22.4.14

Son fili d' oro... Storia e storie della seta (Natalia Aspesi)

Presentazione di una mostra milanese degli anni Ottanta, l'articolo è pieno di notizie interessanti e, in qualche caso, sorprendenti. (S.L.L.)
Figurino per le calze di seta
Milano - Anche l' arte e la storia possono servire a vendere di più. E così un grande magazzino come "la Rinascente" nobilita una sua iniziativa dedicata ai prodotti per la casa e ai vestiti di seta con una mostra che si intitola le "Fortune della Seta", allestita con la collaborazione dell'Archivio di Stato di Como e il patrocinio della Regione Lombardia.
Nella mostra, che si inaugura domani (durerà sino all' 8 marzo) ed è curata da esperti come Candace Adelson del Museo Stibbert di Firenze e Doretta Davanzo Poli, già curatrice di Palazzo Grassi a Venezia, sono esposti 200 pezzi che raccontano il lungo romanzo di un tessuto prezioso, che diede un'immagine alla potenza di re e papi, che segnò la separazione, economica e giuridica, tra ricchi e poveri, e che, nella storia del lavoro e dello sfruttamento, fu tra le cause dei primi scioperi. Così gli assatanati dello spreco, comprando cuscini di seta, camicie di seta, scarpe di seta e lenzuola di seta, potranno sentirsi autorizzati al lusso dall'abito maschile di fine Settecento, in raso verde e crema intessuto d' oro, dalla secentesca pianeta di seta oro e argento o dalla Venere di Urbino del Tiziano, nuda sullo sfondo di pareti riccamente coperte di damaschi di seta.
Invece solo un lieve elettrizzante rimorso potrà renderli per un attimo dubbiosi, davanti alle stampe del fiammingo Giovanni Stradanus che mostrano una folla di donne e bambini intenti alla bachicoltura (le donne tengono le uova dei bachi nel seno per accelerarne la schiusa) o ai Pacta ad artem, gli atti notarili con cui i padri imprestavano per anni figli giovinetti ai maestri artigiani della lavorazione della seta, perché, in cambio di scarso vitto e un pagliericcio, gli insegnassero il prezioso mestiere, o al grande telaio a mano sul quale le donne del comasco, agli inizi del Novecento lavoravano dodici o tredici ore al giorno: e il buon imprenditore, per non far loro perdere tempo, dava anche da mangiare, "al mattino pane di granoturco, a mezzogiorno pane di granoturco con brodo di cipolle, il quale cibo nessun cane ingoierebbe, alla sera il medesimo pane con un po' di formaggio chiamato formaggella", come scriveva nel 1905 la rivista Le arti tessili.
La preziosa seta, bramata dai potenti mai sazi di vesti ricche e sdegnata dai moralisti, arriva nel bacino del Mediterraneo dalla Cina e dalla Persia nell' antichità, certo prima delle descrizioni tecniche di Aristotele, di quelle poetiche di Omero o delle disposizioni di Tiberio che vietavano l' uso delle vesti di seta agli uomini, perchè segno di effeminatezza. Una leggenda riportata dal Muratori racconta che Giustiniano avrebbe mandato dei monaci in Cina per imparare il segreto della lavorazione della seta, e che essi sarebbero tornati nascondendo in canne di bambù i preziosi bachi; come testimonia nella mostra una incisione di Stradanus, e come è raccontato nel catalogo Fortune della seta (Fabbri editori).

I corredi delle dame
I veneziani, i lucchesi, i palermitani e per ultimi i milanesi e i comaschi, diventarono dapprima mercanti importatori dall' Oriente, poi coltivatori di bachi, filatori, tessitori, tintori, una vera e propria produzione industriale cominciò in Lombardia nel 1442, quando il duca di Milano Filippo Maria Visconti chiamò da Firenze Ser Pietro di Bartolo, abilissimo setaiolo. La storia della seta è affascinante, drammatica, divertente: ispira poeti come l' Ariosto, che si innamora di Alessandra Benucci dopo averla vista con "il puro e schietto serico abito nero". I cronisti descrivono puntigliosamente, e con un po' d'invidia, gli addobbi sontuosi di prìncipi e re e dei loro seguiti; particolarmente ammirata la cronaca del corteo di mercanti stranieri che scortano il Duca Carlo di Bold al suo ingresso a Bruges nel 1468: "I fiorentini erano preceduti da sessanta alabardieri in blu e paggi in argento e rosso, i cavalli con gualdrappe di seta bianca bordate di velluto blu e gli stessi mercanti in damasco di seta nera con mantelli rossi. Il loro capo, il potente Tommaso Portinari, era vestito sontuosamente come lo stesso Duca".
I corredi delle dame grondano seta: vengono segnalate camicie di seta nella lista di nozze di una signora fiorentina del 1397; Lucrezia Borgia ha 200 camicie di seta e filo d'oro, che valgono ognuna come una pesante armatura di cavaliere. La stessa Lucrezia porta sempre abiti così sbalorditivi da ispirare i cronisti dell'epoca, che descrivono minuziosamente i broccati in rilievo oro e nero, le maniche allacciate da nastri di seta bianca e foderate di raso bianco.
Gli uomini vanno pazzi per i sontuosi abiti di seta, simbolo della loro superiorità; anche Cola di Rienzo si veste di seta bianca bordata d' oro, anche un Don Luigi Olginati ordina nel 1866 al sarto Parigi di Milano, un paletot di seta. Gli ambasciatori informano i loro padroni di ogni abito di seta ordinato dai signori che li ospitano: così l' ambasciatore estense racconta come Ludovico il Moro "molto secretamente fa fare tre zornee de raxo cremisino rechamate de bellissime perle, una per il Duca, l'altra per Soa Signoria e la terza per Messer Galeaz de San Severino".

Bambini sfruttati
La seta preziosa e costosa è dovuta anche agli infanti: come il figlio di Ludovico, Ercole che, come racconta una damigella nel 1493 "stava il puttino tutto coperto di broccato d'oro in una culla elegantissima tutta dorata".
La smania per la seta è il segnale del bisogno di promozione sociale: così Benvenuto da Imola ricorda che, nel XIV secolo, le fornaie portavano scarpe di seta guarnite di perle, mentre un secolo dopo, a Brescia, un anonimo nota che "fabbri ferrai, pizzicagnoli, calzolai, vestivano le loro mogli di velluto cremisino, di seta, di damasco, di scarlatto finissimo; le maniche foderate di vaio e di martora che ai re solo si addicono".
Si capisce quindi come anche oggi, in tempi di passsione sfrenata per l' immagine opulenta, abbigliarsi di seta voglia dire promuoversi socialmente. E per fortuna è l' Italia a gestire questa vanità collettiva. Verso la fine dell'800 l' ombelico della lavorazione e smercio della seta era a Krefeld, in Germania, poi fu la volta di Lione; adesso è Como il centro di potere della seta, che come materia prima è monopolizzata dalla Cina: nel 1985 le industrie italiane hanno importato 230 miliardi di seta grezza, 35 miliardi di filati, 110 di tessuti; e ne hanno esportati 46 di filati, 385 di tessuto, più miliardi di abiti di seta confezionati.

Per il Duce e per la patria
Che fosse una ricchezza, lo sapeva anche il Duce, e infatti ai contadini che non ne volevano più sapere di allevare bachi nelle loro cascine, arrivò l'imposizione fascista di riprendere a produrre bozzoli e di non abbattere più gelsi. L'ordine di battaglia di Mussolini, "Bisogna esportare la seta", fu eseguito "con scrupolosa devozione per assicurare oro alla patria", disse allora Carlo Maria Zanotti, presidente della federazione nazionale fascista degli industriali della seta.
Il potere si è sempre molto occupato della seta, soprattutto con le leggi suntuarie che tentavano, senza riuscirci, di limitare lo spreco e di separare le caste, consentendo solo alle grandi dame e ai nobili cavalieri di abbigliarsi con gioielli.
Ma è interessante anche vedere come le leggi abbiano regolato nel corso del tempo la lavorazione del tessuto. Così nel 1596 si stabilisce che le vedove possono esercitare la professione del defunto solo a nome dei figli maschi, mentre le orfanelle femmine non possono imparare il mestiere perché in loro "non è la considerazione, qual è nelli maschi, nè di perizia nè di attitudine all'esercizio". Invece non veniva rispettata alla fine dell'Ottocento, la legge che proibiva di far lavorare nelle filande bambini sotto i dodici anni. Infatti, Anna Maria Mozzoni, in un articolo del 1898 sull' “Avanti!” ricordava che negli stabilimenti serici si incontravano "perfino delle bambine di quattro anni, sole, pallide, tristi, sbigottite dalla rigida disciplina dell'opificio, stanche da morirne, in piedi sempre e sempre nello stesso posto, vigili e silenziose per 12, 14 e perfino 15 ore sulle ventiquattro".


“la Repubblica”, 9 febbraio 1986

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