25.4.14

Tra Medioevo e età moderna. Le fiamme del peccato (Valerio Castronovo)

Duomo d'Orvieto. Dettaglio dagli affreschi
della 
Cappella di San Brizio (Luca Signorelli)
Per lungo tempo, sin quasi alle soglie del XIX secolo, la paura legata a motivi religiosi è stata una componente fondamentale nella storia dell'Occidente, tanto da toccare ogni aspetto della vita quotidiana. Le apprensioni o addirittura le angosce che attanagliavano l'Europa non traevano origine soltanto da minacce derivanti dalle condizioni materiali della sopravvivenza, come le pestilenze e le carestie, le guerre e le rivolte che devastavano talora interi paesi, le calamità naturali da cui non era possibile difendersi in alcun modo.
Non meno assillante era l'ossessione dell'eresia, di ogni devianza rispetto all'ordine religioso esistente, così come dell'irruzione nel corpo della cristianità del diverso sotto qualsiasi sembianza (dai turchi agli ebrei, dagli idolatri alle streghe, ecc.).
Ma soprattutto, era la paura del proprio io, ancor prima o congiuntamente a quella suscitata dai pericoli esterni, a costituire il principale motivo di inquietudine, comune tanto alle masse che alle classi dominanti: la paura della propria carne e delle proprie passioni, giacché la natura umana come non si stancava di ripetere la Chiesa era fragile e succube, di per sé, a ogni sorta di istinti malvagi.
Questa concezione inculcata dall'alto portò non soltanto a una svalutazione della vita materiale, ma anche a una diffusione così massiccia del senso di colpa e di uno stato d'ansia, da distinguere nettamente l'Occidente da altre civiltà (si pensi, per esempio, all'induismo e al buddismo) caratterizzate da una religiosità improntata alla serenità e alla contemplazione. Individuare le radici di questa percezione negativa del proprio essere equivale dunque a sciogliere uno dei più complessi nodi che informarono, sino al Settecento, tanta parte della mentalità, dei comportamenti collettivi, delle riflessioni di un'intera società sulla libertà dell'uomo, sulla vita e la morte, sulla sventura e sul male.
E' quanto ha fatto Jean Delumeau in un libro (Il peccato e la colpa, Il Mulino) che al pari di quello che l' ha preceduto, La paura in Occidente, apparso in Italia nel 1979 s' impone come un autentico classico negli studi dedicati alla rievocazione del clima culturale dell'Europa tra l'epoca mediovale e quella moderna. Fu proprio in questo periodo che toccò il culmine la paura per un avversario che ognuno credeva annidato in se stesso, sulla scia di una precettistica religiosa che derivava dalla dottrina del peccato originale e dalla tradizione ascetica.
Da sant'Agostino in poi, il dogma del peccato originale aveva conosciuto una crescente drammatizzazione, al punto di diventare col tempo una delle sollecitudini principali della cristianità e di coinvolgere tutti, dai teologi sino ai più umili contadini. Alla disubbidienza di Adamo e alla caduta dell'umanità dall'abbondanza nella miseria, dalla stabilità nella precarietà, si finirono per attribuire non solo la soggezione dell'uomo al dolore e alla morte, ma anche la sua corruzione e concupiscenza, la sua incapacità di controllare gli impulsi del proprio corpo, privo ormai della grazia speciale che Dio gli aveva concesso allo stato primevo.

La colpa originaria
Perciò, secondo la Chiesa, gli uomini si trovavano a scontare sia le punizioni celesti inflitte loro di volta in volta dalla collera divina a causa dei peccati di cui si erano macchiati, singolarmente o collettivamente, sia le conseguenze di quella prima colpa originaria che aveva contrassegnato, a guisa di catastrofe, l' inizio della storia e che continuava a gravare su ciascuno, sviandolo dalla rettitudine e dalla perfetta aderenza ai comandamenti di Dio. Un genere di pericolo tanto più insidioso quanto più celato nelle pieghe intime del proprio essere, e tanto più difficile da affrontare quanto maggiore lo sforzo da compiere per lottare contro un male oscuro connaturato a se stessi.
Né il Rinascimento né la Riforma protestante valsero a esorcizzare il senso di paura e l'accorato pessimismo che l'orrore per il retaggio del peccato originale e l'ossessione della dannazione che gli era associato, incutevano negli uomini del tempo, indipendentemente dal loro ceto sociale.
Per un verso, l'estremo vigore con cui la Chiesa aveva insistito nell'ampliare le dimensioni del peccato rispetto a quelle del perdono e della redenzione generando nei fedeli una paura sconfinata di Dio che nulla aveva a che fare col timore filiale e reverenziale a lui dovuto era giunta a produrre effetti traumatizzanti difficilmente rimarginabili: sol che si pensi all'influenza devastante esercitata sulla sensibilità individuale e sull'immaginario collettivo dalla letteratura devozionale non meno che dall'iconografia religiosa, attraverso i più svariati temi del macabro, per coltivare il più possibile il pensiero della morte e spegnere così i vizi e le passioni (dalla rappresentazione del trapasso fra gli spasimi dell'agonia e la decomposizione del corpo senza vita, all'evocazione dei più terribili tormenti dell'oltretomba per il peccatore precipitato nell'abisso dell'inferno).
Per un altro verso, anche i protestanti continuarono ad arrovellarsi intorno alla gravità e alle conseguenze nefaste del peccato originale. Lutero aveva proclamato la giustificazione per fede, proprio perché necessaria all'uomo caduto dopo la collisione col peccato originale; e se accusava la ragione di essere una maledetta sgualdrina, lo faceva nella convinzione che la ragione era stata deturpata appunto dal peccato originale, dal fatto che l'uomo aveva preferito credere alla sua donna e al diavolo (che gli mentivano) invece che a Dio che gli aveva detto la verità.
Così che non solo i presbiteriani più austeri ma un po' tutti gli evangelici usarono, nel risvegliare e riconvertire le folle, più o meno gli stessi argomenti dei predicatori cattolici; a cominciare dal concetto che nulla di buono albergasse nell'uomo. Uno di loro dichiarava che l'uomo era peggiore del rospo e del ragno perché in un angolo invisibile di se stesso nascondeva una sacca di veleno (effetto del primo peccato) che ne corrompeva gli atti.
Tuttavia non sarebbe giusto, osserva Delumeau, ridurre la storia del senso della colpa unicamente a quella del potere clericale. Se il clero venne esercitando e consolidando la sua autorità sottoponendo i fedeli a una intensiva persuasione della loro colpevolezza, è anche un fatto che, proprio da questa loro cattiva coscienza questi ultimi furono indotti ad approfondire la conoscenza della sfera interiore, a interrogarsi sul proprio passato personale, ad acquisire gradualmente la propria identità. Allo stesso modo con cui, dovendo fronteggiare altri tipi di paure nei confronti di nemici reali o partoriti dalle proprie emozioni, i gruppi sociali e la collettività giunsero col tempo a darsi un ordine e una disciplina, nonché strumenti più adeguati per resistere alle minacce esterne e per non farsi sopraffare dalla disperazione e dallo scoramento.

Nuove malattie
Di fatto, nel corso del diciottesimo secolo, mentre si spegnevano i roghi delle streghe e cessavano le persecuzioni di massa contro gli eretici, con cui la cristianità aveva ritenuto in epoche precedenti di scongiurare le trame malefiche degli agenti di Satana, anche la iper-colpevolizzazione da cui essa era stata afflitta per così lungo tempo cominciò ad assumere connotazioni diverse da quelle determinate dalla paura dei guasti prodotti dal peccato originale: ad assecondare cioè la meditazione su se stessi, l' elaborazione di nuovi princìpi etici, la progressiva affermazione dell' individualismo e del senso di responsabilità. Anche se non si trattò di un fenomeno univoco e omogeneo, questo affrancamento da antiche paure finì per riflettersi in misura rilevante sul processo di razionalizzazione e laicizzazione della società. Successivamente prenderanno il sopravvento altre paure, non più di carattere religioso, ma dovute alle nuove malattie del vivere dell' uomo occidentale.


“la Repubblica”,10 settembre 1987  

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