Non mi meraviglia per
niente, anzi l’ho predetto a cena da amici, o chiacchierando fuori
orario nei corridoi del posto di lavoro o financo al bar che La
grande bellezza avrebbe vinto l’Oscar a mani basse. E come non
poteva?
E’ un film che presenta
e corrobora la peggiore immagine possibile dell’Italia – peggiore
e “giusta”, in particolar modo per gli americani, che sono quelli
che danno l’Oscar e che fino dai tempi di Mussolini ci considerano
esattamente come il film di Sorrentino, mutatis mutandis, con
gli aggiustamenti epocali necessari, ci presenta: un popolo di
cialtroni, superficiali, corrotti e festaioli, che danzano sulle
rovine della loro civiltà, di cui sono cinicamente carnefici o
stolidamente immemori.
Del resto, da un regista
come Sorrentino, che non si vergogna di considerare un personaggio
come Maradona uno dei suoi idoli, cosa c’era da sperare se non una
celebrazione dell’Italia peggiore? Che, intendiamoci, è quella da
esportazione: va benissimo agli americani, ma anche agli altri –
così ci vedono altrove, dato che dopo Mussolini e una serie di
servili governi democristiani abbiamo avuto per vent’anni come
nostro esportatore di immagine Silvio Berlusconi. Il gagà
Gambardella è un Silvio appena appena ripulito – non fa il bunga
bunga, ma guarda divertito il bunga bunga degli altri, ballando,
sospirando per i suoi sessant’anni (che stia diventando davvero
adulto?), girovagando svagato da una festa all’altra e non facendo
l’unica cosa che gli altri dicono sappia fare (scrivere?).
In fondo La grande
bellezza è l’ultimo anello della catena. L’Oscar per il
miglior film straniero è un po’ come il Nobel – tocca a tutti,
ma a rotazione, e noi eravamo rimasti senza per un quindicennio: lo
guadagnò Mediterraneo di Salvatores nel 1992, e in fondo era
un film di cui non vergognarsi — un plotone di soldati italiani
sperduti durante la Seconda Guerra in un’isola greca di inaudita
bellezza e con la bellezza (quella vera, quella della natura), si sa,
viene la civiltà, la capacità armonica di capire, perdonare, vivere
e convivere serenamente. Poi, nel 1999, è stata la volta di La
vita è bella dell’astuto Benigni che ha percorso gli States
in lungo e in largo per convincere la ritrosa, conservatrice, arcigna
e potentissima lobby ebraico-americana ad adottare quel gran brutto
film, e così è stato. Senza scomodare olocausti e lager di maniera,
ora abbiamo davvero il peggio perché convinti in America sono stati
davvero tutti e senza sforzo – noi siamo così, percepiti così,
non occorre nessun battage pubblicitario. Se poi nel titolo
dell’italico film c’è l’aggettivo bello o il relativo
sostantivo, a ricordare che di questo straordinario e sempre più
smandrappato patrimonio mondiale noi siamo gli immeritevoli detentori
da circa duemila anni, il gioco è ancor più fatto.
E, come se non bastasse,
a quello che pensano Sorrentino (che tanto ama Maradona) e gli
americani, ha dato la sua approvazione anche Giorgio Napolitano: il
17 marzo Sorrentino e Servillo sono stati insigniti dal presidente
della repubblica italiana dell’onorificenza dell’ordine al merito
della repubblica italiano – il merito di avere definitivamente
sputtanato il paese anche in campo cinematografico.
Il gagà Gambardella
alias Servillo si rivolge alla sua colf chiamandola scherzosamente
“farabutta”, e questo già ci suona grato: abbiamo un’alternativa
metafilmica – dato per scontato che colf comunque siamo, siamo
farabutti o cialtroni? Chiediamo a re Giorgio, magari ci conferisce
un’altra onorificenza per avergli posto pertinentemente il dotto
quesito.
Dal sito de "Il Ponte", postato il 26 marzo 2014
Nessun commento:
Posta un commento