L'articolo, esposizione
sintetica e critica di un'ampia ricerca, è ricco di notizie e
animato da un forte senso storico. (S.L.L.)
Cellule di un cancro al seno (Crafty_dame - Flickr) |
Il cancro,
indipendentemente dal sito e dalla parte, organo o sistema
dell’organismo investito, è una patologia dei tessuti specifica e
sempre identica a se stessa, contrassegnata da abnorme proliferazione
di cellule irregolari che danno origine a una nuova formazione
(neoplasia maligna o carcinoma) e, se il processo
morboso progredisce, da una graduale dislocazione (metastasi)
delle cellule maligne in siti relativamente distanti dal focolaio
principale. La sua malignità è tale da farlo percepire come il
principe incontestato di tutte le malattie, un essere vero e proprio
la cui storia può essere ricostruita alla stregua della biografia di
un eroe malvagio.
È quel che ha fatto
Siddharta Mukherjee, medico e oncologo indiano, docente nella
Columbia University di New York, Premio Pulitzer 2011, in un libro
per molti versi straordinario: L’imperatore del male. Una
biografia del cancro, Neri Pozza, 2011.
L’ipotesi di
Galeno
Il cancro era conosciuto
già nel XIII secolo a.C. dell’Egitto faraonico, ma solo nel V
secolo a.C. i medici greci della Scuola di Cos, fondata da Ippocrate
(460-370 a.C.), ne dettero una descrizione precisa e fu, pare, lo
stesso Ippocrate a chiamarlo karkínos (alla lettera
«granchio» – donde il nostro «cancro» – per la forma assunta
nel suo sviluppo). Proprio dalla scuola di Cos comincia l’indagine
sulla causa della malattia per mettere a punto la cura, ma l’indagine
è disperante. Il tumore maligno non appare come un morbo epidemico,
tale da ipotizzarne la genesi in un male esogeno di natura divina che
«visita» una popolazione (il termine greco epidemía
significa, per l’appunto, «visita a un demo»), ma piuttosto come
una patologia degenerativa apprezzabile soprattutto in individui
anziani e perciò quasi una malattia rara data l’allora
modestissima attesa media di vita alla nascita (24-30 anni).
I tratti degenerativi
tipici del cancro vengono così ricondotti a un fattore endogeno che,
parecchi secoli dopo, il grande medico greco Galeno (128-200 d.C.),
crede di cogliere nella condotta di uno degli umori, la bile nera
(mélaina cholé) che, sovrabbondante, ristagna in una parte
del corpo provocando ora la depressione o melanconia ora il cancro,
ma, talvolta l’uno e l’altra, al punto che, per paradossale che
possa essere, il secondo finisce con l’essere considerato (nella
tarda tradizione galenica) una conseguenza della prima. L’ipotesi
di Galeno si dimostrò comunque del tutto fantastica quando nel
Rinascimento i progressi dell’anatomia evidenziarono la totale
inesistenza della bile nera. La correlazione da lui stabilita tra
cancro e «umor nero» aveva tuttavia un forte potenziale
esplicativo. Metteva infatti in chiaro una verità che sarebbe emersa
solo in epoca recentissima. La causa del terribile morbo va infatti
ricercata non fuori,ma dentro il corpo umano.
A partire dalla seconda
metà del ’700 i casi di cancro presero a moltiplicarsi rispetto al
passato. Come oggi sappiamo, a causa dell’ambiente degradato dei
centri urbani nella prima rivoluzione industriale, il cancro era
ormai diventato una minacciosa presenza. Questa situazione rinverdì,
da un lato, l’immagine medievale del morbo come quella di un mostro
che dall’esterno si avventa sul corpo umano, dall’altro
l’adozione, da parte della medicina istituzionale nel suo
complesso, di una condotta cui si ricorre sempre a fronte di mali la
cui eziologia è sconosciuta: pensare ai rimedi e poi, sulla scorta
delle esperienze terapeutiche, rifarsi a queste per trovare la chiave
per scoprire la causa.
Danni collaterali
A fronte dell’impellente
esigenza sociale di una risposta tagliata sul bisogno, la medicina
istituzionale rispose mobilitando la chirurgia che, ormai non più
arte di barbitonsori, formava chirurghi degni di esser definiti “mani
pensanti”. Protagonista di questa svolta fu tra gli altri il
chirurgo scozzese John Hunter (1728-1793) che, acquisita una grande
competenza di anatomo-patologo, asportò numerosi cancri (solidi)
operando una sapiente distinzione tra quelli amovibili e quelli ormai
diffusi nell’organismo (metastatici).
Sulla scorta di Hunter e
di altri grandi chirurghi, all’inizio soprattutto inglesi e
francesi, poi tedeschi e americani, la chirurgia nel XIX secolo fu a
lungo la principale, se non addirittura l’unica arma strategica
contro il cancro. Un’arma che affinava le sue tecniche rendendole
sempre più efficaci come quando l’americano William Stewart
Halsted (1852-1922) introdusse la mastectomia radicale, una procedura avverso il
cancro del seno che oltre a comportarne l’ablazione totale,
implicava altresì l’asportazione dei muscoli sottostanti e dei
linfonodi relativi.
In buona sostanza,
tuttavia, la chirurgia non eliminava il cancro, ma si limitava ad
estirparlo, con l’aggravante che la sua natura invasiva era pagata
a caro prezzo dai pazienti in termini di danni collaterali, nonché
di vere e proprie (e spesso inutili) mutilazioni. Una procedura
innovativa cruciale come l’introduzione dell’anestesia, pur
migliorando certamente la fattibilità e la tollerabilità degli
interventi, non ne ridusse il carattere invasivo. L’adozione dei
raggi X per l’estirpazione del cancro, in sostituzione della
chirurgia, anche se spesso a questa associata, portò tuttavia
all’attuazione di strategie concluse spesso con remissioni.
Negli anni immediatamente
precedenti la Seconda Guerra Mondiale il cancro costituiva tuttavia
un problema irrisolto. Nel 1937 la rivista americana «Fortune»
pubblicava un articolo in cui se ne riassumeva la situazione nel
mondo e in particolare negli Usa: crescita esponenziale dei casi,
incertezza diagnostica, concentrazione esclusiva della cura nella
chirurgia e nella radioterapia. Di lì a poco, tuttavia, le cose
presero a cambiare e l’epicentro del cambiamento furono proprio gli
StatiUniti. La sanità americana fu investita da un inedito interesse
da parte del Governo e contemporaneamente cominciarono a intervenire
decise novità nella ricerca. Attenzione governativa e della classe dirigente
americana in generale, da un lato, e innovazioni terapeutiche corsero
in parallelo avvitandosi in un circolo virtuoso.
A dare l’avvio
all’opera di contrasto fu, indirettamente, la vicenda di
un’epidemia infettiva e di un suo illustre malato, Franklin Delano
Roosevelt, presidente degli Stati Uniti dal 1933 al 1945, anno della
sua morte. Roosevelt, già vittima nel 1921 della violenta epidemia
di poliomielite che infuriava soprattutto tra i bambini (conosciuta
perciò come paralisi infantile), candidandosi nel 1936 per la prima
conferma del mandato, contro il parere dei suoi consulenti si
presentò in pubblico in carrozzella e, una volta confermato,
promosse nel 1937 una fondazione nazionale per sostenere la ricerca
sulla paralisi infantile. Mostrando un’indubbia genialità
politica, volle dimostrare agli Americani come per lui battersi per
sconfiggere una malattia dei grandi numeri era una impresa non meno
politica della lotta coraggiosa sostenuta per contrastare la Grande
Depressione, essa stessa visualizzabile come una malattia
dell’economia e della società.
L’esempio dato da
Roosevelt nell’avviare un processo collettivo di contrasto di una
grave tabe infettiva non restò senza conseguenze. Si cominciò a
pensare che quanto si era fatto per la polio era
fattibile anche per i
tumori maligni. Fu così che il cancro divenne oggetto di un
crescente coinvolgimento dei privati nell’organizzazione e nel
finanziamento della ricerca che per sua parte cominciò a presentare
novità positive. Uno dei massimi oncologi americani, Sidney Farber
(1907-1973) attivo nel Children’s Hospital di Boston dove seguiva i
bambini malati di leucemia, lavorando nel laboratorio dell’ospedale,
nell’estate del 1947 ebbe, per così dire, la sua «mela di
Newton»: nell’assenza di una diagnostica strumentale (ecografia,
TAC, risonanza magnetica) che permettesse di «vedere» la patogenesi
e lo sviluppo del cancro in generale, la leucemia, tumore
contrassegnato da una proliferazione patologica dei globuli bianchi
(leucociti) nel sangue, si rendeva visibile al microscopio e poteva
così essere quantificata. La stessa cosa si poteva fare con i
tessuti di altri cancri. A questo punto diventava possibile pensare a
farmaci in grado di aggredire e distruggere le cellule maligne al
modo stesso in cui si procedeva nel trattamento delle malattie
infettive, ma c’era un problema: come discriminare nella
distruzione le cellule malate da quelle sane? Stabilito così
l’obiettivo della sperimentazione, il paradigma di riferimento fu
il principio dell’affinità specifica, già scoperto
dall’immunologo tedesco Paul Ehrlich (1854-1915), vale a dire la
proprietà di alcune sostanze di «legarsi» con i veleni del tessuto
canceroso e di distruggerli, in una parola il principio base
dell’immunità cellulare che fa sì che la tossina della cellula
malata sia una sorta di serratura disposta a essere aperta, come da
una chiave, unicamente da un’antitossina specifica per quella
tossina. Come dire che per ogni tossina andava ricercata
l’antitossina – più tardi ribattezzata anticorpo – congenere.
Una volta individuata l’antitossina specifica, si trattava di
produrre la molecola giusta e poi passare all’applicazione
terapeutica.
Campagne di stampa
Era nata così la
chemioterapia che, traendo origine dalle pionieristiche esperienze di
Ehrlich, ebbe tuttavia il suo pieno sviluppo in America a partire
dagli anni Cinquanta.
L’affermazione della
chemioterapia richiedeva un enorme impegno di risorse finanziarie e
umane non solo per la produzione industriale, ma anche per formare un
personale in grado di organizzare e condurre la sperimentazione
clinica. Per sensibilizzare il governo e i privati sul problema del
cancro, si mobilitarono divi del cinema, imprenditori di successo e
due filantropi milionari, i coniugi Albert e Mary Lasker che, sul
finire della Seconda Guerra Mondiale rilanciarono una vecchia
associazione per la ricerca sul cancro con una capillare campagna di
stampa, appoggiandosi, per la necessaria copertura scientifica, a
Farber, l’insuperato campione della lotta contro la leucemia. La
cosa ebbe un successo tale da fare dell’associazione il referente
privilegiato del Congresso per tutte le questioni relative al morbo.
Ebbe luogo una sorta di americanization of cancer che toccò
il culmine durante la presidenza di Richard Nixon quando nel 1970 il
«New York Times» pubblicò un appello a prima pagina, a firma di
Farber e di Mary Lasker, in cui si invitava il Presidente a sostenere
la «Guerra contro il cancro». Al pubblico americano questa guerra,
di cui si faceva intravedere la vittoria, veniva presentata come
l’impresa di una grande nazione (meglio, della «Grande Nazione»
per antonomasia) che avrebbe aggiunto un nuovo trionfo a quello dello
sbarco sulla Luna nel 1969 e al «sicuro» esito della guerra in
Vietnam.
La vittoria sul cancro
per i Laskeriti poteva esser ottenuto perfezionando la chemioterapia,
il che implicitamente incoraggiava Nixon a privilegiare il sostegno
della ricerca applicata a tutto discapito della ricerca di base. Se
in linea di principio è sempre auspicabile che questa non venga
sacrificata, va aggiunto che la trasformazione di una malattia in
un’entità tale da farne un nemico pubblico «numero 1», finì con
l’avere conseguenze misurabili ad almeno due livelli: sotto il
profilo operativo, perché venne indebolita l’opera di persuasione
del pubblico ad adottare i corretti comportamenti di prevenzione;
sotto il profilo etico, perché indusse a pensare che il cancro, alla
stregua di un moderno diavolo, si impossessasse del malato colpevole
di comportamenti illeciti e quindi quale peccatore suo complice (è
del resto quanto è puntualmente successo negli Stati Uniti con il
Sarcoma di Kaposi associato all’Aids allorché agli inizi degli
anni Ottanta si conobbero i primi casi della terribile malattia: la
Sindrome da Immunodeficienza Acquisita venne definita Gay
syndrome, dell’omosessuale», dal Center for Disease Control di
Atlanta).
Crociata
internazionale
A misura che il XX secolo
si avviava alla fine, la cura del cancro, dei tumori solidi in
particolare, prevedeva (e ancora prevede) un iter rituale: intervento
chirurgico, chemioterapia, radioterapia. Certo non mancano i
successi: le recidive sono meno frequenti e le remissioni prolungate
spesso sino alla definita guarigione. I progressi clinici sono
agevolati da una conoscenza più approfondita dell’epidemiologia,
da una prassi sofisticata nell’allestimento e nella conduzione dei
trials, dal monitoraggio degli stress ambientali e delle abitudini di
vita (che investono soprattutto i costumi alimentari e notissime
dipendenze come quella dal fumo), nonché dalle campagne mediatiche
di prevenzione alle cui indicazioni il pubblico si mostra ora sempre
più sensibile.
Nel frattempo comunque
molte cose stanno cambiando. Per cominciare la «guerra contro il
cancro» non è più una delle tante «crociate» americane.
L’America resta certo la mecca della ricerca, ma una mecca
decisamente internazionalizzata dalla presenza di cervelli in fuga
dall’Europa e dall’Asia. Costoro non si limitano a diffondere
conoscenze acquisite nella loro formazione remota, ma comunicano un
modo diverso di considerare il cancro in sé. A molti di loro, come
ad Howard Martin Temin (1934-1964) e David Baltimore (1934), allievi
di Renato Dulbecco (1914), si devono ricerche genetiche che hanno
prodotto un mutamento di prospettiva.
Il cancro non va studiato
come una malattia (anche se ovviamente lo è) ma come un processo di
crescita cellulare che sembra seguire un suo progetto consistente
nell’attivare gli oncogeni e disattivare i geni oncosoppressori,
agendo su meccanismi molecolari che agiscono da regolatori.
Attivazione e disattivazione conseguono da mutazioni fuori dal nostro
controllo. Come l’organismo normale è esso stesso un organismo in
via di sviluppo e le sue cellule paiono programmate per produrre una
vita «diversa» parassitaria.
È per questa ragione che
il paziente lo avverte come un ingombro, un peso (è questo,
d’altronde, il significato della parola greca ónkos che
Mukherjee riconduce al radicale indoeuropeo nek).
La morale della
compassione
Questo peso, tuttavia, al
di là di un problematico intervento di ingegneria genetica inteso a
«scaricarlo», si presta a essere declinato diversamente: o è una
vita che tenta di sostituirsi a quella presente secondo scansioni che
sono al tutto imprevedibili e che, pertanto, ci invita ad abituarci a
convivere con il cancro invincibile come lo è il bíos, tenendo
altresì conto del fatto che viviamo di più e meglio, per cui
abbiamo maggiori occasioni di avere a che fare con i tumori maligni;
oppure è un’occasione per vivere con una maggiore intensità, da
medici in particolare, le disavventure non solo sanitarie dell’altro.
Nell’aura di affetti
evocata dal medico e ricercatore indiano, un’aura nella quale la
medicina si volge in un’austera morale della compassione, sembra
davvero, come suggerisce Ingmar Bergman nel Posto delle fragole,
che «il primo dovere del medico è quello di chiedere perdono».
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