Il testo che qui "posto" è la
riduzione fatta da “l'Unità” nel 1990, per selezione e per
sintesi (sono sintesi le frasi in corsivo), di un lungo intervento svolto da Italo Calvino alla
Commissione Culturale nazionale del Pci nel luglio 1956, partendo dalla sua trascrizione dattilografica. Si tratta di
una vera e propria requisitoria contro la direzione della stessa
commissione e del settimanale culturale del partito (“Il
Contemporaneo”): Calvino la considera del tutto inadeguata a
“cavalcare la tigre”, cioè a favorire la formidabile ripresa di
cultura e di egemonia marxista di cui lo scrittore avverte la
possibilità e sente il bisogno.
Per comprendere di che
cosa si parli occorre rammentare le speranze alimentate dal XX
Congresso del Pcus, svoltosi nel gennaio del 56. Esso non si esauriva
nella denuncia fatta in seduta segreta dei cosiddetti “crimini di
Stalin”, ma si presentava come il tentativo – in realtà solo
enunciato e mai realmente avviato – di un rinnovamento del
comunismo sulla base del marxismo, del suo spirito scientifico,
critico e democratico, superando le ossificazioni catechistiche del
periodo staliniano. In realtà quel che Krusciov fece per la Russia è
esattamente quello che Calvino teme per l'Italia, l'annacquamento del
brodo staliniano con un po' di liberalismo: il cosiddetto “disgelo”
consistette nell'allentamento della censura, nel permettere la
circolazione di qualche idea eterodossa e la pubblicazione di qualche
libro vecchio e nuovo non comunista o perfino anticomunista. Tutto il
contrario di ciò che Calvino vorrebbe: cioè una ricerca e un
dibattito organizzati dal partito tra gli intellettuali marxisti e
comunisti per rispondere alle domande dei tempi nuovi, in particolare
quelle che si originano dallo sviluppo delle scienze naturali e
sociali oltre che dalla nuova organizzazione del capitalismo
industriale.
La riunione della
commissione culturale si svolse in estate, quando, in preparazione
dell'VIII congresso del Pci, Togliatti aveva già scatenato i suoi
“bastoni” contro gli eccessi dei rinnovatori (il più esposto al
tempo era Onofri), in modo da fissare i confini della cosiddetta “via
italiana al socialismo”. Giova rammentare che le primi crisi del
post-stalinismo nei paesi dell'Est Europeo, in Polonia e Ungheria,
avevano avuto un esito aperto: sarebbe stato l'autunno a raffreddare
i fervori. Per una contestualizzazione più interna alle dinamiche
interne del Pci, aggiungo qui una parte dell'introduzione premessa al
testo da Bruno Schacherl. (S.L.L.)
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Introduzione
Ricordiamo solo alcuni
fatti. Responsabile dello commissione culturale è, dal gennaio '55,
Mario Alicata. Carlo Salinari, che nella primavera dell'anno prima
aveva dato vita, con Trombadori, al “Contemporaneo” settimanale,
continua a dirigerlo. E proprio dalle sue colonne avvia nel febbraio
'56 e conclude pochi giorni prima di quella riunione nazionale, quel
famoso dibattito sul partito e gli intellettuali che, subito
intrecciatosi con le ripercussioni del XX Congresso del Pcus e del
rapporto segreto di Krusciov, costituisce il retroterra della grande
crisi esplosa su questo terreno a cavallo dei fatti d'Ungheria.
In primo piano,
tuttavia, sono ancora le riflessioni politiche e culturali sulla «via
italiana», e prevalgono temi nazionali. Nel '55 c'è stata la
sconfitta alla Fiat. L'asse ideologico crociano e storicistico più
che gramsciano su cui si era fino allora imperniata la politica
culturale comunista appare sempre più inadeguato a una analisi del
reale che non si limiti a celebrare la classe operaia ma sia utile
alle sue lotte attuali. Spingono in tal senso non solo le ricerche di
intellettuali di area socialista (Guiducci. Fortini, più tardi
Panzieri), ma anche una parte de intellettualità comunista, da
Geymonat a Della Volpe, agli economisti Manzocchi e Leonardì, e
molti dei giovani formatisi in quegli anni duri proprio all'interno
del Pci.
La commissione
culturale, e la direzione del settimanale, nonostante le aperture
formali al pluralismo, appare in effetti come arroccata nella difesa
di una «tradizione» marxista-storicistica. Intende ascoltare, certo
- a metà del '55 si svolge un convegno di intellettuali comunisti
del triangolo industriale - e di assorbire alcune delle esigenze
nuove. Ma ritiene che la sua linea sia la sola in grado di spostare
in avanti la situazione, combattendo e isolando con una forte
«direzione culturale» ogni deviazione verso la sociologia, il
neopositivismo, la cultura sbrigativamente definitacome cultura dei
monopoli. Calvino era già intervenuto tra i primi nel dibattito sul
“Contemporaneo”, con un testo significativamente intitolato Nord
e Roma-Sud. La sua
critica è molto severa: contro conservatorismo di termini
continuamente proclamati come "realismo", "linea
Gramsci-De Sanctis", "tradizione nazionale" e conto i
danni prodotti dalla «campagna anticosmopolita», con cui abbiamo
secondato “l'abitudine reazionaria alla sufficienza paesana”. Ma
soprattutto, lo scrittore si batte perché quella che egli già
considera una «cultura del Nord» abbia un maggior peso nel partito.
Altrimenti, scrive, si continuerà a oscillare tra l'«opportunismo
diplomatico» della cosiddetta «coesistenza culturale» e il
«settarismo inquisitorio della intransigenza ideologica».
L'intervento di luglio
sviluppa con rigore e coerenza non solo culturale, ma politica,
questo insieme di tesi. E spiega,ci pare, le sue scelte successive a
quella che, storicamente, rimane la grande crisi
degli intellettuali
comunisti. (Bruno Schacherl)
Se, oltre il dibattito
politico sulla situazione aziendale (l'intervento si era aperto con
la descrizione del dibattito in corso tra gli operai torinesi dopo la
sconfitta alla Fiat, ndr), ora volgiamo lo sguardo al dibattito più
generale che si svolge nelle nostre sezioni, quello che ha preso le
mosse dal rapporto
Krusciov e che ha per
tema dominante quello della democratizzazione del partito, vediamo
che anche lì i problemi politici si presentano a noi come problemi
di studio, di conoscenza, di teoria, di creazione. Ecco perché oggi
pensare a un problema culturale che non sia un problema politico è
assurdo. Queste sono le battaglie alle quali oggi teniamo. In tutta ,
dedicandovi tutte le ore libere da impegni di lavoro, gli
intellettuali comunisti e di sinistra non fanno che discutere di
questi problemi,
fanno le ore piccole,
viaggiano da una città all'altra per discuterne.
Passando invece al nostro
lavoro di commissione culturale, si ha un'impressione di pallore, di
assenza di idee, di inadeguatezza ai tempi. La relazione di Alicata
ne è stata uno specchio fin troppo fedele. Nel dibattito sul
“Contemporaneo” si era comincialo a delineare qualcosa di molto
prezioso: e cioè non solo un elenco di temi e di campi in cui la
cultura marxista non aveva ancora agito ed era urgente che
intervenisse, pena il nostro restare esclusi dalla intelligenza
stessa del mondo contemporaneo, ma anche i nuovi modi in cui il
partito ha bisogno di questa ricerca culturale, i modi in cui, a sua
volta, questa ricerca culturale ha bisogno della organizzazione da
parte del partito. Le indicazioni in questo senso mi sembra che non
siano state confuse, sono state anzi molto omogenee. Si può
sottolineare il disordine del dibattito: ma il compito della
direzione di un dibattito e quello di fermarsi su quello che c'è di
chiaro, non su quello che c'è di confuso. E di chiaro c'è oggi il
fatto che viviamo in un grande e creativo momento del nostro
movimento, un momento rivoluzionario. Oggi, soffermarsi sui lati
negativi diventa una scusa per il proprio immobilismo.
Io penso che - ritorno al
dibattito sul “Contemporaneo” - compito della direzione del
dibattito era appunto di sottolineare questo, e niente di tutto
questo si è fatto. La nostra direzione culturale ha dimostrato qui
una totale inettitudine, una insipienza madornale. Non è che il
dibattito sia stato sbagliato: è mancata la direzione, la quale è
stata al di sotto di ogni livello immaginabile. Gli interventi più
interessanti e nuovi battevano sulla necessità di estendere nostro
studio marxista ai problemi che vanno dalle nuove forme di
capitalismo alle ricerche sociologiche, tutti temi strettamente
legati alla lotta politica, e che hanno bisogno, per essere
sviluppali, non tanto di una ricerca individuale, quanto di una
organizzazione di ricerca, ossia di una direzione. Non nel senso
ormai superato, ormai remoto, che ancora pare abbiano in testa certi
compagni, di qualcosa che deve tenere per mano i ricercatori, non
come contrapposto alla libertà, ma come un fornire gli strumenti, la
possibilità stessa della ricerca.
Il “Contemporaneo”,
la commissione culturale centrale che ha tenuto il dibattito sotto la
sua tutela, non hanno fatto nulla di tutte le cose che dovevano fare
per mettere a fuoco il dibattito, per fare sì che continuasse, che
si sviluppasse, che desse frutti (Trombadori, interrompendo: «Cosa,
per esempio?»). Per esempio: incanalare alcuni temi di discussione,
dire: i temi più importanti sono questi qui, formiamo dei gruppi di
studio, prepariamo delle bibliografie ragionate su alcuni argomenti,
o anche semplicemente facciamo una rassegna di quelle che sono le
opinioni venute alla luce.
L'articolo che ha chiuso
il dibattito, e mi dispiace essere il primo a dirlo, resterà a
vergogna dei compagni dell'attuale commissione culturale. È un
seguito di frasi ridicole, di enunciazioni di un liberalismo informe
di cui non sappiamo che cosa fare. Questo rimandare ciascuno agli
studi individuali, e vinca il più degno: queste professioni di fede
di una genericità totalmente retorica, sono una chiusura che non è
una chiusura. Non è nemmeno un soffocamento di determinate con
determinate altre idee: è un nulla, è un insulto a tutti quelli che
hanno partecipato. È come dir loro: beh, vi abbiamo fatto un po'
sfogare, ma di tutto quello che avete detto non ce ne frega niente,
adesso andate, non siamo neanche stati a sentire. Quell'articolo è
un insulto a tutti coloro che si sono presi a cuore la ripresa degli
studi marxisti in Italia.
È sbagliato dire che
abbiamo avuto delle direzioni culturali nazionali peggiori. Il fatto
caratteristico di questo momento è la smisurata sproporzione tra le
possibilità e necessità del momento e la capacità di direzione del
compagni che sono oggi alla testa del nostro lavoro culturale. È un
momento in cui il marxismo per sua forza propria, non per merito
nostro, torna ad essere forte più che in qualsiasi altro periodo,
ideologia-guida di tutta la cultura mondiale. Stanno sorgendo forze
intellettuali nuove che si muovono verso il marxismo e sentono il
bisogno di lavorare per inserire il loro lavoro culturale nel
movimento del rinnovamento sociale. Sono persone che non aspettano
altro
che noi diamo loro modo
di collaborare alla ricerca di quel qualcosa che a loro come a noi
sta a cuore sopra ogni altra cosa, capire come riusciremo a fare il
socialismo. Cosa stiamo facendo per queste forze, perché non entrano
nel partito? Perché sentono il fascino del nostro movimento su scala
storica mondiale, ma non il fascino di noi come partito, come
organizzazione? È tempo che affrontiamo il problema delle nuove leve
culturali.
È un problema grave, si
usa parlare molto di generazioni in questi tempi, facciamo attenzione
che il comunismo non diventi quello che è stata la posizione di una
generazione di intellettuali italiani, senza stabilire una continuità
con quelli che vengono dopo. Far entrare una generazione nuova vuol
dire anche soddisfare le esigenze nuove che essa porta: vuol dire
cambiare, ringiovanire. Così come il partito non ci ha soltanto
insegnato, ma ha anche fatto sue le nostre esigenze, si è
ringiovanito in noi. Cosa chiedono oggi gli intellettuali nuovi al
partito? Chiedono la libertà? Ma la libertà è la condizione prima
di ogni attività creativa, nella politica come in qualsiasi attività
culturale. Per qualsiasi atto del nostro pensiero abbiamo prima di
tutto bisogno di sentirci liberi. Se una volta avevamo delle
obiettive, storiche limitazioni alla nostra libertà, più che
giustificarle, allora le negavamo in noi stessi, le rimuovevamo da
noi. Non potevamo neanche ammettere per un momento di non essere
liberi.
Oggi tante cose che ci
erano difficili, che adombravano la nostra coscienza, si vanno sempre
più chiarendo; tante cose alle quali non volevamo pensare, perché
pensare voleva dire respingerle o accettarle come un imperscrutabile
mistero, oggi affiorano alla luce della nostra conoscenza e del
nostro giudizio e il fatto che per noi, i liberatori del mondo, la
parola libertà possa avere qualche ombra, qualche velo, ci pare già
cosa assurda e remota, come se non appartenesse al nostro passalo,
alla nostra esperienza più recente, ma a una sorta di preistoria.
Siamo come d'un balzo diventati adulti; questo ci è successo.
Purtroppo devo dire che
questo ci è successo non come protagonisti di un fatto storico
determinato da noi, dal XX Congresso e da tutto quello che l'ha
preparato. Il nostro cammino autonomo in questo senso è stato troppo
poco, troppo timido, quando non era solo prevedibile, ma sicuro il
corso che prendeva la storia. È chiaro che la ruota della storia non
gira indietro. Il nemico della libertà non si discute, gli si ride
in faccia, lo si seppellisce sotto una sghignazzata. Dico
sghignazzata non dico sorriso di superiorità, non dico sorriso di
leggerezza, siamo di fronte a fatti spesso tragici, certo molto seri.
Non è più una
rivendicazione di libertà che ci muove, è l'esigenza di una
organizzazione efficiente, proprio per rendere fruttuosa questa
libertà, capace di elaborare in tutti i campi una ricerca marxista,
di sollevare vari settori di ricerca, di pianificare i lavori e dare
diffusione ai loro risultati. È un'esigenza particolarmente sentita
in questi anni dai giovani scienziati, i quali ci parlano di lavoro
di équipe, di nuovi modi della ricerca. E invece è ormai
chiaro che la commissione culturale nazionale disprezza questo tipo
di organizzazione della cultura, non intende aiutare i giovani che
vogliono lavorare in questo senso. Perciò la parola d'ordine ormai
in atto tra i giovani comunisti è quella di agire al di fuori dalla
commissione culturale, di organizzarsi autonomamente, di formare
gruppi di studio, se è possibile di pubblicare i loro risultati, per
tenere informati i compagni e i colleghi del loro campo e di tenersi
legati il più possibile alle proprie organizzazioni di partito.
Perché questo è il
problema fondamentale, e non basta riconfermare tesi giuste quanto si
vuole ma che si possono rendere operanti solo sul terreno della
pratica e della organizzazione. Una politica della cultura non deve
essere una politica degli intellettuali dall'alto di una sfera
avvolta di nuvole, separata dalla politica vera e propria del
partito. Noi vogliamo, non direi culturalizzare che è una parola
brutta, scientificizzare il partito, dotarlo di tutti gli strumenti
di ricerca, di studio, di analisi, di previsione, di conoscenza
storica che gli sono indispensabili, pena il mancare il suo compito
di oggi, pena perdere il contatto con la realtà, avviarsi sulla
china della decadenza. Le attività culturali corporative, come
queste che siamo andati facendo, sono importanti, non voglio negarlo.
Ma ora il fatto dominante è la nostra atmosfera culturale,
l'atmosfera di partito. Occorre dotare gli organi di partito di
organismi di studio per l'analisi della realtà e per lo studio delle
prospettive del socialismo, da compiere insieme intellettuali
specialisti, dirigenti politici, lavoratori, dai compagni tutti,
ognuno facendo la sua parte. Questo vuol dire fare l'intellettuale
collettivo, è questa la via che Gramsci sperimentò prima nella
pratica e poi teorizzò, è questa la via che noi dobbiamo realizzare
concretamente e non più
indicarla soltanto a parole.
Dopo aver condotto una
durissima polemica contro l'arretratezza del partito nel campo degli
studi economici - “La classe operaia fiammeggia di indignazione
contro i compagni che sono venuti meno al loro compito... Hanno
sbagliato, paghino» - e portato esempi delle nuove esigenze della
ricerca culturale, l'intervento così prosegue.
Forse vi state domandando
perché sto parlando io di queste cose, e mo la sto prendendo tanto
calda per problemi che riguardano sociologi, tecnici, economisti,
scienziati, filosofi e storici, mentre io faccio - si dice - lo
scrittore. Ebbene, io sono uno scrittore quando scrivo, comunque sono
uno che si interessa e crede nella letteratura e ha la letteratura in
cima ai suoi pensieri. Ma mi interessa l'ambiente culturale da dove
la letteratura deve nascere e ho il più totale disinteresse per
l'ambiente culturale tradizionale. Penso che soltanto in un mondo di
interessi culturali nuovi nascerà l'esigenza di una letteratura
nuova, a cui noi o altri saranno capaci di partecipare creativamente,
comunque, come intellettuali comunisti. È l'ambiente culturale nuovo
che dobbiamo creare. Per questo do la mia voce a esigenze che da
tanti anni sento proporre da studiosi e da operai in mezzo ai quali
mi piace lavorare, anche se io, nella mia genericità letteraria,
sono poco preciso e so mettere in luce solo gli aspetti più vistosi
e patetico-moralistici. È questo ambiente che mi sta a cuore, non
tanto le definizioni di realismo. Mi pare che tra i dibattiti di cui
ha parlato Alicata l'unico dibattito teorico è stato quello sulla
definizione del realismo. Ora io credo che se si parla di metodologia
estetica sia ancora un discorso serio, ma questi discorsi sulla
definizione del realismo credo che saranno ricordati in un prossimo
futuro come le discussioni sul sesso degli angeli, come un diversivo
ideologico. È giusto fare delle ricerche di estetica ma di ricerche
del realismo ce n'è una sola: è realismo quello che manda all'aria
le ultime formulazioni teoriche su questo argomento.
Infine, dopo una serie
di proposte sui compiti della commissione culturale nazionale e di
specifiche critiche alla direzione del «Contemporaneo»,
l'esplicita, durissima conclusione dell'intervento.
Le conclusioni sono mollo
amare. È giunto il tempo di dirsi che fare tutte queste cose non è
solo questione di indirizzo, è anche questione di uomini. Gli
attuali dirigenti della nostra politica culturale hanno dimostrato di
non volere o di non sapere mettersi su un terreno nuovo. Spesso a
parole sembra, anzi a parole sempre ci mettiamo d'accordo e poi si è
sempre al punto di prima.
Quindi devo esprimere una
mozione di sfiducia verso tutti i compagni che attualmente occupano
posti nelle istanze culturali del partito. Non che cambiando gli
uomini io penso di risolvere tutto o molto, certo che attualmente
questi compagni non riscuotono la fiducia degli intellettuali del
partito e per dirigere, soprattutto per dirigere gli intellettuali in
un momento delicato come questo bisogna riscuotere un minimo di
fiducia. Anche per dirigere un giornale bisogna riscuotere fiducia.
Non è che i direttori dei giornali possano essere eletti
democraticamente con delle elezioni come propone Fortini, sebbene
questo non mi sembra debba far ridere - sarebbe molto bello, forse un
giorno ci arriveremo - però ci vuole un po' di fiducia da parte dei
collaboratori e dei lettori per dirigere un giornale come il
“Contemporaneo”. [...] Per cui io chiedo un rinnovamento di
uomini nella direzione del nostro lavoro culturale.
Compagni, la via della
democrazia di partito è molto dura, quelli che ci dividono in duri e
molli devono sapere che i duri siamo noi che crediamo in una piena
democratizzazione della vita di partito come primo passo necessario
verso la società socialista. Chi cavalca la tigre non può scendere,
dice il vecchio proverbio indiano, molti forse saranno scalzati da
questa scomoda cavalcatura...
“l'Unità”, 13 giugno
1990
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