L'intervista, ragionata e
puntualissima nella denuncia, mi pare un po' generica e evanescente nella proposta politica e
programmatica. E' tratta da un dossier sul cibo pubblicato da un periodico di
Città di Castello, diretto dal prete cattolico Achille Rossi su una
linea che con qualche semplificazione si può definire
“altermondialista”. (S.L.L.)
Guido Viale, leader nel
’68 della protesta studentesca ed ex-dirigente di Lotta continua, è
membro del Comitato tecnico-scientifico dell’Agenzia nazionale per
la protezione dell’Ambiente (Ispra). Collabora con «Repubblica» e
«il manifesto». Blog personale: http://www.guidoviale.it. Con lui
abbiamo discusso della grave questione alimentare che affligge il
pianeta.
Entriamo subito in
argomento: oggi nel mondo c’è un problema alimentare?
«Beh certo, c’è da
tantissimo tempo e mi pare che si stia aggravando piuttosto che
assottigliarsi. Il numero delle persone che soffrono la fame, secondo
la Fao, è aumentato negli ultimi anni».
Ma è un problema che
riguarda solo il cosiddetto “sud del mondo”, o anche il nord?
«Innanzitutto è sempre
più difficile distinguere in maniera netta il sud dal nord, perché
in molti Paesi emergenti del sud del mondo c’è ormai una classe
dirigente e perfino un “embrione” di ceto medio che vive secondo
gli standard occidentali, mentre nei Paesi che una volta costituivano
il “primo mondo”, cioè il mondo occidentale capitalistico,
esistono oggi sacche di miseria e di indigenza che sono anche
peggiori di quelle che patiscono molte popolazioni del cosiddetto
“terzo mondo”. Per esempio, oggi in Grecia ampie fette di
popolazione sono costrette a rimestare nei cassonetti alla ricerca di
cibo: attività che è sempre stata caratteristica dei barboni, e che
oggi coinvolge famiglie intere, genitori alla ricerca di qualcosa da
mangiare per i figli. Siamo arrivati a questo; frutto anche della
politica europea di austerità applicata a quei Paesi. Ma lo stesso
si può dire degli Stati Uniti, il Paese più ricco del mondo, dove
un quinto della popolazione vive in condizioni di povertà relativa o
soffre letteralmente la fame».
Com’è invece la
situazione in Italia?
«In Italia, come in
tutti i Paesi non solo occidentali, c’è uno spreco di cibo
gigantesco: si calcola che fino a un terzo del cibo comprato finisca
nella spazzatura. Non c’è ancora un problema di fame diffuso, ma
sicuramente all’interno di molte famiglie che sono state colpite
pesantemente dalla crisi ci sono regimi di sottoalimentazione o
comunque di deterioramento degli standard alimentari molto forti».
Abbiamo del resto nei
Paesi ricchi un problema di sovralimentazione, da un lato; di cattiva
alimentazione, dall’altro. Nessuna legge a tutela dei consumatori
pare in grado di risolvere questi problemi. C’è forse bisogno di
una mentalità diversa?
«È difficile uniformare
le mentalità degli uomini di tutto il mondo; ma d’altro canto
questo obiettivo non sarebbe neanche auspicabile, perché in ogni
Paese il problema alimentare si pone in maniera specifica e
peculiare. Tanto per cominciare, va considerato che il problema
mondiale dell’alimentazione non è che vi sia poco o troppo cibo,
bensì che questo venga distribuito male, in base a logiche di
mercato e non di fabbisogno umano. Attualmente le forniture di cibo
arrivano dove c’è una domanda solvibile e non dove c’è un
bisogno di alimentazione. Il fatto che al mondo vi siano 800 milioni
di obesi e, al contempo, circa lo stesso numero di persone che
soffrono la fame, è una testimonianza eloquente e immediata di
questo squilibrio. A ciò si aggiunga che l’obesità non sempre è
frutto di alimentazione eccessiva, ma sovente dipende da una cattiva
alimentazione».
Cioè?
«Il sistema alimentare
mondiale (si tenga presente che sono pochissime le società
multinazionali che controllano il mercato della produzione e della
distribuzione del cibo a livello planetario) tende a mettere in
circolazione alimenti a basso prezzo caratterizzati da un eccesso di
grassi e di zuccheri, che attirano principalmente persone a basso
reddito. Oggi siamo di fronte a un curioso (ma rivelatore)
rovesciamento del detto tradizionale per cui al povero tocca
“stringere la cinghia”: una volta i poveri, sottoalimentati,
erano magri, mentre i ricchi erano grassi; oggi è vero il contrario:
i ricchi hanno la possibilità di alimentarsi in maniera corretta,
calcolata scientificamente, mantenendosi in forma, mentre i poveri,
attratti dal cibo economico e scadente, finiscono per ingrassare
oltre misura».
Che ne è, alla luce di
queste considerazioni, dei propositi istituzionali di eliminazione
della fame nel mondo?
«L’obiettivo del
millennio era il dimezzamento del numero di persone che soffrono la
fame entro il 2015. Da allora, cioè dal 2000, questo numero non è
certo diminuito, anzi. Da questo punto di vista si registra dunque un
fallimento completo. Ma la cosa più grave è che le derrate
alimentari, nel corso dell’ultimo decennio, sono entrate sempre più
nel sistema finanziario internazionale, diventando così oggetto di
speculazioni finanziarie come quelle dei cosiddetti derivati,
futures, ecc. Questo tipo di operazioni, effettuate su larga
scala, possono provocare non soltanto un già di per sé pernicioso
aumento dei prezzi, ma vere e proprie carestie. È in queste
condizioni, tanto per dirne una, che è cominciata la “primavera
araba” in Tunisia. Torniamo al problema di prima: un mercato
alimentare mondiale completamente in mano a pochissime società di
dimensioni gigantesche, gestito da un mercato finanziario in grado di
ridurre alla fame intere popolazioni con un semplice clic su una
tastiera… non può che produrre questi risultati».
Più in particolare
sembra che in Occidente il problema alimentare si ponga su due
questioni fondamentali: da un lato, un eccessivo consumo di carne;
dall’altro, intere coltivazioni destinate ai biocarburanti. Un
problema etico, ancor prima che socioeconomico.
«Certamente si tratta di
un problema etico: anche qui la precedenza viene data non ai bisogni
della gente, ma alle esigenze di quegli operatori economici che
possono permettersi di pagare più degli altri. È il fenomeno del
cosiddetto land grabbing di cui è vittima il Sud America ma
soprattuto l’Africa: le terre vengono letteralmente svendute a
operatori economici di altri Paesi (le solite multinazionali), le
quali - una volta entrate legalmente in possesso del territorio –
non si fanno scrupolo di cacciar via intere popolazioni che vi
risiedevano magari da secoli sopravvivendo grazie a un’agricoltura
di sussistenza. Perfino alcuni Paesi dell’est europeo vi sono
soggetti».
È questo il frutto
“razionale” del capitalismo? Pare che dovunque passi il capitale,
diventi tutto improvvisamente problematico e caotico. Cioè:
irrazionale.
«Si può anche metterla
così, in un certo senso. Resta da capire attraverso quale meccanismo
si passi effettivamente dalla razionalità della matematica
macroeconomica all’irrazionalità degli esiti reali. La razionalità
capitalistica è una razionalità strumentale, che ha come unico fine
quello di massimizzare i profitti, passando sopra a tutto e tutti: in
questo senso il capitalismo è e rimane razionale. C’è da
chiedersi se una tale razionalità sia davvero buona per l’uomo, di
fronte a un’esperienza ormai pluridecennale che ha mostrato come
questo sistema finisca per premiare gli speculatori finanziari,
riducendo la gente alla fame».
Ciò nonostante il
capitalismo pare non aver rinunciato a promettere abbondanza e
ricchezza per tutti.
«Forse qualcosa al
riguardo è cambiato: prima della crisi si parlava ancora nei termini
di questo pensiero unico per il quale il capitalismo avrebbe esteso -
prima o poi – il benessere e il progresso a tutti gli uomini; oggi
domina invece la paura, la paura del fallimento, del disastro. Oggi
non si dice più che le regole del mercato vanno seguite perché sono
il meglio che vi sia al mondo; si dice al contrario che non vi sono
alternative e che non resta che seguirle per scongiurare un disastro
maggiore. Nel giro di pochi anni sono dunque passate dall’essere
“il meglio” all’essere “il meno peggio”. Può sembrare
poco, ma è invece qualcosa di molto rilevante».
È insomma la solita
sindrome Tina: There Is No Alternative.
«Certo: è questo il
succo della cultura capitalistica in questa sua fase finanziaria. In
altre epoche, infatti, è stato diverso: come ad esempio nei
cosiddetti “trent’anni gloriosi”, quelli immediatamente
successivi alla seconda guerra mondiale, dove il capitalismo in
qualche modo ha operato davvero apportando benessere ad ampie fasce
della popolazione occidentale. Oggi nessuno dei governi di quegli
stessi Paesi potrebbe dire, similmente, che il capitalismo porterà
benessere: al contrario, tutte le riforme in direzione dell’austerità
vengono motivate dalla paura del default (visto come la catastrofe)».
Dovremmo dunque cedere e
credere a questo pensiero unico?
«Certamente no; d’altro
canto non basta pensarla diversamente per incidere di fatto su questi
meccanismi. Ribellarsi all’alta finanza non è una cosa semplice;
c’è bisogno, sì, di cultura, ma anche di organizzazione,
strumenti e controllo, soprattutto, da parte dei governi, a partire
da quelli locali (municipi) fino a quelli nazionali e
sovranazionali».
C’è forse qualche
Partito in Italia o in Europa che sia sensibile a queste tematiche?
Pare che non ne parli nessuno.
«In Grecia c’è il
Partito Syriza che è passato da percentuali infime di consenso a
essere il secondo partito greco e – secondo i sondaggi – aspira a
essere addirittura il primo alle prossime elezioni, che si fonda
proprio su questi principi ed è in cerca di alleanze in Europa per
costruire una lista europea unitaria alle prossime elezioni. Il punto
fondamentale è la rinegoziazione dei trattati internazionali di
austerity che hanno condotto all’attuale situazione di
difficoltà. In Italia c’è il tentativo di costruire una lista
unitaria che si appoggi a Syriza; tentativi simili sono presenti
anche in Spagna e in Portogallo e, a quanto mi risulta, anche in
Germania e in Francia».
Più precisamente, chi si
sta mettendo in gioco in Italia su questa linea?
«Sta parlando con uno di
loro (ride). Altri sono Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Paolo
Flores d’Arcais, Marco Revelli, Luciano Gallino. Una lista in
realtà ben più lunga (in parte pubblicata a metà gennaio da
«Repubblica») che vede il coinvolgimento di molti esponenti della
sinistra estrema che preferiscono puntare in Europa a una lista
unitaria svincolata dalle pressioni dei singoli partiti nazionali.
Un’iniziativa che ovviamente non si rivolge solo alle tematiche
dell’alimentazione, ma più in generale alla ridefinizione delle
dinamiche e delle interazioni tra economia e politica».
Un’ultima domanda: come
fare a spiegare ai propri bambini che non c’è mai stato tanto cibo
al mondo, eppure non c’è mai stata tanta gente che muore di fame?
«Bisogna cercare di
spiegarlo in una maniera molto semplice: nel mondo di oggi il cibo,
per poter essere mangiato, ha bisogno di essere comprato e venduto,
perché le persone che possono vivere in autosussistenza coltivando
il proprio campo sono sempre meno (un po’ perché sono sempre più,
come abbiamo visto prima, quelli che vengono espropriati a favore
delle grosse coltivazioni; un po’ perché sono ben pochi quelli il
cui orto rende a sufficienza da sfamare l’intera famiglia e al
contempo procurarsi tutto il resto che serve per vivere, dai vestiti
al denaro per i servizi fondamentali). Tutto il resto del cibo è in
mano ad aziende enormi che comprano il cibo a bassissimo prezzo da
chi lo produce e lo rivendono ad altissimo prezzo a chi se lo può
permettere. Chi è fuori da questi circuiti, semplicemente, non
mangia».
"L'altrapagina dossier" Il
veleno nel piatto, febbraio 2014
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