Presentazione di una
mostra milanese degli anni Ottanta, l'articolo è pieno di notizie
interessanti e, in qualche caso, sorprendenti. (S.L.L.)
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Figurino per le calze di seta |
Milano - Anche l' arte e
la storia possono servire a vendere di più. E così un grande
magazzino come "la Rinascente" nobilita una sua iniziativa
dedicata ai prodotti per la casa e ai vestiti di seta con una mostra
che si intitola le "Fortune della Seta", allestita con la
collaborazione dell'Archivio di Stato di Como e il patrocinio della
Regione Lombardia.
Nella mostra, che si
inaugura domani (durerà sino all' 8 marzo) ed è curata da esperti
come Candace Adelson del Museo Stibbert di Firenze e Doretta Davanzo
Poli, già curatrice di Palazzo Grassi a Venezia, sono esposti 200
pezzi che raccontano il lungo romanzo di un tessuto prezioso, che
diede un'immagine alla potenza di re e papi, che segnò la
separazione, economica e giuridica, tra ricchi e poveri, e che, nella
storia del lavoro e dello sfruttamento, fu tra le cause dei primi
scioperi. Così gli assatanati dello spreco, comprando cuscini di
seta, camicie di seta, scarpe di seta e lenzuola di seta, potranno
sentirsi autorizzati al lusso dall'abito maschile di fine Settecento,
in raso verde e crema intessuto d' oro, dalla secentesca pianeta di
seta oro e argento o dalla Venere di Urbino del Tiziano, nuda sullo
sfondo di pareti riccamente coperte di damaschi di seta.
Invece solo un lieve
elettrizzante rimorso potrà renderli per un attimo dubbiosi, davanti
alle stampe del fiammingo Giovanni Stradanus che mostrano una folla
di donne e bambini intenti alla bachicoltura (le donne tengono le
uova dei bachi nel seno per accelerarne la schiusa) o ai Pacta ad
artem, gli atti notarili con cui i padri imprestavano per anni
figli giovinetti ai maestri artigiani della lavorazione della seta,
perché, in cambio di scarso vitto e un pagliericcio, gli
insegnassero il prezioso mestiere, o al grande telaio a mano sul
quale le donne del comasco, agli inizi del Novecento lavoravano
dodici o tredici ore al giorno: e il buon imprenditore, per non far
loro perdere tempo, dava anche da mangiare, "al mattino pane di
granoturco, a mezzogiorno pane di granoturco con brodo di cipolle, il
quale cibo nessun cane ingoierebbe, alla sera il medesimo pane con un
po' di formaggio chiamato formaggella", come scriveva nel 1905
la rivista Le arti tessili.
La preziosa seta, bramata
dai potenti mai sazi di vesti ricche e sdegnata dai moralisti, arriva
nel bacino del Mediterraneo dalla Cina e dalla Persia nell'
antichità, certo prima delle descrizioni tecniche di Aristotele, di
quelle poetiche di Omero o delle disposizioni di Tiberio che
vietavano l' uso delle vesti di seta agli uomini, perchè segno di
effeminatezza. Una leggenda riportata dal Muratori racconta che
Giustiniano avrebbe mandato dei monaci in Cina per imparare il
segreto della lavorazione della seta, e che essi sarebbero tornati
nascondendo in canne di bambù i preziosi bachi; come testimonia
nella mostra una incisione di Stradanus, e come è raccontato nel
catalogo Fortune della seta (Fabbri editori).
I corredi delle
dame
I veneziani, i lucchesi,
i palermitani e per ultimi i milanesi e i comaschi, diventarono
dapprima mercanti importatori dall' Oriente, poi coltivatori di
bachi, filatori, tessitori, tintori, una vera e propria produzione
industriale cominciò in Lombardia nel 1442, quando il duca di Milano
Filippo Maria Visconti chiamò da Firenze Ser Pietro di Bartolo,
abilissimo setaiolo. La storia della seta è affascinante,
drammatica, divertente: ispira poeti come l' Ariosto, che si innamora
di Alessandra Benucci dopo averla vista con "il puro e schietto
serico abito nero". I cronisti descrivono puntigliosamente, e
con un po' d'invidia, gli addobbi sontuosi di prìncipi e re e dei
loro seguiti; particolarmente ammirata la cronaca del corteo di
mercanti stranieri che scortano il Duca Carlo di Bold al suo ingresso
a Bruges nel 1468: "I fiorentini erano preceduti da sessanta
alabardieri in blu e paggi in argento e rosso, i cavalli con
gualdrappe di seta bianca bordate di velluto blu e gli stessi
mercanti in damasco di seta nera con mantelli rossi. Il loro capo, il
potente Tommaso Portinari, era vestito sontuosamente come lo stesso
Duca".
I corredi delle dame
grondano seta: vengono segnalate camicie di seta nella lista di nozze
di una signora fiorentina del 1397; Lucrezia Borgia ha 200 camicie di
seta e filo d'oro, che valgono ognuna come una pesante armatura di
cavaliere. La stessa Lucrezia porta sempre abiti così sbalorditivi
da ispirare i cronisti dell'epoca, che descrivono minuziosamente i
broccati in rilievo oro e nero, le maniche allacciate da nastri di
seta bianca e foderate di raso bianco.
Gli uomini vanno pazzi
per i sontuosi abiti di seta, simbolo della loro superiorità; anche
Cola di Rienzo si veste di seta bianca bordata d' oro, anche un Don
Luigi Olginati ordina nel 1866 al sarto Parigi di Milano, un paletot
di seta. Gli ambasciatori informano i loro padroni di ogni abito di
seta ordinato dai signori che li ospitano: così l' ambasciatore
estense racconta come Ludovico il Moro "molto secretamente fa
fare tre zornee de raxo cremisino rechamate de bellissime perle, una
per il Duca, l'altra per Soa Signoria e la terza per Messer Galeaz de
San Severino".
Bambini sfruttati
La seta preziosa e
costosa è dovuta anche agli infanti: come il figlio di Ludovico,
Ercole che, come racconta una damigella nel 1493 "stava il
puttino tutto coperto di broccato d'oro in una culla elegantissima
tutta dorata".
La smania per la seta è
il segnale del bisogno di promozione sociale: così Benvenuto da
Imola ricorda che, nel XIV secolo, le fornaie portavano scarpe di
seta guarnite di perle, mentre un secolo dopo, a Brescia, un anonimo
nota che "fabbri ferrai, pizzicagnoli, calzolai, vestivano le
loro mogli di velluto cremisino, di seta, di damasco, di scarlatto
finissimo; le maniche foderate di vaio e di martora che ai re solo si
addicono".
Si capisce quindi come
anche oggi, in tempi di passsione sfrenata per l' immagine opulenta,
abbigliarsi di seta voglia dire promuoversi socialmente. E per
fortuna è l' Italia a gestire questa vanità collettiva. Verso la
fine dell'800 l' ombelico della lavorazione e smercio della seta era
a Krefeld, in Germania, poi fu la volta di Lione; adesso è Como il
centro di potere della seta, che come materia prima è monopolizzata
dalla Cina: nel 1985 le industrie italiane hanno importato 230
miliardi di seta grezza, 35 miliardi di filati, 110 di tessuti; e ne
hanno esportati 46 di filati, 385 di tessuto, più miliardi di abiti
di seta confezionati.
Per il Duce e per
la patria
Che fosse una ricchezza,
lo sapeva anche il Duce, e infatti ai contadini che non ne volevano
più sapere di allevare bachi nelle loro cascine, arrivò
l'imposizione fascista di riprendere a produrre bozzoli e di non
abbattere più gelsi. L'ordine di battaglia di Mussolini, "Bisogna
esportare la seta", fu eseguito "con scrupolosa devozione
per assicurare oro alla patria", disse allora Carlo Maria
Zanotti, presidente della federazione nazionale fascista degli
industriali della seta.
Il potere si è sempre
molto occupato della seta, soprattutto con le leggi suntuarie che
tentavano, senza riuscirci, di limitare lo spreco e di separare le
caste, consentendo solo alle grandi dame e ai nobili cavalieri di
abbigliarsi con gioielli.
Ma è interessante anche
vedere come le leggi abbiano regolato nel corso del tempo la
lavorazione del tessuto. Così nel 1596 si stabilisce che le vedove
possono esercitare la professione del defunto solo a nome dei figli
maschi, mentre le orfanelle femmine non possono imparare il mestiere
perché in loro "non è la considerazione, qual è nelli maschi,
nè di perizia nè di attitudine all'esercizio". Invece non
veniva rispettata alla fine dell'Ottocento, la legge che proibiva di
far lavorare nelle filande bambini sotto i dodici anni. Infatti, Anna
Maria Mozzoni, in un articolo del 1898 sull' “Avanti!”
ricordava che negli stabilimenti serici si incontravano "perfino
delle bambine di quattro anni, sole, pallide, tristi, sbigottite
dalla rigida disciplina dell'opificio, stanche da morirne, in piedi
sempre e sempre nello stesso posto, vigili e silenziose per 12, 14 e
perfino 15 ore sulle ventiquattro".
“la Repubblica”, 9
febbraio 1986
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