Sull'ultimo numero de “Il
Ponte”, la rivista fondata da Piero Calamandrei, oggi diretta da
Marcello Rossi, un articolo importante, che nella prima parte è
analisi dei processi in atto e denuncia dei pericoli che ci
sovrastano, nella seconda è una vera e propria “provocazione”,
in senso etimologico, cioè una chiamata a farsi avanti. (S.L.L.)
Arriva la tempesta. Alla
vigilia della prossima crisi finanziaria globale, preannunciata dalla
crisi del 2008, la guerra in corso tra poteri finanziari e politici
per il controllo delle aree di influenza e di dominio sta accelerando
strategie attive di posizionamento degli attori principali su tutti
gli scenari. L’iniziativa è agli Stati Uniti e all’Unione
Europea. Ci sono società da disintegrare, mercati da «liberare»,
processi «democratici» da imporre con la forza delle armi e con le
armi della comunicazione. Il percorso è tracciato dagli anni novanta
del secolo scorso: Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, «primavere arabe»,
Libia, Iran, Siria, Grecia, oggi Ucraina e Venezuela, prossimamente
Russia e Cina. Sono soltanto gli scenari principali, ai quali si
aggiungono le numerose guerre locali, più o meno «coperte», in
tutto il mondo.
Dagli anni novanta, dopo
la caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’Unione
Sovietica, lo schema tattico politico-militare è sempre lo stesso,
sperimentato e attuato dall’Unione Europea a guida tedesca e dagli
Stati Uniti nella disgregazione della Federazione jugoslava: in quel
caso, il sostegno all’indipendenza della Croazia e della Slovenia,
con politiche di divisione e pulizia «etnica» che avrebbero
massacrato la multietnica Bosnia Erzegovina, fino all’indipendenza
del Kosovo sancita da un referendum secessionista preparato dai
bombardamenti della Nato. Le successive aggressioni americane
all’Iraq e all’Afghanistan, con la partecipazione attiva
dell’Unione Europea e della Nato, introdussero il nuovo delitto
internazionale delle «guerre umanitarie» a copertura degli
interessi della «democrazia» occidentale: risorse energetiche e
dominio su aree strategiche da un punto di vista geo-politico. Stati
Uniti e Unione Europea conducono un gioco di squadra, articolando gli
strumenti tattici nel rispetto dei propri interessi economici,
talvolta contraddittori.
Dalla disintegrazione
della Jugoslavia lo schema è sempre quello: si finanzia
un’opposizione «democratica», si provoca la reazione dei governi
istituiti, si sostengono i «ribelli» sul campo attraverso agenti
coperti (della Cia, del Mossad, dei servizi europei) e attraverso
martellanti campagne mediatiche (televisioni, stampa, social media),
e si gestiscono i processi successivi usando tutte le risorse dei
«diritti civili», del «diritto internazionale», della «libertà».
Quanto sta accadendo in Ucraina è da manuale: la strategia
dell’ampliamento ad est della Nato e dell’Unione Europea, avviata
negli anni novanta (dal 2006 i campi paramilitari in Polonia, di
addestramento dell’opposizione «democratica» ucraina, reclutando
neonazisti e criminali comuni) ha avuto una brusca, auspicata
accelerazione con il rifiuto del governo legittimo ucraino di entrare
nell’area d’influenza europea a condizioni capestro. La spirale
manifestazioni di piazza-repressione è stata ulteriormente
accelerata il 20 febbraio quando i cecchini della «libertà» hanno
sparato sui manifestanti e sulla polizia. La reazione all’escalation
è stata l’autodifesa della popolazione russofona da una
prospettiva certa di pulizia etnica, il referendum, l’annessione
della Crimea alla Federazione Russa, l’annessione dell’Ucraina
(per ora politica, ma il governo di Kiev è già partner della Nato)
all’Unione Europea. Le poste in gioco principali sono due:
l’estensione dell’area d’influenza americano-europea ai confini
con la Federazione Russa, le risorse energetiche dell’area (gas e
gasdotti, petrolio), la prospettiva di aprire nuove linee commerciali
europee al gas americano. Non finisce qui: l’accordo di
associazione del governo «europeista» di Kiev, con la sua milizia
nazionalista e neonazista, susciterà inevitabilmente le reazioni
delle regioni russofone dell’est dell’Ucraina, che già si stanno
mobilitando per seguire l’esempio della Crimea. Così come la Nato
sta velocemente militarizzando i paesi baltici, Estonia, Lettonia e
Lituania, per controllare le rivendicazioni delle minoranze russe.
Uno schema analogo è
stato applicato in Iran, con esiti limitati nonostante l’impegno
israeliano, e in Siria, con esiti catastrofici per il paese ma senza
raggiungere l’obbiettivo. Lo stesso schema è oggi attuato in
Venezuela, per abbattere il governo legittimo di Maduro: anche qui i
«cecchini della libertà» all’opera contro il chavismo; anche qui
l’impegno dei media occidentali ad amplificare il conflitto tra
l’oligarchia proprietaria venezuelana e le classi popolari. La
posta in gioco è, come sempre, il petrolio, e il dominio degli Stati
Uniti sul «cortile» di casa. Lo stesso schema comincia ad essere
applicato alla Cina: a Taiwan stanno iniziando le prime
manifestazioni contro le sempre più strette relazioni economiche con
la Repubblica popolare cinese, in nome della «libertà»
occidentale.
Questi processi, in
Ucraina come in Siria, in Venezuela come in Iran, sotto tutt’altro
che lineari. Ad ogni azione corrispondono reazioni conflittuali, non
sempre prevedibili. Di fatto si sta creando una polarizzazione
principale tra Stati Uniti-Unione Europea e Russia-Cina-America
latina. La guerra economica sta assumendo la forma del confronto
militare.
In questo quadro di
grande conflittualità di cui è facile prevedere l’aggravarsi in
coincidenza con una crisi finanziaria globale annunciata, le società
sotto qualunque regime tendono a serrare le fila, a militarizzarsi.
Nelle società oligarchiche dell’Unione Europea, si accelerano i
processi di consolidamento dei poteri, di smantellamento dei vincoli
della «democrazia rappresentativa», di indebolimento strutturale
delle classi popolari. In questo caso lo schema applicato è quello
della Grecia: impoverire, dominare con tallone di ferro, consolidare
le oligarchie perché facciano il lavoro sporco al servizio
dell’Unione europea e del Fondo monetario internazionale.
In Italia il lavoro
sporco è stato assegnato ai governi Monti, Letta e Renzi, sulle
macerie del ventennio berlusconiano: sono Monti, Letta e Renzi i
nostri cecchini della libertà. Le «riforme» costituzionali e
istituzionali, opera di un parlamento delegittimato e abusivo,
nominato sulla base di una legge elettorale incostituzionale,
eterodiretto dalla finanza internazionale europea e americana,
commissariato da un presidente della Repubblica che rappresenta il
peggio del «migliorismo» tatticista e senza principi del suicidato
Pci, non sono altro che un’opera di cecchinaggio. L’eliminazione
della camera alta del Senato serve a ridurre i controlli degli atti
parlamentari, la pluralità del controllo democratico sul governo.
Con il pretesto di un’irrisoria riduzione dei costi della politica,
invece di intervenire sulla qualità del bicameralismo, garanzia
costituzionale, si vuole trasformare il Senato della Repubblica in
una camera infima delle rappresentanze locali dell’oligarchia
politica. Con il pretesto del rilancio della «crescita» (che non ci
sarà, nella fase del declino del modello di sviluppo capitalistico),
si distrugge il diritto al lavoro e il diritto del lavoro: il primo
intervento concreto dell’attuale governo è la radicale
precarizzazione dei giovani lavoratori, senza diritti e senza futuro.
Con il pretesto della «governabilità» si aggrava
l’incostituzionalità di una legge elettorale che serve soltanto
all’arroccamento di una classe politica corrotta, sempre più
corrotta, sempre più estranea alla realtà drammatica, malthusiana,
di questo paese. Ma le «riforme» sostenute dai media e dai loro
topi da guardia a difesa del formaggio servono soprattutto a
fiaccare, lavorare ai fianchi, stroncare il tessuto politico, sociale
e culturale di questo paese, connivente con le peggiori nefandezze ma
anche ricco di potenzialità di reazione, soprattutto ricco di una
lunga e profonda tradizione di lotte per la democrazia, dal
socialismo all’antifascismo, dalla Resistenza ai movimenti
rivoluzionari degli anni sessanta e settanta. Le esperienze di
cittadinanza attiva del movimento No Tav, del movimento per l’acqua
pubblica, di tanti movimenti settoriali ma di buona qualità
progettuale, dello stesso Movimento 5 Stelle, per tanti aspetti
contraddittorio ma sicuramente antagonista della casta politica e
impegnato in tentativi di progettazione di un «altro» modello di
società, l’esperienza in corso della lista elettorale L’altra
Europa con Tsipras, in cui coesistono vecchi vizi della migliore
sinistra italiana (primo tra tutti l’élitarismo azionista) e
antiche, indispensabili, virtù etiche e internazionaliste, possono
contrastare questa deriva irreparabile di una pseudo-democrazia
rappresentativa a copertura di un’oligarchia finanziaria e
istituzionale da isolare e attaccare con le armi della
controinformazione, della noncollaborazione, del sabotaggio, per
accumulare forze di cambiamento e sviluppare reti di collegamento,
nazionali e internazionali. Sui pochi, le oligarchie economiche e
politiche, l’aristocrazia dei peggiori, dei corrotti corruttori,
deve stringersi l’opposizione attiva dei più, del vecchio e del
nuovo proletariato, da ricomporre in nuovo schieramento di classe. La
metaforica parola d’ordine di Occupy Wall Street, «voi 1%, noi
99%» può orientare le pratiche di un’altra globalizzazione, di
rifondazione di una progettualità politica che rielabori e sviluppi
le esperienze dei processi di liberazione del Novecento nella
prospettiva di un socialismo libertario che permetta all’umanità
di uscire dal vicolo cieco del capitalismo post-industriale.
Ricordando sempre, con il Brecht di Me-ti, che è nei vicoli ciechi
che avviene il cambiamento.
I bombardamenti economici
della prossima crisi finanziaria finiranno di distruggere quanto
sopravvive dei patti sociali e delle società. «Socialismo o
barbarie» tornerà a costituire l’alternativa drammatica e
concreta di un conflitto ancora oscurato e occultato da potenti
operazioni comunicazionali e che riemergerà in tutta la sua forza.
Un importante segnale in questa direzione ci viene dalla Bosnia
Erzegovina, già laboratorio della strategia europeo-americana: nel
mese di febbraio, in tutto il paese, a Serajevo, Tuzla, Zenica, si
sono moltiplicate le manifestazioni contro i palazzi del potere,
assaltati e incendiati da una popolazione che nella lotta alla
politica economica imposta dall’Unione Europea ha superato le
divisioni «etniche» e «religiose» esasperate strumentalmente
negli anni novanta. Presto o tardi i nodi vengono al pettine.
E vengono al pettine, nel
nostro sciagurato paese, i nodi di una «sinistra» che ha rinunciato
a svolgere il proprio ruolo, prima di tutto confrontandosi con la
complessità dei cambiamenti provocati e attuati dal liberismo
internazionale e dalla sua variante locale, il devastante ventennio
berlusconiano in continuità con la tradizione profonda del fascismo.
Questa «sinistra» si è fatta «destra» (i pentimenti degli
ex-comunisti e i latrocini dei socialisti, negli anni ottanta, furono
solo l’inizio di una deriva inarrestabile), tra destra e sinistra
si è formato un partito unico, un’«intesa» solidale, al servizio
della finanza internazionale e dei gendarmi europei e americani.
Contro questa deriva, e senza nessun disegno riformista, dobbiamo
oggi riprendere il percorso interrotto negli anni ottanta,
ricostruendo pratiche di elaborazione teorica e di organizzazione
politica che producano soggettività autonome e rivoluzionarie,
estranee a logiche di ricambio della classe dirigente oligarchica e
impegnate invece nell’analisi concreta delle situazioni concrete,
nella costruzione di contropotere dal basso, in un contesto sociale
che «liquido» non è, in cui il proletariato tradizionale (la
classe operaia, la piccola borghesia, i contadini) sta ampliando e
articolando la sua composizione di classe (il ceto medio dei servizi,
i migranti), e in cui si stanno rapidamente polarizzando le
disuguaglianze. Le esperienze rivoluzionarie del Novecento, rimosse
attivamente da campagne di destra che hanno sistematicamente trovato
complici a sinistra, devono essere non archiviate ma studiate e
rielaborate nel lavoro teorico, a partire dal socialismo libertario
degli anni trenta e quaranta e dalle aporie del «socialismo reale».
Massimo socialismo e massima libertà, rovesciando la piramide
sociale.
Quanto alla pretesa
«modernità» del liberismo, dell’analfabetismo mediatico,
dell’impoverimento economico e culturale dei sudditi e dei servi
volontari, della criminalità diffusa, della distruzione programmata
della scuola pubblica, della «grande bellezza» della discarica
sociale, della prospettiva di aggiungere alla qualifica italiota di
poeti, santi e navigatori quella di camerieri e cuochi al servizio
del turismo (è questa l’unica vocazione riservata alla bella
Italia dal marketing internazionale), dell’eterno presente del
consumo di merci, non basterà un twitter a cancellare questi orrori.
“Il Ponte”, anno LXX
n.4, Aprile 2014
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