dei primi storici sionisti, la Bibbia ha smesso di essere una
impressionante narrazione teologica, per divenire un libro di storia
laica il cui insegnamento è impartito a tutti i bambini israeliani
ebrei, dal primo anno delle elementari fino alla maturità. Sulla
base di questo insegnamento, il popolo d’Israele non è più
costituito da «gentili consacrati», ma è diventato nazione
direttamente dal seme di Abramo, così, quando l’archeologia
moderna ha cominciato a dimostrare che non ci fu l’esodo
dall’Egitto, e che il grande regno unificato da Davide e Salomone
non è mai esistito, la notizia è stata accolta da reazioni dure e
imbarazzate da parte del pubblico laico israeliano.
La secolarizzazione della
Bibbia ha avuto luogo in parallelo con la nazionalizzazione
degli «esuli». Il mito costituito dall’esilio del «popolo ebreo»
da parte dei romani, è diventato la suprema cauzione dei diritti
storici sulla Palestina, costruito, secondo la retorica sionista in
«Terra d’Israele». Assistiamo qui a un processo particolarmente
sorprendente di «formattazione» di una memoria collettiva: così,
mentre tutti gli studiosi di storia ebraica nell’Antichità hanno
sempre saputo che i romani non hanno esiliato la popolazione della
Giudea (non si trova, d’altra parte, la minima ricerca
storica su questo tema),
il resto dei mortali è stato convinto, e lo è ancora, che l’antico
«popolo d’Israele» è stato strappato con la forza alla sua
patria, così come si dichiara solennemente, nella Carta
d’Indipendenza dello Stato di Israele.
Rampolli
illegittimi
Se non c’è stato, in
passato, un popolo ebreo, il sionismo non è forse riuscito a crearlo
nei tempi moderni? Ovunque, nel mondo, quando si è trattato di
creare le nazioni, ossia dei gruppi umani rivendicanti per se stessi
una sovranità, o in lotta per conservarla, sono stati inventati dei
popoli dotati di una lunga anteriorità, di origini storiche lontane.
Il movimento sionista ha proceduto allo stesso modo. Tuttavia, se il
sionismo è stato in grado di immaginare un popolo eterno a titolo
retrospettivo, non è riuscito a creare, in prospettiva, una nazione
ebraica mondiale. Gli ebrei di tutto il mondo hanno oggi la
possibilità di emigrare in Israele, ma la maggior parte di essi
hanno scelto di non vivere sotto una sovranità ebrea e hanno
preferito conservare la nazionalità di altri paesi.
Se il sionismo non ha
creato un popolo ebreo mondiale, e ancor meno una nazione ebraica,
ha, fatto tuttavia nascere due popoli e, anche, due nuove nazioni,
che esso recalcitra purtroppo, a riconoscere, considerandoli
«rampolli» illegittimi. Esiste, oggi, un popolo palestinese, frutto
diretto della colonizzazione, che aspira alla propria sovranità;
esiste anche un popolo israeliano, pronto a difendere, con totale
abnegazione, la propria indipendenza nazionale.
Questo popolo – a
differenza di quello palestinese – non beneficia di alcun
riconoscimento, benché disponga di una propria lingua, di un sistema
generale di educazione, di una produzione letteraria, cinematografica
e teatrale che esprime una cultura quotidiana viva e dinamica.
Movimenti
incrociati
I sionisti, nel mondo,
possono fare dei doni a Israele, esercitare una pressione sui governi
dei loro paesi a favore della politica israeliana, ma, nella maggior
parte dei casi, non comprendono la lingua della nazione che dovrebbe
essere «la loro», e si astengono dal raggiungere il «popolo che è
emigrato nella sua patria» e evitano di inviare i loro figli a
partecipare alle guerre mediorientali. Nel momento in cui queste
righe sono vergate, il numero di israeliani che emigrano verso i
paesi occidentali, si rivela superiore a quello dei sionisti che
vengono a stabilirsi in Israele.
“il manifesto”, 13
ottobre 2011
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