Duomo d'Orvieto. Dettaglio dagli affreschi della Cappella di San Brizio (Luca Signorelli) |
Per lungo tempo, sin
quasi alle soglie del XIX secolo, la paura legata a motivi religiosi
è stata una componente fondamentale nella storia dell'Occidente,
tanto da toccare ogni aspetto della vita quotidiana. Le apprensioni o
addirittura le angosce che attanagliavano l'Europa non traevano
origine soltanto da minacce derivanti dalle condizioni materiali
della sopravvivenza, come le pestilenze e le carestie, le guerre e le
rivolte che devastavano talora interi paesi, le calamità naturali da
cui non era possibile difendersi in alcun modo.
Non meno assillante era
l'ossessione dell'eresia, di ogni devianza rispetto all'ordine
religioso esistente, così come dell'irruzione nel corpo della
cristianità del diverso sotto qualsiasi sembianza (dai turchi agli
ebrei, dagli idolatri alle streghe, ecc.).
Ma soprattutto, era la
paura del proprio io, ancor prima o congiuntamente a quella suscitata
dai pericoli esterni, a costituire il principale motivo di
inquietudine, comune tanto alle masse che alle classi dominanti: la
paura della propria carne e delle proprie passioni, giacché la
natura umana come non si stancava di ripetere la Chiesa era fragile e
succube, di per sé, a ogni sorta di istinti malvagi.
Questa concezione
inculcata dall'alto portò non soltanto a una svalutazione della vita
materiale, ma anche a una diffusione così massiccia del senso di
colpa e di uno stato d'ansia, da distinguere nettamente l'Occidente
da altre civiltà (si pensi, per esempio, all'induismo e al buddismo)
caratterizzate da una religiosità improntata alla serenità e alla
contemplazione. Individuare le radici di questa percezione negativa
del proprio essere equivale dunque a sciogliere uno dei più
complessi nodi che informarono, sino al Settecento, tanta parte della
mentalità, dei comportamenti collettivi, delle riflessioni di
un'intera società sulla libertà dell'uomo, sulla vita e la morte,
sulla sventura e sul male.
E' quanto ha fatto Jean
Delumeau in un libro (Il peccato e la colpa, Il Mulino) che al
pari di quello che l' ha preceduto, La paura in Occidente,
apparso in Italia nel 1979 s' impone come un autentico classico negli
studi dedicati alla rievocazione del clima culturale dell'Europa tra
l'epoca mediovale e quella moderna. Fu proprio in questo periodo che
toccò il culmine la paura per un avversario che ognuno credeva
annidato in se stesso, sulla scia di una precettistica religiosa che
derivava dalla dottrina del peccato originale e dalla tradizione
ascetica.
Da sant'Agostino in poi,
il dogma del peccato originale aveva conosciuto una crescente
drammatizzazione, al punto di diventare col tempo una delle
sollecitudini principali della cristianità e di coinvolgere tutti,
dai teologi sino ai più umili contadini. Alla disubbidienza di Adamo
e alla caduta dell'umanità dall'abbondanza nella miseria, dalla
stabilità nella precarietà, si finirono per attribuire non solo la
soggezione dell'uomo al dolore e alla morte, ma anche la sua
corruzione e concupiscenza, la sua incapacità di controllare gli
impulsi del proprio corpo, privo ormai della grazia speciale che Dio
gli aveva concesso allo stato primevo.
La colpa originaria
Perciò, secondo la
Chiesa, gli uomini si trovavano a scontare sia le punizioni celesti
inflitte loro di volta in volta dalla collera divina a causa dei
peccati di cui si erano macchiati, singolarmente o collettivamente,
sia le conseguenze di quella prima colpa originaria che aveva
contrassegnato, a guisa di catastrofe, l' inizio della storia e che
continuava a gravare su ciascuno, sviandolo dalla rettitudine e dalla
perfetta aderenza ai comandamenti di Dio. Un genere di pericolo tanto
più insidioso quanto più celato nelle pieghe intime del proprio
essere, e tanto più difficile da affrontare quanto maggiore lo
sforzo da compiere per lottare contro un male oscuro connaturato a se
stessi.
Né il Rinascimento né
la Riforma protestante valsero a esorcizzare il senso di paura e
l'accorato pessimismo che l'orrore per il retaggio del peccato
originale e l'ossessione della dannazione che gli era associato,
incutevano negli uomini del tempo, indipendentemente dal loro ceto
sociale.
Per un verso, l'estremo
vigore con cui la Chiesa aveva insistito nell'ampliare le dimensioni
del peccato rispetto a quelle del perdono e della redenzione
generando nei fedeli una paura sconfinata di Dio che nulla aveva a
che fare col timore filiale e reverenziale a lui dovuto era giunta a
produrre effetti traumatizzanti difficilmente rimarginabili: sol che
si pensi all'influenza devastante esercitata sulla sensibilità
individuale e sull'immaginario collettivo dalla letteratura
devozionale non meno che dall'iconografia religiosa, attraverso i più
svariati temi del macabro, per coltivare il più possibile il
pensiero della morte e spegnere così i vizi e le passioni (dalla
rappresentazione del trapasso fra gli spasimi dell'agonia e la
decomposizione del corpo senza vita, all'evocazione dei più
terribili tormenti dell'oltretomba per il peccatore precipitato
nell'abisso dell'inferno).
Per un altro verso, anche
i protestanti continuarono ad arrovellarsi intorno alla gravità e
alle conseguenze nefaste del peccato originale. Lutero aveva
proclamato la giustificazione per fede, proprio perché necessaria
all'uomo caduto dopo la collisione col peccato originale; e se
accusava la ragione di essere una maledetta sgualdrina, lo faceva
nella convinzione che la ragione era stata deturpata appunto dal
peccato originale, dal fatto che l'uomo aveva preferito credere alla
sua donna e al diavolo (che gli mentivano) invece che a Dio che gli
aveva detto la verità.
Così che non solo i
presbiteriani più austeri ma un po' tutti gli evangelici usarono,
nel risvegliare e riconvertire le folle, più o meno gli stessi
argomenti dei predicatori cattolici; a cominciare dal concetto che
nulla di buono albergasse nell'uomo. Uno di loro dichiarava che
l'uomo era peggiore del rospo e del ragno perché in un angolo
invisibile di se stesso nascondeva una sacca di veleno (effetto del
primo peccato) che ne corrompeva gli atti.
Tuttavia non sarebbe
giusto, osserva Delumeau, ridurre la storia del senso della colpa
unicamente a quella del potere clericale. Se il clero venne
esercitando e consolidando la sua autorità sottoponendo i fedeli a
una intensiva persuasione della loro colpevolezza, è anche un fatto
che, proprio da questa loro cattiva coscienza questi ultimi furono
indotti ad approfondire la conoscenza della sfera interiore, a
interrogarsi sul proprio passato personale, ad acquisire gradualmente
la propria identità. Allo stesso modo con cui, dovendo fronteggiare
altri tipi di paure nei confronti di nemici reali o partoriti dalle
proprie emozioni, i gruppi sociali e la collettività giunsero col
tempo a darsi un ordine e una disciplina, nonché strumenti più
adeguati per resistere alle minacce esterne e per non farsi
sopraffare dalla disperazione e dallo scoramento.
Nuove malattie
Di fatto, nel corso del
diciottesimo secolo, mentre si spegnevano i roghi delle streghe e
cessavano le persecuzioni di massa contro gli eretici, con cui la
cristianità aveva ritenuto in epoche precedenti di scongiurare le
trame malefiche degli agenti di Satana, anche la
iper-colpevolizzazione da cui essa era stata afflitta per così lungo
tempo cominciò ad assumere connotazioni diverse da quelle
determinate dalla paura dei guasti prodotti dal peccato originale: ad
assecondare cioè la meditazione su se stessi, l' elaborazione di
nuovi princìpi etici, la progressiva affermazione dell'
individualismo e del senso di responsabilità. Anche se non si trattò
di un fenomeno univoco e omogeneo, questo affrancamento da antiche
paure finì per riflettersi in misura rilevante sul processo di
razionalizzazione e laicizzazione della società. Successivamente
prenderanno il sopravvento altre paure, non più di carattere
religioso, ma dovute alle nuove malattie del vivere dell' uomo
occidentale.
“la Repubblica”,10
settembre 1987
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