5.4.14

Le due città di Luigi Ciotti (S.L.L.)

Luigi Ciotti alla "Domus pacis" di Santa Maria degli Angeli (Assisi)
Ieri pomeriggio sono stato a Santa Maria degli Angeli di Assisi. Alla “Domus pacis”, una bella struttura annessa alla Porziuncola, parte dell'immenso patrimonio della Chiesa di Roma, si svolgeva il terzo ed ultimo degli incontri organizzati per il mondo della scuola dalla Conferenza Episcopale Umbra, che – a sei mesi dalla visita ad Assisi del Papa argentino – ne hanno celebrato i passaggi, cercando di rilanciarne i messaggi.
L'incontro di ieri sera ricordava la sosta del papa nello spazio in cui si ritiene avvenuta la “spoliazione” di Francesco d'Assisi: lì Bergoglio non aveva fatto riferimento solo alla opportunità, per il mondo ecclesiastico, di uno stile di vita più sobrio, più in linea con la povertà di Cristo e del santo, ma alla spoliazione di milioni e milioni di donne e uomini, alla povertà spesso assoluta cui essi vengono costretti in un mondo che ha come suo motore la finanza, l'accumulazione del denaro. 
Gli incontri organizzati dalla Pastorale per l'educazione della Conferenza episcopale umbra hanno avuto forma di colloquio o intervista con i testimoni della fede cattolica e quello di ieri aveva come protagonista il prete Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele e presidente di Libera, in quanto tale mio presidente. Il piacere di ascoltarlo e salutarlo è una delle ragioni per cui sono andato, un'altra è la curiosità per quello che il nuovo papa sembra aver messo in moto nella istituzione che governa da monarca assoluto.
Ad intervistare Ciotti era Mario Tarquinio, direttore de “l'Avvenire”, voce ufficiale dei vescovi italiani, il quale non si è rassegnato al compito che gli era stato affidato e ha voluto anche lui dare testimonianza, raccontando dei suoi trascorsi di giornalista del “Tempo”, degli incontri con i barboni, delle scelte e delle campagne controcorrente che il giornale sviluppa, oltre che dei temi specifici dell'incontro: povertà vecchie e nuove, sobrietà negli stili di vita eccetera. Alla fine ha parlato più l'intervistatore che l'intervistato, il quale – peraltro – nonostante le esche che Tarquinio lanciava non ha mai abboccato e ha difeso le sue scelte con una punta d'orgoglio.
Così, quando Tarquinio chiedeva se alla base dell'attuale situazione di crisi non ci sia stato un eccesso nella rivendicazione di diritti a scapito dei doveri, Ciotti rispondeva che i diritti costituzionali al lavoro, alla salute, all'istruzione, insomma a una vita e dignitosa di tutte le persone, devono essere difesi e garantiti in primo luogo dallo Stato e non affidati alla “beneficenza”; che caso mai bisogna affermare un principio di responsabilità, l'assunzione da parte di ciascuno della sua parte di oneri per il bene comune. Ancora di più egli ha difeso il carattere non confessionale del proprio impegno: ha dichiarato – come più volte in passato – che i suoi testi di riferimento sono il Vangelo e la Costituzione, ma senza indicare una gerarchia, e ha più volte sottolineato che il gruppo Abele, le Comunità d'accoglienza, Libera, sono imprese “civili”, che egli realizza insieme ad altri, senza distinzioni di fede religiosa o convinzione filosofica, come cittadino tra cittadini. Parallelamente – com'era logico in un incontro religioso – Ciotti ha rivendicato il suo essere pienamente e fino in fondo prete cattolico. Da qui la citazione puntuale di atti, testi ufficiali e prediche dei papi, da Paolo VI a Giovanni Paolo II, a Francesco, ai quali si è sempre ispirato, come pure il ricordo delle preghiere che egli rivolge al suo dio, considerato “azionista di maggioranza” di tutte le buone opere da lui compiute, per ottenerne le "pedate", la spinta all'agire. Insomma, con le prudenze di linguaggio dettate dal contesto, Ciotti ha voluto dimostrare come, con tutte le difficoltà e gli adattamenti che la cosa comporta, si possa essere “cittadini di due città”, della città di Dio e della città degli uomini. Tralascio qui di riferire altri contenuti, anche importanti, del suo dire come la denuncia del disagio sociale e dei responsabili di tante dolorose ingiustizie tra i potenti della terra, come le battaglie affrontate con successi e sconfitte, come le campagne di Libera in corso di svolgimento.
Alla fine della riunione una compagna che ha fatto a lungo la maestra elementare mi dice: “Insomma solo loro ormai fanno qualcosa, si impegnano, reagiscono all'ingiustizia”. “Loro” sono, in questo caso, i preti e i cattolici impegnati nelle istituzioni ecclesiastiche. E' un'amichevole provocazione: mi conosce come ateo militante, convinto che le superstizioni religiose (comprese quelle dei cattolici) siano un ostacolo ad una condizione umana meno infelice e siano spesso strumento di oppressione, e come anticlericale, ostile cioè al potere e ai privilegi dei sacerdoti, depositari esclusivi e specializzati del sacro nel cristianesimo cattolico e in altre confessioni. Rispondo con un secco “no”, ma non c'è tempo per argomentare. Lo faccio adesso.
E' certo che "qualcosa" i preti fanno, ma le attività caritatevoli della Chiesa non sono una novità e non è solo a quelle che la mia amica si riferiva, quanto al protagonismo nella denuncia delle ingiustizie sociali, che prima era dei partiti nati dal movimento operaio. A me in verità sembra che in Vaticano l'attuale crisi economica, che viene dopo l'apparente fallimento dell'esperimento comunista e nel pieno di una mutazione genetica delle socialdemocrazie  sia vissuta da molti come una grande occasione per la riconquista (loro dicono rievangelizzazione) dell'Europa. Culla del cristianesimo e del cattolicesimo il continente aveva conosciuto la critica dissacrante dell'illuminismo e, più di recente, pervasivi processi di secolarizzazione, ma ora che la crisi e le scelte che la governano sembrano mettere a rischio con lo stato sociale il relativo benessere dei ceti popolari, ora che avanzano processi di pauperizzazione, forme di degrado sociale, sofferenze di massa, al clero cattolico si apre un amplissimo campo di intervento. 
La fine dell'Urss sembra infatti aver travolto ogni soggettività proletaria e non soltanto il movimento comunista, e sembra collocare nella sfera delle utopie l'idea che le classi sfruttate, subalterne e disagiate, organizzate politicamente in maniera autonoma dalle classi dominanti, possano costruire un ordinamento sociale non più segnato dallo sfruttamento capitalistico e dall'oppressione dell'uomo sull'uomo. I partiti che sopravvivono al cataclisma dell'Ottantanove, anche quando conservano nomi come “socialista”, “laburista” e perfino “comunista”, sono simulacri di quello che furono: i loro gruppi dirigenti non si concepiscono e non sono concepiti come rappresentanti del movimento operaio e del mondo del lavoro ma come politicanti in competizione sul mercato elettorale per il governo, un governo a cui peraltro è stato sottratto molto potere, che oggi è tornato in capo al capitale, insofferente a regole e restrizioni. Da questa mutazione genetica si originano trasformismo, carrierismo, corruzione più o meno diffusa e profonda.
In questo nuovo panorama, che di fatto ha azzerato la forza del lavoro subordinato, sottoposto a una generalizzata precarizzazione e a una sottrazione di diritti, la gerarchia cattolica ritiene di potere recuperare prestigio e potere, ponendosi alla difesa della povera gente nei confronti del potere politico ed economico. Il suo disporre di una struttura piramidale, di una organizzazione capillare, di una grande ricchezza, di privilegi accordati nel tempo dagli Stati, la pongono in grado di candidarsi in esclusiva a questo ruolo in molti paesi del Vecchio Continente ("ormai soltanto loro..."). La scelta a Papa di un Vescovo sudamericano e gesuita, senza aspettare la morte del suo predecessore,  si spiega con l'intenzione di cogliere la grande opportunità offerta dall'acutizzarsi della crisi del capitalismo.
Nel mondo latino-americano, infatti, terra di grandi povertà nonostante alcuni recenti progressi civili e sociali, la Chiesa, anche nei vertici, si è progressivamente sottratta all'abbraccio soffocante dalle ristrette oligarchie proprietarie e militari dominanti, quasi sempre asservite all'impero yankee, e ha saputo assumere un ruolo di mediazione interclassista, di intervento sociale e di assistenza verso i più bisognosi, dai bambini delle favelas alle tribù indigene a rischio di estinzione. La Teologia della Liberazione, fondata sull'idea che i poveri potessero essere la forza guida, i protagonisti del loro stesso riscatto, è stata con elasticità o emarginata o annacquata: in realtà per il cattolico non sarà mai il popolo la voce di Dio, ma la Chiesa, cioè il clero. C'è – oggi – una cooperazione-competizione delle Chiese latino-americane con il nuovo, ideologicamente composito, socialismo di quel subcontinente. Il mondo cattolico riesce a mantenere una certa unità perfino in contesti infuocati come il Venezuela: al suo interno convivono, reciprocamente tollerandosi, preti, frati e monache chavisti e antichavisti, ad maiorem gloriam domini.
Bergoglio è stato tra le guide di questi processi. Per di più è gesuita, membro cioè della Compagnia che dalla Cina al Sud America più si impegnò nelle missioni per affermare fin dal Seicento una chiesa “globalizzata” e che in Europa al meglio interpretò la Controriforma come Riforma cattolica, cioè non come reazione dogmatica e repressiva, a volte feroce, alla diffusione del protestantesimo, ma piuttosto come riorganizzazione interna, che comportava, a tutti i livelli del clero, stili di vita e pubblici comportamenti non assimilabili a quelli dei grandi signori laici. I gesuiti duramente educavano, con disciplina militare e molta dottrina, i quadri superiori e intermedi della Chiesa: l'unzione e l'immagine compunta che li caratterizzava (al punto da apparire finzione, per l'appunto, “gesuitica”) erano un messaggio e un esempio per tutti i quadri della organizzazione ecclesiastica. 
Il modello scelto in Vaticano per una ripresa del cattolicesimo in Europa ricorda proprio la Chiesa del Seicento, epoca oligarchica, tempo di “signori” in cui il clero non era alieno dalla caccia alle streghe, ma assumeva tra i propri compiti il proteggere i ceti popolari e faceva pesare questa sua funzione nei rapporti con il potere laico. Non credo siano necessari molti esempi: fa parte del bagaglio culturale di tutti I Promessi Sposi e ognuno si rammenta del padre Cristoforo e di don Abbondio, del Padre provinciale e del cardinale Borromeo, tipologie di un potere che talora per viltà o necessità deve piegarsi, ma che, quando occorre, si fa forte del legame con quel popolo minuto che protegge e assiste. Quello che, per i preti, andava e va sempre impedito è che i poveri (oggi i proletari) ritentino un qualche assalto al cielo, lottando in prima persona per una nuova società. Vale anche in questo caso il paradigma manzoniano: quando Renzo cessa di affidarsi agli uomini di Chiesa e decide di passare direttamente all'azione per avere “finalmente giustizia in questo mondo”, le cose per lui vanno in malora. Per dirla con il nostro gergo di marxisti il progetto culturale vaticano è "mai più autonomia operaia e proletaria".
Il Bergoglio lavora (e l'impressione che dà è di crederci fortemente) per una Chiesa all'altezza di questo compito: rifiuta i lussi ed esige, dando l'esempio, che il clero pratichi o almeno mostri sobrietà, rampogna un potere economico e politico spesso ingordo e corrotto, pretende attenzione per i più deboli, incoraggia e benedice la capillare presenza della Chiesa nella società, anche quando si manifesta in forme contraddittorie (il privato sociale un po' affaristico e integralista di Cl esaltato a Perugia dal neocardinale Bassetti e l'impegno antimafia “civile” e “laico” di don Ciotti). Tutto può servire alla ripresa di una egemonia sui ceti popolari, egemonia che, del resto, anche in altri tempi i preti avevano esercitato, assai prima che Antonio Gramsci codificasse il concetto teorico.
Un altro commento ho sentito da un giovane non cattolico presente alla Domus pacis di Santa Maria. A lui Ciotti è piaciuto, ma non la sua insistenza sugli uomini di chiesa uccisi dalle mafie, don Puglisi e don Diana. Gli ho detto: “Parlava in un ambiente di frati e preti, in altri contesti avrebbe citato Borsellino, Dalla Chiesa o Pio La Torre”. Ma quel che il ragazzo non ha gradito, più che la scelta dei nomi dei martiri, era l'implicita esaltazione del sacrificio di se stessi, del martirio. Non so dargli del tutto torto: il martirio, cioè “il testimoniare una verità fino alla morte”, è tra i fondamenti dell'agire cristiano, mentre anch'io - come il mio interlocutore - preferisco chi si impegna a cambiare le cose con il desiderio di campare meglio e di far campare meglio anche gli altri, pur mettendo nel conto i rischi che può correre scontrandosi con poteri forti e violenti. Mi pare comunque inevitabile che l'approccio alla realtà tra chi è materialista e chi crede nell'immortalità dell'anima sia diverso; il che non impedisce affatto una proficua collaborazione su tante cose. 
Quanto a me, nel mio piccolissimo, tenterò di evitare che dell'impegno mio e di quello dello stesso Ciotti si avvantaggi la potente struttura ecclesiastica (in “Libera” ci sono tanti cattolici e non cattolici che vogliono mantenere ferma la distinzione). Sotto sotto mi auguro  anche che il nostro presidente prima o poi la smetta di dare credito all'esistenza dei diavoli, ai miracoli di padre Pio e alla resurrezione dei corpi e si converta a credenze più ragionevoli, come lui – immagino – spera che il Signore illumini e salvi i tanti “miscredenti” che lavorano nell'associazione che con passione e laico carisma egli dirige.

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