A Massimo Fini,
giornalista umorale e polemista puntuto, non mancano di certo
cultura, intelligenza e “bella scrittura”, che lo hanno portato a
esiti dignitosi, perfino quando, un po' perché attratto dalle sirene
di destra, un po' per mania d'anticonformismo, ha ecceduto nel
“politicamente scorretto” esaltando la “bella guerra” (che
non è comunque quella tecnologica oggi dominante). Dei primi anni
Ottanta (1982) è l'articolo che segue che apparve su “Pagina”,
un settimanale molto culturale e molto anticomunista di sostegno a
Craxi e al suo “lib-lab”, che era animato da Pigì Battista e
durò poco. Ma anche in quel contesto Fini era un “cane sciolto”
e a questa sua natura è riconducibile la “stroncatura”, che
segue, di 1934, il romanzo di
Moravia uscito da poco e da molti osannato. L'articolo diventa
peraltro una stroncatura di Moravia scrittore, cui tuttavia si
riconosce un “capolavoro” (Gli Indifferenti)
e altri testi di valore, pochissimi. Io, che sul Moravia narratore
sono sulla stessa lunghezza d'onda ("uno scrittore in progressiva
involuzione"), salverei qualcosa di più e darei un giudizio positivo
sui saggi de L'uomo come fine.
(S.L.L.)
Renato Guttuso, Ritratto di Alberto Moravia |
Alberto Moravia è un
caso clinico, assai curioso. Ogni libro che scrive è peggiore del
precedente. È vero che iniziò nel 1928 con un capolavoro, Gli
indifferenti, ma da allora sono passati cinquantatre anni e
Moravia ha pubblicato più di quaranta libri per cui, per quanto alto
fosse quell'esordio, la situazione della sua produzione si è fatta
drammatica.
Si pensava che Moravia
avesse toccato il fondo nel 1960 con La noia ma poi scrisse Io
e lui, dialogo fra un uomo ed il suo pene, libro di cui Giuseppe
Berte, pochi mesi prima di morire, mi dette, in un'intervista
all'Europeo, questo giudizio: «Io credo che uno che ha scritto Io
e lui dovrebbe vergognarsi per l'eternità». Ma Moravia non si
vergognò né si fermò, precipitando, di libro in libro, verso il
raccapriccio. E l'abominio. Nel 1977 ignorando di essere morto come
scrittore, pubblicò La vita interiore, racconto imperniato
sulle innumeri inchiappettature di un'eroina sessantottesca, tale
Desideria (corredata da una pedantesca "voce" che la eccita
continuamente all'eversione), così comicamente "signorina snob"
della rivoluzione, fasulla ed inesistente, che si stenta persine a
credere che Mora-via possa averne incontrato il prototipo, ed
essersene lasciato senilmente ingannare, in qualcuno di quei salotti
romani di cui è la riverita mummia. Per sopramercato nella Vita
interiore Moravia abbandonava, a favore della formula dell'intervista
fra l'"io narrante" e l'insopportabile Desideria, anche
l'unico coraggio di cui è sicuramente dotato: quello di raccontare
"scrivendo brutto" e male, come dice Edoardo Sanguineti, ma
di raccontare.
Lo stesso autore si rese
conto che La vita inferiore era una "performance"
difficilmente battibile e dichiarò solennemente: «Questo è il mio
ultimo romanzo». I lettori tirarono un sospiro di sollievo e forse anche
i critici la cui lascivia laudatoria e servile, per quanto smisurata,
cominciava a non essere più all'altezza delle opere del maestro. Ma
Moravia, ahinoi, ci ripensò e così, all'alba di quest'anno, è
riuscito a scrivere il libro più brutto della sua vita, 1934,
tale che nemmeno la critica italiana ufficiale, che nel caso di
Moravia è solita raggiungere percentuali di consenso di tipo
albanese, del cento e frazioni per cento, è riuscita ad essere
unanime. Almeno una voce s'è, questa volta, levata irrispettosa
contro l'intoccabile: quella di Alfredo Giuliani, clic, in una
recensione, dopo aver a lungo girato attorno all'argomento, ha alla
fine ammesso che 1934 è «un libro gratuito dal principio alla
fine».
Ma quella di Giuliani è
stata una nota isolata nel coro estatico dei Milano, dei Pampaloni,
dei Camon, dei Riva (Valerio), dei Nascimbeni, dei Davico Benino, dei
Siciliano, dei Filippini. A parte Siciliano, che non fa testo nemmeno
nell'adulazione e che, talvolta, riesce persino a nauseare lo stesso
Moravia per eccesso di servilismo (che sarebbe come disgustare un
vampiro per eccesso di sangue), la cosa più comica a proposito di
1934 l'ha detta Paolo Milano («il critico più vile
d'Italia», secondo Berto) trovando delle parentele fra Moravia e
Nietzsche, quando è noto che il nostro detesta Nietzsche perché non
ne ha mai capito un'acca. Va da sé che 1934 ha vinto il
premio Mondello 1982 per la sezione italiana.
Di Moravia io ammiro la
consumata abilità. Credo che sia l'unico scrittore al mondo che sia
riuscito a campare cinquant'anni su un solo libro valido. E che le
cose stiano così deve essere, sotto sotto, anche l'opinione dei suoi
ammiratori. Ne è spia un libriccino biografico pubblicato da
Fel-trinelli con intenti dichiaratamente incensatori in cui, con
significativo lapsus, la nascita degli Indifferenti viene
datata 1828 (milleottocento), sembrando allo stesso amorevole
curatore esserci un abisso fra quel Moravia e tutto il successivo,
come se fossero scrittori di due secoli diversi.
Tralascerò qui l'aspetto
clientelare e mafioso dell'attività culturale di Alberto Moravia
perché mi costringerebbe a passare dal faceto al serio, a ricordare
tragedie come quella di Morselli, a parlare di personaggi trucidi
come Siciliano, e non ne ho voglia.
Detto sul conto del
nostro tutto ciò che c'era da dire, e anche qualcosa di meno, ci
assale però un tormentoso dubbio. Moravia resta, nonostante tutto,
per Gli indifferenti, per Inverno di malato, per alcuni
dei Racconti romani, uno scrittore che, perlomeno, è stato in
serie A. Sia pure all'epoca dell'"Ambrosiana Inter". Ed è
stato il destino della nostra generazione di dover rivalutare, una
volta visti i successori, tutto ciò contro cui si era battuta:
abbiamo imparato che al peggio non c'è mai limite. Ed il vero slogan
del '68 è: «Rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto». Forse anche
Alberto Moravia, l'abominevole.
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