Casilino 900. Foto di Luciano Sansone (da www.unacittà.it) |
Nel 1936 la creazione
di un campo per zingari nei pressi di Berlino inaugurò la politica
dei lager nella Germania nazista. Oggi i pogrom slovacchi impongono
di interrogarci sul futuro dell’Europa.
Casilino 900. Foto di Luciano Sansone (da www.unacittà.it) |
C’è qualcosa in più
della suggestione, se a leggere le storie di rom raccolte da Bianca
Stancanelli in La vergogna e la fortuna (Marsilio) vengono
alla memoria alcune scene di Brutti, sporchi e cattivi di
Ettore Scola. Quello che la burocrazia del Campidoglio aveva definito
come «insediamento spontaneo», la gigantesca baraccopoli romana che
non faceva onore alla peggiori periferie del mondo e che prendeva il
nome dal numero civico e dal nome del quartiere, il Casilino 900
insomma, era sorto per iniziativa delle migliaia di meridionali che
arrivavano a cercar fortuna nella capitale. Siciliani e calabresi,
napoletani e pugliesi come il Nino Manfredi del film di Scola,
rimpiazzati con il passare degli anni da bosniaci e macedoni,
montenegrini e kosovari. A formare il più grande e terribile campo
rom d’Europa, il ghetto per eccellenza, filmato, fotografato,
studiato, vivisezionato da architetti e urbanisti, antropologi e
fotografi, giornalisti e videomaker.
Ma sarebbe troppo poco, e
perfino banale, affermare che gli zingari di oggi sono i meridionali
di ieri, e che i primi vivono oggi sulla loro pelle il razzismo che
un tempo spettava ai secondi. Si attaglia forse a entrambi quello che
ha scritto il filosofo francese Étienne Balibar a proposito di
quella «comunità senza Stato» costituita dai rom: la condizione di
«capri espiatori», su cui si scaricano i risentimenti e i sospetti
reciproci degli appartenenti alla comunità.
Oggi che il Casilino 900
è stato smantellato, la questione degli «zingari», «nomadi» o
«gitani» che dir si voglia rimane tutta in piedi: in ventimila
vivono ancora nei campi, organizzati o spontanei, di tutta Italia, e
gli abitanti del Casilino sono stati sparpagliati nelle altre
periferie cittadine, molti di loro deportati a Salone, in pieno agro
romano, lontano da tutto e vicini solo al raccordo anulare.
Soprattutto, quello che
non accenna a tramontare è il pregiudizio, che spesso e volentieri
sconfina nel razzismo: i rom «rubano», rapiscono i bambini, non
accettano di andare a vivere in una casa che non abbia quattro ruote
per spostarsi, non si vogliono integrare.
Non che sia una
prerogativa italiana, se si pensa alla campagna di espulsioni di
massa escogitata lo scorso anno da Sarkozy in Francia solo per
ragioni di consenso politico. Ma quantomeno oltralpe quello che in
Italia è avvenuto nel silenzio e a volte con il consenso dei
cittadini ha provocato una mobilitazione straordinaria in difesa dei
diritti dei rom e una discussione pubblica di alto livello.
Per un Étienne Balibar
che sottolineava «la tendenza delle nazioni europee a proiettare sui
rom i pregiudizi verso le altre nazioni», un altro filosofo come
Jacques Rancière è andato in piazza a Montreuil a spiegare che il
razzismo è sempre e solo di Stato.
Stancanelli oggi, in un
lavoro che aggiunge una gran dovizia di informazioni alle storie di
vita che ci racconta, fornisce un’altra felice metafora: quella del
popolo-termometro, che «misura la febbre della società». E se è
vero che nel 1936 la creazione di un campo per gli zingari nei pressi
di Berlino inaugurò la politica dei lager nella Germania nazista,
che dopo il crollo del Muro di Berlino i roghi dei villaggi rom in
Romania delinearono il futuro dei paesi dell’est, oggi che in
Ungheria l’estrema destra di Jobbik propone i campi di lavoro per i
gitani e che in Slovacchia si susseguono i pogrom dei villaggi rom,
viene da chiedersi quale sia lo stato del continente in cui viviamo e
cosa ci aspetta nell’immediato futuro.
Il libro naturalmente non
ha alcuna intenzione predittiva, piuttosto prova a farci conoscere da
vicino, raccontandoci delle storie esemplari, la minoranza più
discriminata del nostro paese, senza alcun intento «buonista» né
voglia di tirare alcuna morale ma smontando pregiudizi e luoghi
comuni. Lasciando intendere, alla fine dei conti, che de nobis
fabula narratur, non di altro.
“il manifesto”, 8
novembre 2011
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