Quest'uomo dai baffi
spioventi, dagli occhi chiari e ironici è uno dei personaggi più
compositi dell'Europa tra Ottocento e Novecento. Per la lingua che
usa, Joseph Roth appartiene alla letteratura germanica. Per il mondo
geopolitico che l'ha visto crescere e maturare fa parte dell'Impero
austro-ungarico. Per la città che lo vide nascere, nel 1894, e cioè
Brody, in Galizia, oggi sarebbe cittadino sovietico. Per il sangue
che gli circolava nelle vene, per il midollo del suo spirito e della
sua sensibilità, è un figlio del popolo ebraico. Per il paese che
lo ospitò in esilio (dopo che l'avvento di Hitler lo aveva fatto
sloggiare nel 1933 da Berlino e nel 1938 da Vienna) e che lo vide
morire, abbrutito e miserabile come un barbone nel 1939, a Parigi,
dovrebbe considerarsi francese.
Anche la sua ideologia è
combattuta e cangiante. Il suo disperato assillo verso il meglio gli
fa prima cercare la palingenesi dell'umanità nella rivoluzione
bolscevica, magari adattata al più duttile umanesimo europeo. Ma un
Viaggio in Russia» (questo il titolo di un suo libro),
compiuto nel1926 gli fa vedere con forte anticipazione, che
quell'esperienza è già sulla via della fossilizzazione autoritaria
e burocratica. Joseph Roth resta, per qualche anno, un mesto lupo
solitario, un illuminista acuto senza troppe illusioni. Poi si
converte, e sul serio, al cattolicesimo. Ma in politica ne fa un uso
funerario, rimpiangendo un passato ormai ben morto, ancorché
affascinante: quello degli Absburgo e del loro bicipite impero.
Così, come scrittore,
inizia ai confini dell'avanguardia, muovendosi in ambito ancora
espressionista. Tra il 1923 e il 1929 pubblica romanzi di acerba
critica sociale, rappresentando in forma franca, scheggiata,
sarcastica il crollo dell'illusione liberale e borghese, lo scoppio
quasi liberatorio ma anche apocalittico della guerra e della
rivoluzione, l'inizio di quel terremoto planetario che è la grande
crisi. Gli italiani, questo Roth prima maniera, volterriano e insieme
biblico-profetico, l'hanno conosciuto più tardi, ma è forse qui che
egli ci ha dato le sue note più pungenti. Parlo di libri come Hotel
Savoy, La ribellione, Fuga senza fine, Zipper e
suo padre, Destra e sinistra.
Poi inizia il Roth numero
due, e siamo ai titoli celebri o celeberrimi: Giobbe, La marcia di
Radetzky, Tarabas, I cento giorni, Confessioni di un assassino, II
peso falso, La cripta dei cappuccini, La milleduesima notte, La
leggenda del santo bevitore. La religiosità di lui, prima di
sapore laico e politico, un profetismo soprattutto del rinnovamento
sociale, ora non solo si àncora alle sue nuove certezze
cattolico-absburgiche, ma opera un intenso recupero del suo fondo
ebreo, chinandosi con infinito amore su chi vive o viveva nei ghetti
dell'Europa orientale.
Se nella fase precedente
Roth faceva pensare ai ritmi futuristici, ai sassofoni del jazz, ai
rombi delle fuoriserie, ora egli manifesta la sua vocazione a essere
l'ultimo discendente di Flaubert e di Tolstoj, un narratore di grande
o sommesso respiro epico. La sua «musica» adesso è quella
struggente delle liturgie ebraiche, quella solenne dei corali
barocchi, quella trascinante delle marce militari, o del valzer,
magari il più triste e mortuario di tutti i valzer possibili.
“L'Europeo”, 9 maggio
1987
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