A
cura del segretario generale della Camera dei deputati e su
deliberazione dell'assemblea nel febbraio del 1973 venne pubblicato
il primo volume dei discorsi parlamentari di Giuseppe Di Vittorio,
presentato dal presidente della Camera, Sandro Pertini. Il volume
comprendeva i discorsi del 1921-24 e dal '45 al '48. “Rinascita”
pubblicò in anteprima una parte della prefazione scritta da Luciano
Lama, al tempo segretario generale della Cgil, quella che è qui
postata. Luciano Lama non è un dirigente che ho amato e più di una
volta ne trovai le scelte sbagliate, ma il ritratto che qui traccia
di Di Vittorio e del suo ruolo nella storia del sindacato in Italia,
mi pare precisa e suscettibile di arricchimenti e approfondimenti.
(S.L.L.)
Giuseppe Di Vittorio fu
il leader che più autenticamente, nel secondo dopoguerra, portò nel
Parlamento della repubblica le istanze e le aspirazioni direttamente
provenienti dal popolo lavoratore. Di «popolo lavoratore», appunto,
egli preferiva parlare anche se sapeva più esatta scientificamente,
e ideologicamente più penetrante, la nozione di «classe» che gli
veniva dalla sua formazione e milizia comunista. Ma dicendo «popolo
lavoratore», Di Vittorio non faceva dell'oratoria: riteneva
politicamente nobilitante una concezione e una immagine nella quale
la classe operaia non fosse mai isolata, concettualmente in vitro e
socialmente separata.
C'è tutto un bagaglio di
espressioni che, nei discorsi e anche negli scritti di Giuseppe Di
Vittorio, evocano una visione non chiusa e non «operaistica» della
classe e del sindacato stesso. Con questo suo peculiare approccio, Di
Vittorio non intendeva certo operare una diluizione del potenziale
antagonistico di classe, ma renderlo trascinatore di più vasti
strati a cominciare dalle famiglie dei lavoratori per finire ai
gruppi più emarginati, quelli ai quali il movimento operaio rischia
sempre di dare poco spazio e quindi poche prospettive. Per Di
Vittorio era inconcepibile pensare, ad esempio, soltanto ai
lavoratori occupati o ai lavoratori attivi. Nel suo afflato popolare
— mai genericamente solo umanitario — Di Vittorio è stato forse
il dirigente sindacale italiano che più incessantemente ha
combattuto contro il corporativismo (esplicito o mascherato) che
sempre tenta di tare capolino nell'azione sindacale.
Di Vittorio, nella sua
dura esperienza di bracciante, sapeva bene che una unità d'intenti e
di lotta fra l'occupato e il disoccupato può solo esser frutto di
forte ed organizzata volontà soggettiva; oggettivamente, molto
concorre infatti a dividere chi ha un lavoro da chi non ce l'ha.
Ancora più fortemente egli sentiva la divisione del paese fra nord e
sud, fra operai e contadini, e l'esigenza di superarla facendo leva
sulle coscienze per cambiare le strutture, e per questo ripeteva
spesso nei suoi comizi, e senza la minima retorica: «Fratelli
lavoratori!».
In questa tenace lotta a
ogni uso restrittivo della nozione di « classe », cioè ai rischi
di un antagonismo minoritario o di corporativismi latenti, Di
Vittorio staglia la sua figura di dirigente e stabilisce il divario
radicale che lo distingue dal suo predecessore Rinaldo Rigola. Fra i
due leaders della prima CGdL e della prima CGIL, come fra le due
confederazioni, c'è sì una distanza storica ma ancor più una
diversità politica, anche se entrambi furono artefici della nascita
d'uno strumento sindacale unico per tutte le categorie e per tutte le
regioni e se entrambi portarono nel Parlamento la voce di milioni di
lavoratori organizzati. Se Rigola, nel periodo che precedette il
fascismo, fu il simbolo della prima unità di tipo organizzativo,
realizzata dal movimento sindacale in Italia come somma (più
che fusione) delle varie professioni operaie esistenti, Di Vittorio
fu, dopo il fascismo, il simbolo, oltreché il protagonista, della
prima unità realizzata politicamente su un ormai lontano disegno
organizzativo già collaudato e per molti aspetti da superare.
Questa « nascita
politica » del sindacato, questa vera « rinascita » espressa nel
Patto di Roma del 44, aveva per contrassegno una linea di unità
nazionale antifascista che metteva da parte lo spirito categoriale
mediato dalla vecchia confederazione con l'apporto di uomini come
Rigola. La mediazione pre-fascista, nel movimento sindacale, aveva
una caratteristica che si rifletteva anche in Parlamento: c'era uno
scompenso, una contraddizione tra l'invocazione dell'interesse di
classe e la pratica del compromesso riformistico spesso deteriore. Il
sorgere di movimenti e poi di organizzazioni vere e proprie alla
sinistra della CGdL (e Di Vittorio si formò proprio lì), era un
indizio assai chiaro di quella contraddizione. Di Vittorio porta
dunque il rifiuto d'un «classismo» parolaio ma cedevole, tipico di
tutta la II Internazionale, e nella nuova CGIL versa il suo ostinato
convincimento che una lotta fatta solo dalla classe in senso stretto,
non esiste a rigore neppure per l'azione sindacale; e tanto meno per
quella politica che alle alleanze, agli schieramenti e alle
mediazioni complesse di validità sociale è sempre istituzionalmente
rivolta.
Di Vittorio, nel
Parlamento repubblicano, era insomma espressione e fautore d'un
movimento sindacale che nella sua prima fase aveva realizzato una
sommatoria intercategoriale, e che si ripresentava stavolta ai
lavoratori sulla base di un patto politico fra le forze protagoniste
della Resistenza. In ciò, la distanza rispetto all'esperienza della
vecchia CGdL (o della CIL « bianca ») era ancora maggiore. Non c'è
chi non veda, in molte vicende ormai classiche del sindacalismo
europeo, di ceppo anglosassone o continentale, un nesso insistente
fra categorialismo e partitismo. Non alla sola CGdL italiana,
infatti, si può retrospettivamente imputare l'incapacità di fare
uscire le avanguardie operaie dall'isolamento, e di allargare
l'organizzazione al di là del partito elettivo; l'inizio degli anni
'20 è indicativo di limiti storico-politici che soltanto un
mutamento di rotta avrebbe potuto consentire di superare. Il
sindacato che è legato a un partito, la confederazione che subisce
l'egemonia della categoria « forte »: questi sono fenomeni tuttora
presenti, in altre realtà nazionali.
Orbene, Di Vittorio
ereditava un valore, peculiare al movimento sindacale italiano, che
pochi avrebbero potuto mettere a frutto meglio di lui: il carattere
proletario e anticorporativo, unitario e unificante, delle Camere del
lavoro. Questa inestimabile struttura, che precede la nascita della
CGdL e che si emancipò anche dai suoi artefici francesi, era la
principale garanzia del carattere popolare di tutto il movimento. Ai
tempi della vecchia CGdL, questa struttura (e Di Vittorio ne fu uno
dei dirigenti, a Bari e nella sua Cerignola) finì con l'essere
prevaricata dalle potenti e moderne federazioni di categoria, perché
era diventata un terreno di scontro eminentemente politico. Ma
l'intuizione e l'esperienza non potevano perdersi.
Si può dire perciò che
Di Vittorio, come leader del movimento sindacale, si richiamava al
«popolo lavoratore» più che alla classe, non solo per temperamento
ma per precise ragioni politiche e ideali. Impersonava infatti
un'organizzazione che, dopo il ventennio della dittatura, sorgeva
sulle basi di una unità organizzativa collaudata, in cui si
recuperava tutta la virtualità del momento «orizzontale», e di una
unità politica nuova la quale rompeva i vetusti steccati fra
«bianchi» e «rossi» e garantiva la coesione programmatica
attraverso una dialettica anche ideale. Per via strutturale e per via
politica, la CGIL nasceva insomma con una unità vasta, senza
precedenti, che rompeva sia il predominio isolazionistico delle
categorie, più grosse o compatte, sia il legame istituzionale col
partito elettivo, che era da noi — ed è ancora in molti paesi —
il socialista. Il disegno della dialettica aperta (fra correnti
ideali precipitò poi, nel '48, non tanto per suo vizio congenito
quanto e particolarmente per la «guerra fredda» che spingeva da
ogni parte verso le comode tentazioni di tornarsene «ognuno a casa
sua». Ma se la scissione provocata dalle forze ohe non seppero
sottrarsi al ferreo richiamo dell'atlantismo spezzò l'unità della
CGIL nella sua raggiunta compiutezza, l'ispirazione ad una unità
organica — strutturale e politica — non venne meno nella CGIL e
in Di Vittorio, primo a riparlare dell'unità dopo la scissione e a
rivolgersi sempre ai lavoratori di tutte le fedi e correnti
politiche. Per Di Vittorio, anzi, il «popolo lavoratore» era una
entità nella quale l'affinità d'interessi e di ideali non
contrastava con la rispettiva collocazione politica di ognuno, pur
senza arrivare ad una omogeneità teorica di classe.
La CGIL deve molto a Di
Vittorio per aver mantenuto, in tutti quei difficili anni di
discriminazioni verso sinistra, una forza grande, maggioritaria. Ma è
il paese che deve molto a un dirigente come Di Vittorio. Il Piano del
lavoro che con passione egli lanciò nella CGIL nel '50, fu
l'espressione più alta — avrebbe detto Antonio Gramsci —- del
suo essere «popolare e nazionale». Nel senso, tra l'altro, che
l'avversario di classe ne usciva isolato perché l'attacco più
veemente (e Di Vittorio non era né voleva essere «diplomatico»)
veniva sferrato contro coloro che venivano considerati i principali
responsabili di questa situazione.
Di Giuseppe Di Vittorio è
stato detto che era un figlio del popolo, e mai espressione come
questa fu meglio usata. (Il suo lontano predecessore, Rigola, era un
operaio altamente qualificato di vecchio tradizionale mestiere: anche
lui figlio del popolo, ma con un minimo di traguardo sociale già
raggiunto in virtù della acquisita professionalità operaia). Da qui
vengono i suoi tratti umani, che sono peraltro coerenti fino in fondo
con gli orientamenti politici. Di Vittorio si sentiva realmente, non
oleograficamente o paternalisticamente, una parte di quel “popolo
lavoratore”. Rispetto e stima
degli avversari politici
e dei - si dice oggi — partners sindacali, sono unanimi e noti.
Anche quegli uomini che più duramente sferzava con la sua
polemica-infuocata e tagliente, ebbero per lui un apprezzamento
indiscutibile.
I discorsi parlamentari
di Di Vittorio, oltre ai connotati fin qui accennati, consentono di
cogliere un'altra caratteristica dell'uomo e del dirigente.
Autorevole esponente comunista, Di Vittorio aveva del Parlamento,
diciamo così, post-leninista maturala nella seconda metà degli anni
'30. Come politico, egli aveva anzi contribuito ad elaborare una tale
concezione dalle colonne dello Stato operaio a cui lavorò in
Francia. Il Parlamento, dunque, non era soltanto una «tribuna». E
d'altro lato non era solamente una «macchina per legislazione
sociale», com'era stato visto fin dai suoi primi predecessori, i
gloriosi tradeunionisti, Keir Hardie e John Burns. L'attività
parlamentare di Di Vittorio, segretario generale della CGIL, è un
riuscito impasto di iniziativa e di denuncia, di agone politico e di
promozione sindacale. Per esempio, fu Di Vittorio che, fra gli
esponenti della sinistra, diede uno dei maggiori contributi alla
definizione del dettato costituzionale, particolarmente per le
materie sociali (a cominciare dal ruolo conferito al lavoro
nell'articolo 1 e al conseguente diritto di sciopero dell'articolo
40). Ma quando l'offensiva padronale contro il sindacato e le lotte
portò a drammatiche condizioni di illibertà nei luoghi di lavoro,
Di Vittorio fu il primo che nel 52 sentì il bisogno di presentare,
ante litteram, il progetto di uno «Statuto dei lavoratori»
che — come dire — desse forza applicativa al disposto
costituzionale. Sull'altro e parallelo versante, fu Di Vittorio che
recò a tutto il paese, dall'aula di Montecitorio, la proposta
avanzata dalla CGIL ma sostenuta da vaste forze, per quel Piano del
lavoro che affrontasse la gravissima crisi di occupazione in un clima
di concordia nazionale. E non fu la sola volta: nel '52 ci fu anche
l'impegno a sostenere, come movimento sindacale, qualsiasi governo
che si fosse impegnato in un'azione di pace la quale scongiurasse il
pericolo atomico e la svendita della sovranità dell'Italia.
“Rinascita”, 2
febbraio 1973
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