Nel pezzo che segue Sciascia, per allusioni, connette il passato al tempo in cui scriveva, quasi cinquant'anni fa. Mi domando se il testo non conservi tuttora una sua attualità. (S.L.L.)
Edmondo De Amicis era stato in Sicilia,
da militare, nel 1865-66. Quaranta anni dopo tornava a rivedere
l’isola: e ne cavava un libretto che l’editore catanese Giannotta
pubblicava nel 1908, un libretto pieno di acute notazioni, di
cordiali impressioni, di malinconie, di entusiasmi.
Del carattere dei siciliani scrive:
“Strano carattere, violento e tenace nella passione, debole e
mutevole nella volontà, facile egualmente all’entusiasmo e allo
scetticismo, eroico nei suoi impeti generosi e pazientissimo nelle
sue rassegnazioni indolenti; nel quale quel fortissimo sentimento
individuale, che in altri popoli è il suo grande propulsore delle
iniziative, produce l’effetto di far curvare l’individuo dinanzi
all’individuo, di far idolatrare la forza, di assoggettare le
moltitudini a pochi padroni, di perpetrare lo spirito del feudalesimo
nella politica, nelle amministrazioni, in tutti i campi… Un grande
errore è però il giudicare il siciliano dalla collettività, come
la maggior parte di noi italiani facciamo. Egli ha tanto da
guadagnare a esser conosciuto individualmente e da vicino.
Lavoratore, ragionatore, padre di famiglia, amico, ospite, egli si
rivela tutt’altro uomo da quel che pare visto da lontano, nella
moltitudine. Per questo c’è una grande diversità nel giudicarlo
fra gli italiani del continente che hanno vissuto lungo tempo
nell’isola e quelli che non v’hanno mai posto piede o non vi
passarono che come viaggiatori. Questi sono ingiusti”. E’ un
concetto che esprimerà anche il Lawrence, nella introduzione al Mastro don Gesualdo.
E si potrebbero stralciare altre
impressioni, altri giudizi del De Amicis; ma più importerà al
lettore questo ritrattino del Rapisardi: “Benché malato, egli non
dimostra i suoi sessantatre anni: è ancora dritto nella sua alta
statura, ha i lunghi capelli ancora nereggianti, e negli occhi una
espressione di energia vivacissima, tutta la fierezza dell’antico
poeta ribelle, fulminatore di ogni superstizione e d’ogni tirannia,
tribuno ardente degli oppressi e dei miseri, apostolo battagliero di
libertà e di giustizia. E’ una figura elegante e fiera di poeta
romantico del passato secolo o di rivoluzionario mazziniano dei tempi
della Giovane Italia. Quanto diverso nella conversazione e nelle
maniere dalla immagine che se ne fanno i suoi avversari, e anche la
più parte dei suoi ammiratori! Il “bieco arcangelo fulminato” ha
la parola affettuosa e il sorriso gentile… Cessa di sorridere,
però, e s’oscura in viso e fa vibrare lo sdegno nella parola
profetando che la viltà della borghesia liberale, clericaleggiante
per terrore dello spettro rosso, finirà col dare l’Italia nelle
mani del partito cattolico, il quale vi rifarà la rivoluzione a
rovescio”.
Forse è il caso di tornare a leggere
Rapisardi.
“L’Ora”, 16 gennaio 1965
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