Quante volte Cesare
Musatti ci aiutò, a Milano, quando si trattava di ritessere un
dibattito nella sinistra fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta?
Perfino nel 1956, quando molti ci voltarono le spalle e avevamo noi
stessi il cuore stretto e la testa bruciante di domande, venne con
calma a presiedere un dibattito in una sala piena di agitazione. Era,
come tutti, sconvolto ma ricordo che oltre all'intervento politico
ammonì, con l'abituale modo dimesso di parlare di quella che era la
sua scienza e professione, a guardarci dai complessi — quello del
tradito, quello del transfuga — che non potevano non inquinare
quelle emozioni. Faceva un uso del suo sapere assolutamente semplice,
equilibrante: pareva sempre che avesse più anni e più esperienza di
tutti, e ne avesse tratto una indomabile curiosità e una
disponibilità illimitata.
Che socialista era?
Rivado agli anni cinquanta, alle lotte nella federazione socialista
milanese, prima morandiana, poi autonomista con Guido Mazzali e,
appena defilate, le presenze degli outsiders, Lelio Basso
improvvisamente sulla cresta dell'onda al Congresso del 1957, e
Riccardo Lombardi, tutti divisi — tutti miei amici, in anni di cui
ora si dice che erano settarissimi, tutti pezzi della mia vita e del
mio lavoro — ma Musatti non lo so collocare. Non ho memoria di sue
laceranti prese di posizione, mentre si delineavano, perdevano o
vincevano degli altri; laceranti e tuttavia unite da un filo che si
ruppe soltanto nel 1963, quando Lombardi chiese al comitato centrale
«Ma siamo ancora socialisti?» e il partito si spezzò.
Musatti non era uomo di
rotture, ma neppure si lasciava portare dalle maggioranze. Non fece
mai trascolorare quel suo socialismo che, con qualche civetteria,
voleva all'antica. Se lo poteva permettere perché non era mai stato
uomo d'apparato né intellettuale di riserva, né fiore
all'occhiello. Amico com'era di alcuni di noi comunisti, credo che
neppure al più insulso dei polemisti sia mai venuto in mente di
definirlo «compagno di strada» che implica una subalternità e
tanto meno «utile idiota», che è stato un assai diffuso insulto.
La sua libertà era fuori discussione, era un uomo di sinistra
com'era stato il primo divulgatore di Freud in Italia: una forma
della cultura, del carattere.
Con un accento singolare:
la sinistra era asseverativa e sapeva tutto, lui aveva una
irreprimibile curiosità; gli uomini di sinistra davano spesso sul
triste, i suoi occhi ridevano sempre. Non ha mai smesso di trovare lo
spettacolo del mondo degno di attenzione, sdegno, pietà ma anche
fonte d'una sorta di filosofico divertimento. E' stato fra i pochi
capaci di trovar divertente perfino l'invecchiamento, la sfida agli
anni, al corpo che ti tradisce mentre la testa ti resta giovane.
Senza la benché minima enfasi, perché nulla gli era più lontano,
sempre con l'aria di non essere il primo né in trincea ma quasi un
po' accanto alle cause giuste, agli eventi grandi, Cesare Musatti è
stato una delle persone più libere del lungo dopoguerra. Che la
terra gli sia leggera, come avrebbe detto a chi di noi se ne fosse
andato prima.
"il manifesto", 24 marzo1989
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