Il Narciso del Caravaggio |
Pubblio Ovidio Nasone era
francese? A dirlo, cioè a dire che tra i poeti antichi era quello
che avrebbe avuto l'aria meno forestiera alla Corte di Luigi XIV, fu
in pieno Settecento il conte Francesco Algarotti che lo trovava
brillante, cultore del meraviglioso e in più galante e cortigiano
quel tanto che — se conveniva ad Augusto — non poteva spiacere a
Luigi. Una boutade (uno «scherzo poetico», secondo il
Tiraboschi) eppure con quel tanto di vero che i paradossi contengono
sempre.
A rileggere oggi le
Metamorfosi — appena ripubblicate da Einaudi con una nota di
Italo Calvino e con introduzione e vivacissima traduzione a fronte di
Piero Bernardini Marzolla, si possono commettere « peccati » anche
maggiori di quello consumato dall'Algarotti: immaginare che il suo
Giove, sempre alle prese con trafficati adulteri, s'infili per
esempio — nell'Albergo del libero scambio o che balli il
tiptap con Fred Astaire come partner in un girotondo di ninfe...
Gran teatro delle
meraviglie, le Metamorfosi possono «anche » funzionare da
deposito o miniera, da grande enciclopedia del racconto possibile con
una ricchezza di repertorio che non per nulla ha fruttato molto a chi
(Dante, Boccaccio, Lope de Vega tra i mille) ha deciso di servirsene.
Il ventaglio amplissimo dei toni e dei generi, dal tragico all'epico,
dai grottesco al burlesco, sono un invito irresistibile
all'estrapolazione,, un suggerimento continuo a giocar di metamorfosi
anche coi contenuti, quasi come se Ovidio avesse messo in moto una
maccina dei racconti incapace di arrestarsi e ammaliatrice come poche
altre.
Come resistere allo
stupendo episodio del miscredente Erisictone, punito per aver violato
una quercia sacra a Cerere e quindi invaso dalla terribile Fame?
Sconvolto da una insaziabile voracità, eccolo approdane a dimensioni
rabelesiane e subito dopo impennarsi in una perfetta «trouvaille»
di stampo boccaccesco. Per liberarsi dalla terribile ospite,
Erisictone vende la figlia; ma essendo costei stata amante di
Nettuno, chiede ed ottiene la facoltà di trasformarsi e gabba il suo
padrone mutandosi all'istante in un pescatore. L'esito è bellissimo:
appena scopre questa facoltà della figlia, Erisictone «la vendette
più volte, a più padroni. E la nipote di Triopa li piantava
andandosene ora cavalla, ora uccello, ora vacca, ora cervo, e in
questo modo procurava all'ingordo genitore viveri non meritati ».
L'esito è dantesco: Erisictone mangia... se stesso.
L'operazione, si dirà, è
arbitraria. Ma quanto poi? Ovidio realizza il sogno allucinato di
Borges e la lettura diventa come un fiume che cammina ail'indietro,
verso la propria antichissima e inesauribile sorgente.
Ma se ci limitassimo a
vedere in Ovitìio una spedie di grande bibliotecario, capace
finalmente di ordinare tutta la sapienza mitica che va dalle origini
del mondo ai giorni suoi, avremmo in fondo ceduto il passo ad una
considerazione pensino ovvia. Come catalogo di circa
duecentocinquanta trasformazioni le Metamorfosi rischiano di
diventare noiose e prolisse; il filo che sostiene la narrazione non è
quello lievissimo che intreccia in un gioco di scatole cinesi un
racconto con un altro, ma è la sottintesa vocazione a fare della
«trasformazione» il simbolo dalla vita, di un inarrestabile fluire
verso la finale degradazione del corpo. Sebbene sia suggestivo il
richiamo all'attenzione «scientifica» con cui Ovidio descrive le
forme animate e inanimate (ne parla uno strutturalista sovietico
ampiamente commentato da Bernardini Marzolla) Ovidio è ai nostri
occhi «scienziato» in un altro senso. Come poeta, e proprio perché
vive in un'epoca che ancora mescola scienza e poesia, può
permettersi il lusso di un poema che abbracci il Tutto, sciogliendolo
nell'infinita varietà delle cose. Dall'età dell'oro, in cui il
mondo è immobile in una eterna primavera, in un'assenza di contrasti
comincia a scandire le malefatte degli uomini e degli dèi tino alla
prima apocalisse, al grande diluvio che restaurando una condizione
geologica preumana riporta ala partizione fatale tra mare e terra.
Di lì, da Deucalione e
Pirra, unici scampati, la creazione comincia: e sono uomini che
nascono dalle pietre e poi Febo che insegue Dafne trasformata in
lauro e poi Fetonte che vuoi sfidare il cielo guidando il carro del
Sole suo padre e precipita la Terra in una vera e propria età del
fuoco dove tutto brucia e «dicono che fu allora che il popolo degli
Etiopi per l'affluire del sangue a fior di pelle, divenne nero ». E
man mano nascono animali e stelle e Cicno diventa il cigno e
Gallisto, figlia di Licaone ohe le già divenuto lupo, cede a Giove e
da Giunone viene mutata in orsa e come tale splenderà in cielo. E
poi Atteone vede Diana nuda e senza sua colpa e divenuto cervo sarà
sbranato dai suoi stessi cani. Clizia si ammala d'amore e diventa un
girasole. Ermafrodito, concupito dalla ninfa Salmàcide, si fonde con
lei.
E ancora le figlie di
Minia, colpevoli per aver disdegnato Bacco, il nuovo dio, si mutano
in pipistrelli. Atlante si gonfia a dismisura e diviene un monte.
Ciane si liquefa e diviene acqua. Perseo con in mano la terribile
testa di Medusa pietrifica più di mille guerrieri. Muoiono i mostri
uccisi dagli eroi, i fiumi inseguono sogni d'amore e di gloria, gli
dèi recitano abbassandosi a trucchi da teatrino parrocchiale e
Pallade «si traveste da vecchia, si mette sulle tempie una finta
capigliatura bianca e prende anche un bastone»: Latone, trasforma i
Lici maleducati in rane; Pelope, squartato dal padre, viene
ricomposto dagli dèi, ma un pezzo del suo corpo non si trova più e
viene quindi sostituito da una protesi d'avorio. In una girandola
continua di eventi i corpi protagonisti si mescolano con le cose: il
mondo vive, rapido, incontenibile, quasi indipendentemente dagli dèi
stessi, spesso ridotti a dimensioni umanissime, preda di gelosie
meschine, incarnazione o travestimento di astuti politicanti o
mestatori più che non creature superiori: comunque immuni
dall'onnipotenza, legati a ruoli o luoghi, eroi episodici...
In tutto questo, mentre
il poema corre verso una conclusione d'obbligo, imposta dalla storia,
a cantare le glorie romane dei contemporanei e si leva, nel finale,
Pitagora a suggellare un discorso che abbraccia tutti e quindici i
libri, trionfa il sesso e l'improvvisa fiamma d'amore che coinvolge
dèi e umani in amplessi boscherecci e furtivi o in sconvolgenti
passioni. Eh già: perché c'è anche Narciso e c'è Eco e ci sono
acque innamorate che si mescolano per restare unite per sempre. C'è
insomma tutto il possibile e il pensabile in fatto di miti, che è
come dire che c'è il simbolico di tutta una concezione del mondo,
già materia sacra ed ora favola se si vuole eruditissima, ma ancora
e per sempre avvincente. E questo, crediamo, è il «segreto» di
Ovidio: aver tentato la descrizione poetica dellinafferrabilità;
poiché, se è vero che ogni storia si conclude e di corpo invecchia
o si fissa in una forma nuova, è anche vero che il fluido vitale
continua a circolare per proporsi in forme sempre nuove e per dar
vita a forme sempre nuove, sicché il contenente diventa un nuovo
contenuto e la «narratività» stessa si autopropone come simbolo
dell'essere.
E in più c'è il candito
della malizia di un poeta-demiurgo che conosce benissimo le proprie
debolezze, che ha una precisa coscienza storica e sa «gestirsi»
assai bene. Certo, quel che di gioioso c'è nelle Metamorfosi
non è tutto Ovidio. C'è anche (ed è stato ben sottolineato da
Bernardini Marzolla) un senso di morte, una vena di pessimismo
profondo. Il corpo decade, l'atleta Milone contempla i suoi muscoli
ormai inflacciditì. Elena piange scoprendo le sue rughe in uno
specchio... La trasformazione esige l'idea della corruzione e del
resto il mondo di Ovidio è un mondo geograficamente (per noi)
risibile, il carro del Sole, cadendo per la sciagurata guida di
Fetonte va a finire nel «lontano» Po e l'Ade sembra, per quanto
freddo e spaventoso, molto a portata di mano. Ma quel mondo è
diventato, come ben sappiamo ancora oggi, il principio di tutto
quello che ci riguarda e il poema di Ovidio ne ha riprodotto l'aurora
e temuto la fine.
«E ormai ho compiuto
un'opera che né l'ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il
tempo che tutto rode potranno cancellare», scrive nel congedo.
Grande blagueur, naturalmente. Ma tutti i torti proprio non li
aveva.
“la Repubblica”
mercoledì 16 gennaio 1980
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