L'altro giorno, su
“Repubblica”, Saviano ha raccontato una mostra newyorkese dedicata
a Robert Capa, il reporter del Novecento. Posto qui una parte
dell'articolo. (S.L.L.)
Capucine in un ritratto di Robert Capa |
I suoi scatti più noti
sono ormai proprietà della memoria di tutti: il miliziano anarchico
colpito a morte nella guerra di Spagna, la sua foto forse più
citata, le madri in lutto intorno alle bare dei ragazzi del liceo
Sannazaro morti combattendo i tedeschi nelle Quattro Giornate di
Napoli. Le immagini sfocate dello sbarco in Normandia, quelle a cui
Spielberg si ispirò per la sequenza iniziale di Salvate il
soldato Ryan. Foto per definizione in bianco e nero. Per questo
la mostra "Capa in Color" allestita qui per celebrarne il
centenario rappresenta una sorta di shock visivo.
Prima di tutte c'è
quella, incredibile, di Capucine, donna bellissima e sfortunata,
morta suicida a sessantadue anni. Incredibile perché standole
accanto senti le sue narici respirare. Il mento posato sul pugno, la
luce di Piazza di Spagna, la camicia rossa. In quello scatto sembra
esserci già tutto il suo destino, ed è la prova dell'arte di Capa
che con il suo occhio, con il suo sguardo unico fonda un genere
letterario.
La mia formazione, tutto
ciò che ho scritto e tutto ciò che hanno scritto gli autori che mi
hanno influenzato, discende direttamente da lui. Il neorealismo
letterario, iconografico e cinematografico si è nutrito di Robert
Capa. Di questo fotografo che arrivava a stento al metro e sessanta
ed è raccontato dalle biografie come indomito amante, cronometrico
nello sparire quando l'amata mostrava di volerglisi legare in un
progetto di vita assieme. [...]
Il suo modo di scattare
non è denuncia, non è indignazione, non è scelta d'arte, ma è
tutte e tre queste cose insieme. E può esserlo solo perché il suo è
uno sguardo che compromette, immerso nella vita, che della vita si
bagna e si sporca. Che della vita non ha paura. Che dell'uomo non ha
paura. "Se le tue foto non sono abbastanza buone vuol dire che
non eri abbastanza vicino", recita la sua massima più famosa.
Stare dentro le cose. Le foto di Capa a colori mostrano proprio
questo: che lui non è in guerra ma è dentro la guerra, è tra i
soldati, talmente vicino da rischiare la pelle. E questo vale per
ogni sua fotografia. Anche per quando fotografa Truman Capote a
Ravello, o Martha Gellhorn mentre passeggia tra le rovine del tempio
di Cerere a Paestum. È dentro tutto ciò che fotografa. Dentro tutte
le persone che fotografa.
I suoi scatti gli sono
costati odi eterni, profondi. Non è mai stato perdonato per la foto
del miliziano anarchico, sulla cui inautenticità esiste un'intera
letteratura. Così come non gli sono mai state perdonate le foto a
colori dell'Urss stalinista pubblicate con i testi di John Steinbeck,
detestate dai comunisti perché anticomuniste e dagli anticomunisti
perché filocomuniste. Qualunque foto facesse sapeva che avrebbe
smosso reazioni istintive. […]
Sulla rivista Holiday
Capa scrive: "Sono tornato a fotografare Budapest perché mi è
capitato di essere nato lì; ho avuto modo di fotografare Mosca che
di solito non si offre a nessuno; ho fotografato Parigi perché ho
vissuto lì prima della guerra; Londra perché ho vissuto lì durante
la guerra; e Roma perché mi dispiaceva non averla mai vista e avrei
invece voluto viverci".
Aveva imparato da Gerda
Taro, che fu sua compagna. Gerda morì a ventisette anni, investita
da un carrarmato "amico" del Fronte Popolare Repubblicano.
Stava guardando in camera mentre era sul predellino di un mezzo
militare. Urtato, lei cadde e finì sotto i cingolati. Anche Robert
Capa nel 1954 in Indocina stava guardando in camera. Aveva deciso di
anticipare una colonna militare francese mentre avanzava. Andò su un
terrapieno. Indietreggiando mise il piede su una mina. Gerda e Robert
non avevano messo alcuna distanza tra loro stessi e i soggetti delle
loro foto. […]
“la Repubblica, 13
aprile 2014
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