8.4.14

Pallore, assenza di idee... Calvino e la politica culturale del Pci (1956)

Il testo che qui "posto" è la riduzione fatta da “l'Unità” nel 1990, per selezione e per sintesi (sono sintesi le frasi in corsivo), di un lungo intervento svolto da Italo Calvino alla Commissione Culturale nazionale del Pci nel luglio 1956, partendo dalla sua trascrizione dattilografica. Si tratta di una vera e propria requisitoria contro la direzione della stessa commissione e del settimanale culturale del partito (“Il Contemporaneo”): Calvino la considera del tutto inadeguata a “cavalcare la tigre”, cioè a favorire la formidabile ripresa di cultura e di egemonia marxista di cui lo scrittore avverte la possibilità e sente il bisogno.
Per comprendere di che cosa si parli occorre rammentare le speranze alimentate dal XX Congresso del Pcus, svoltosi nel gennaio del 56. Esso non si esauriva nella denuncia fatta in seduta segreta dei cosiddetti “crimini di Stalin”, ma si presentava come il tentativo – in realtà solo enunciato e mai realmente avviato – di un rinnovamento del comunismo sulla base del marxismo, del suo spirito scientifico, critico e democratico, superando le ossificazioni catechistiche del periodo staliniano. In realtà quel che Krusciov fece per la Russia è esattamente quello che Calvino teme per l'Italia, l'annacquamento del brodo staliniano con un po' di liberalismo: il cosiddetto “disgelo” consistette nell'allentamento della censura, nel permettere la circolazione di qualche idea eterodossa e la pubblicazione di qualche libro vecchio e nuovo non comunista o perfino anticomunista. Tutto il contrario di ciò che Calvino vorrebbe: cioè una ricerca e un dibattito organizzati dal partito tra gli intellettuali marxisti e comunisti per rispondere alle domande dei tempi nuovi, in particolare quelle che si originano dallo sviluppo delle scienze naturali e sociali oltre che dalla nuova organizzazione del capitalismo industriale.
La riunione della commissione culturale si svolse in estate, quando, in preparazione dell'VIII congresso del Pci, Togliatti aveva già scatenato i suoi “bastoni” contro gli eccessi dei rinnovatori (il più esposto al tempo era Onofri), in modo da fissare i confini della cosiddetta “via italiana al socialismo”. Giova rammentare che le primi crisi del post-stalinismo nei paesi dell'Est Europeo, in Polonia e Ungheria, avevano avuto un esito aperto: sarebbe stato l'autunno a raffreddare i fervori. Per una contestualizzazione più interna alle dinamiche interne del Pci, aggiungo qui una parte dell'introduzione premessa al testo da Bruno Schacherl. (S.L.L.)
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Introduzione
Ricordiamo solo alcuni fatti. Responsabile dello commissione culturale è, dal gennaio '55, Mario Alicata. Carlo Salinari, che nella primavera dell'anno prima aveva dato vita, con Trombadori, al “Contemporaneo” settimanale, continua a dirigerlo. E proprio dalle sue colonne avvia nel febbraio '56 e conclude pochi giorni prima di quella riunione nazionale, quel famoso dibattito sul partito e gli intellettuali che, subito intrecciatosi con le ripercussioni del XX Congresso del Pcus e del rapporto segreto di Krusciov, costituisce il retroterra della grande crisi esplosa su questo terreno a cavallo dei fatti d'Ungheria.
In primo piano, tuttavia, sono ancora le riflessioni politiche e culturali sulla «via italiana», e prevalgono temi nazionali. Nel '55 c'è stata la sconfitta alla Fiat. L'asse ideologico crociano e storicistico più che gramsciano su cui si era fino allora imperniata la politica culturale comunista appare sempre più inadeguato a una analisi del reale che non si limiti a celebrare la classe operaia ma sia utile alle sue lotte attuali. Spingono in tal senso non solo le ricerche di intellettuali di area socialista (Guiducci. Fortini, più tardi Panzieri), ma anche una parte de intellettualità comunista, da Geymonat a Della Volpe, agli economisti Manzocchi e Leonardì, e molti dei giovani formatisi in quegli anni duri proprio all'interno del Pci.
La commissione culturale, e la direzione del settimanale, nonostante le aperture formali al pluralismo, appare in effetti come arroccata nella difesa di una «tradizione» marxista-storicistica. Intende ascoltare, certo - a metà del '55 si svolge un convegno di intellettuali comunisti del triangolo industriale - e di assorbire alcune delle esigenze nuove. Ma ritiene che la sua linea sia la sola in grado di spostare in avanti la situazione, combattendo e isolando con una forte «direzione culturale» ogni deviazione verso la sociologia, il neopositivismo, la cultura sbrigativamente definitacome cultura dei monopoli. Calvino era già intervenuto tra i primi nel dibattito sul “Contemporaneo”, con un testo significativamente intitolato Nord e Roma-Sud. La sua critica è molto severa: contro conservatorismo di termini continuamente proclamati come "realismo", "linea Gramsci-De Sanctis", "tradizione nazionale" e conto i danni prodotti dalla «campagna anticosmopolita», con cui abbiamo secondato “l'abitudine reazionaria alla sufficienza paesana”. Ma soprattutto, lo scrittore si batte perché quella che egli già considera una «cultura del Nord» abbia un maggior peso nel partito. Altrimenti, scrive, si continuerà a oscillare tra l'«opportunismo diplomatico» della cosiddetta «coesistenza culturale» e il «settarismo inquisitorio della intransigenza ideologica».
L'intervento di luglio sviluppa con rigore e coerenza non solo culturale, ma politica, questo insieme di tesi. E spiega,ci pare, le sue scelte successive a quella che, storicamente, rimane la grande crisi
degli intellettuali comunisti. (Bruno Schacherl)

Se, oltre il dibattito politico sulla situazione aziendale (l'intervento si era aperto con la descrizione del dibattito in corso tra gli operai torinesi dopo la sconfitta alla Fiat, ndr), ora volgiamo lo sguardo al dibattito più generale che si svolge nelle nostre sezioni, quello che ha preso le mosse dal rapporto
Krusciov e che ha per tema dominante quello della democratizzazione del partito, vediamo che anche lì i problemi politici si presentano a noi come problemi di studio, di conoscenza, di teoria, di creazione. Ecco perché oggi pensare a un problema culturale che non sia un problema politico è assurdo. Queste sono le battaglie alle quali oggi teniamo. In tutta , dedicandovi tutte le ore libere da impegni di lavoro, gli intellettuali comunisti e di sinistra non fanno che discutere di questi problemi,
fanno le ore piccole, viaggiano da una città all'altra per discuterne.
Passando invece al nostro lavoro di commissione culturale, si ha un'impressione di pallore, di assenza di idee, di inadeguatezza ai tempi. La relazione di Alicata ne è stata uno specchio fin troppo fedele. Nel dibattito sul “Contemporaneo” si era comincialo a delineare qualcosa di molto prezioso: e cioè non solo un elenco di temi e di campi in cui la cultura marxista non aveva ancora agito ed era urgente che intervenisse, pena il nostro restare esclusi dalla intelligenza stessa del mondo contemporaneo, ma anche i nuovi modi in cui il partito ha bisogno di questa ricerca culturale, i modi in cui, a sua volta, questa ricerca culturale ha bisogno della organizzazione da parte del partito. Le indicazioni in questo senso mi sembra che non siano state confuse, sono state anzi molto omogenee. Si può sottolineare il disordine del dibattito: ma il compito della direzione di un dibattito e quello di fermarsi su quello che c'è di chiaro, non su quello che c'è di confuso. E di chiaro c'è oggi il fatto che viviamo in un grande e creativo momento del nostro movimento, un momento rivoluzionario. Oggi, soffermarsi sui lati negativi diventa una scusa per il proprio immobilismo.
Io penso che - ritorno al dibattito sul “Contemporaneo” - compito della direzione del dibattito era appunto di sottolineare questo, e niente di tutto questo si è fatto. La nostra direzione culturale ha dimostrato qui una totale inettitudine, una insipienza madornale. Non è che il dibattito sia stato sbagliato: è mancata la direzione, la quale è stata al di sotto di ogni livello immaginabile. Gli interventi più interessanti e nuovi battevano sulla necessità di estendere nostro studio marxista ai problemi che vanno dalle nuove forme di capitalismo alle ricerche sociologiche, tutti temi strettamente legati alla lotta politica, e che hanno bisogno, per essere sviluppali, non tanto di una ricerca individuale, quanto di una organizzazione di ricerca, ossia di una direzione. Non nel senso ormai superato, ormai remoto, che ancora pare abbiano in testa certi compagni, di qualcosa che deve tenere per mano i ricercatori, non come contrapposto alla libertà, ma come un fornire gli strumenti, la possibilità stessa della ricerca.
Il “Contemporaneo”, la commissione culturale centrale che ha tenuto il dibattito sotto la sua tutela, non hanno fatto nulla di tutte le cose che dovevano fare per mettere a fuoco il dibattito, per fare sì che continuasse, che si sviluppasse, che desse frutti (Trombadori, interrompendo: «Cosa, per esempio?»). Per esempio: incanalare alcuni temi di discussione, dire: i temi più importanti sono questi qui, formiamo dei gruppi di studio, prepariamo delle bibliografie ragionate su alcuni argomenti, o anche semplicemente facciamo una rassegna di quelle che sono le opinioni venute alla luce.
L'articolo che ha chiuso il dibattito, e mi dispiace essere il primo a dirlo, resterà a vergogna dei compagni dell'attuale commissione culturale. È un seguito di frasi ridicole, di enunciazioni di un liberalismo informe di cui non sappiamo che cosa fare. Questo rimandare ciascuno agli studi individuali, e vinca il più degno: queste professioni di fede di una genericità totalmente retorica, sono una chiusura che non è una chiusura. Non è nemmeno un soffocamento di determinate con determinate altre idee: è un nulla, è un insulto a tutti quelli che hanno partecipato. È come dir loro: beh, vi abbiamo fatto un po' sfogare, ma di tutto quello che avete detto non ce ne frega niente, adesso andate, non siamo neanche stati a sentire. Quell'articolo è un insulto a tutti coloro che si sono presi a cuore la ripresa degli studi marxisti in Italia.
È sbagliato dire che abbiamo avuto delle direzioni culturali nazionali peggiori. Il fatto caratteristico di questo momento è la smisurata sproporzione tra le possibilità e necessità del momento e la capacità di direzione del compagni che sono oggi alla testa del nostro lavoro culturale. È un momento in cui il marxismo per sua forza propria, non per merito nostro, torna ad essere forte più che in qualsiasi altro periodo, ideologia-guida di tutta la cultura mondiale. Stanno sorgendo forze intellettuali nuove che si muovono verso il marxismo e sentono il bisogno di lavorare per inserire il loro lavoro culturale nel movimento del rinnovamento sociale. Sono persone che non aspettano altro
che noi diamo loro modo di collaborare alla ricerca di quel qualcosa che a loro come a noi sta a cuore sopra ogni altra cosa, capire come riusciremo a fare il socialismo. Cosa stiamo facendo per queste forze, perché non entrano nel partito? Perché sentono il fascino del nostro movimento su scala storica mondiale, ma non il fascino di noi come partito, come organizzazione? È tempo che affrontiamo il problema delle nuove leve culturali.
È un problema grave, si usa parlare molto di generazioni in questi tempi, facciamo attenzione che il comunismo non diventi quello che è stata la posizione di una generazione di intellettuali italiani, senza stabilire una continuità con quelli che vengono dopo. Far entrare una generazione nuova vuol dire anche soddisfare le esigenze nuove che essa porta: vuol dire cambiare, ringiovanire. Così come il partito non ci ha soltanto insegnato, ma ha anche fatto sue le nostre esigenze, si è ringiovanito in noi. Cosa chiedono oggi gli intellettuali nuovi al partito? Chiedono la libertà? Ma la libertà è la condizione prima di ogni attività creativa, nella politica come in qualsiasi attività culturale. Per qualsiasi atto del nostro pensiero abbiamo prima di tutto bisogno di sentirci liberi. Se una volta avevamo delle obiettive, storiche limitazioni alla nostra libertà, più che giustificarle, allora le negavamo in noi stessi, le rimuovevamo da noi. Non potevamo neanche ammettere per un momento di non essere liberi.
Oggi tante cose che ci erano difficili, che adombravano la nostra coscienza, si vanno sempre più chiarendo; tante cose alle quali non volevamo pensare, perché pensare voleva dire respingerle o accettarle come un imperscrutabile mistero, oggi affiorano alla luce della nostra conoscenza e del nostro giudizio e il fatto che per noi, i liberatori del mondo, la parola libertà possa avere qualche ombra, qualche velo, ci pare già cosa assurda e remota, come se non appartenesse al nostro passalo, alla nostra esperienza più recente, ma a una sorta di preistoria. Siamo come d'un balzo diventati adulti; questo ci è successo.
Purtroppo devo dire che questo ci è successo non come protagonisti di un fatto storico determinato da noi, dal XX Congresso e da tutto quello che l'ha preparato. Il nostro cammino autonomo in questo senso è stato troppo poco, troppo timido, quando non era solo prevedibile, ma sicuro il corso che prendeva la storia. È chiaro che la ruota della storia non gira indietro. Il nemico della libertà non si discute, gli si ride in faccia, lo si seppellisce sotto una sghignazzata. Dico sghignazzata non dico sorriso di superiorità, non dico sorriso di leggerezza, siamo di fronte a fatti spesso tragici, certo molto seri.
Non è più una rivendicazione di libertà che ci muove, è l'esigenza di una organizzazione efficiente, proprio per rendere fruttuosa questa libertà, capace di elaborare in tutti i campi una ricerca marxista, di sollevare vari settori di ricerca, di pianificare i lavori e dare diffusione ai loro risultati. È un'esigenza particolarmente sentita in questi anni dai giovani scienziati, i quali ci parlano di lavoro di équipe, di nuovi modi della ricerca. E invece è ormai chiaro che la commissione culturale nazionale disprezza questo tipo di organizzazione della cultura, non intende aiutare i giovani che vogliono lavorare in questo senso. Perciò la parola d'ordine ormai in atto tra i giovani comunisti è quella di agire al di fuori dalla commissione culturale, di organizzarsi autonomamente, di formare gruppi di studio, se è possibile di pubblicare i loro risultati, per tenere informati i compagni e i colleghi del loro campo e di tenersi legati il più possibile alle proprie organizzazioni di partito.
Perché questo è il problema fondamentale, e non basta riconfermare tesi giuste quanto si vuole ma che si possono rendere operanti solo sul terreno della pratica e della organizzazione. Una politica della cultura non deve essere una politica degli intellettuali dall'alto di una sfera avvolta di nuvole, separata dalla politica vera e propria del partito. Noi vogliamo, non direi culturalizzare che è una parola brutta, scientificizzare il partito, dotarlo di tutti gli strumenti di ricerca, di studio, di analisi, di previsione, di conoscenza storica che gli sono indispensabili, pena il mancare il suo compito di oggi, pena perdere il contatto con la realtà, avviarsi sulla china della decadenza. Le attività culturali corporative, come queste che siamo andati facendo, sono importanti, non voglio negarlo. Ma ora il fatto dominante è la nostra atmosfera culturale, l'atmosfera di partito. Occorre dotare gli organi di partito di organismi di studio per l'analisi della realtà e per lo studio delle prospettive del socialismo, da compiere insieme intellettuali specialisti, dirigenti politici, lavoratori, dai compagni tutti, ognuno facendo la sua parte. Questo vuol dire fare l'intellettuale collettivo, è questa la via che Gramsci sperimentò prima nella pratica e poi teorizzò, è questa la via che noi dobbiamo realizzare
concretamente e non più indicarla soltanto a parole.
Dopo aver condotto una durissima polemica contro l'arretratezza del partito nel campo degli studi economici - “La classe operaia fiammeggia di indignazione contro i compagni che sono venuti meno al loro compito... Hanno sbagliato, paghino» - e portato esempi delle nuove esigenze della ricerca culturale, l'intervento così prosegue.
Forse vi state domandando perché sto parlando io di queste cose, e mo la sto prendendo tanto calda per problemi che riguardano sociologi, tecnici, economisti, scienziati, filosofi e storici, mentre io faccio - si dice - lo scrittore. Ebbene, io sono uno scrittore quando scrivo, comunque sono uno che si interessa e crede nella letteratura e ha la letteratura in cima ai suoi pensieri. Ma mi interessa l'ambiente culturale da dove la letteratura deve nascere e ho il più totale disinteresse per l'ambiente culturale tradizionale. Penso che soltanto in un mondo di interessi culturali nuovi nascerà l'esigenza di una letteratura nuova, a cui noi o altri saranno capaci di partecipare creativamente, comunque, come intellettuali comunisti. È l'ambiente culturale nuovo che dobbiamo creare. Per questo do la mia voce a esigenze che da tanti anni sento proporre da studiosi e da operai in mezzo ai quali mi piace lavorare, anche se io, nella mia genericità letteraria, sono poco preciso e so mettere in luce solo gli aspetti più vistosi e patetico-moralistici. È questo ambiente che mi sta a cuore, non tanto le definizioni di realismo. Mi pare che tra i dibattiti di cui ha parlato Alicata l'unico dibattito teorico è stato quello sulla definizione del realismo. Ora io credo che se si parla di metodologia estetica sia ancora un discorso serio, ma questi discorsi sulla definizione del realismo credo che saranno ricordati in un prossimo futuro come le discussioni sul sesso degli angeli, come un diversivo ideologico. È giusto fare delle ricerche di estetica ma di ricerche del realismo ce n'è una sola: è realismo quello che manda all'aria le ultime formulazioni teoriche su questo argomento.
Infine, dopo una serie di proposte sui compiti della commissione culturale nazionale e di specifiche critiche alla direzione del «Contemporaneo», l'esplicita, durissima conclusione dell'intervento.
Le conclusioni sono mollo amare. È giunto il tempo di dirsi che fare tutte queste cose non è solo questione di indirizzo, è anche questione di uomini. Gli attuali dirigenti della nostra politica culturale hanno dimostrato di non volere o di non sapere mettersi su un terreno nuovo. Spesso a parole sembra, anzi a parole sempre ci mettiamo d'accordo e poi si è sempre al punto di prima.
Quindi devo esprimere una mozione di sfiducia verso tutti i compagni che attualmente occupano posti nelle istanze culturali del partito. Non che cambiando gli uomini io penso di risolvere tutto o molto, certo che attualmente questi compagni non riscuotono la fiducia degli intellettuali del partito e per dirigere, soprattutto per dirigere gli intellettuali in un momento delicato come questo bisogna riscuotere un minimo di fiducia. Anche per dirigere un giornale bisogna riscuotere fiducia. Non è che i direttori dei giornali possano essere eletti democraticamente con delle elezioni come propone Fortini, sebbene questo non mi sembra debba far ridere - sarebbe molto bello, forse un giorno ci arriveremo - però ci vuole un po' di fiducia da parte dei collaboratori e dei lettori per dirigere un giornale come il “Contemporaneo”. [...] Per cui io chiedo un rinnovamento di uomini nella direzione del nostro lavoro culturale.
Compagni, la via della democrazia di partito è molto dura, quelli che ci dividono in duri e molli devono sapere che i duri siamo noi che crediamo in una piena democratizzazione della vita di partito come primo passo necessario verso la società socialista. Chi cavalca la tigre non può scendere, dice il vecchio proverbio indiano, molti forse saranno scalzati da questa scomoda cavalcatura...

“l'Unità”, 13 giugno 1990

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