La demonizzazione, che
negli Stati Uniti d'America colpì la canapa indiana fin dagli inizi
del secolo scorso attraverso vere e proprie campagne d'opinione,
aveva connotazioni se non razzistiche almeno etnocentriche. Il nome
con cui si chiamarono le sigarette riempite con le foglie di quella
pianta, marijuana (“mariagiovanna”), ne designava la provenienza
dal Sud, dalle terre degli “ispanici”, e ad esse vennero subito
associati comportamenti criminali piuttosto gravi. Anche per gli
effetti di lungo periodo di quelle campagne, il proibizionismo verso
il fumo di quelle foglie e quello dell'hascish, diffuso in tutto
l'Occidente industrializzato, ha creato una sorta di barriera non
solo intorno alle varietà di Cannabis (l'indica, appunto, e
la sativa) che contengono in quantità elevate il famigerato
THC, l'agente che rende psicotrope foglie e resine, ma perfino
intorno alle canape usate per i tessuti, in cui il principio attivo è
assai poco presente. Particolarmente grave è stata poi la
proibizione dell'uso terapeutico dei derivati della cannabis. Sebbene
ostacolati dalle autorità esistono ormai da decenni studi seri, con
sperimentazioni più che attendibili, che comprovano l'efficacia di
farmaci a base di “cannabinoidi” in numerose patologie e
particolarmente contro certi dolori quasi insopportabili. La scelta
dei governi è stata però, in genere, quella di ostacolare la
produzione e l'uso della cosiddetta “marijuana terapeutica”,
proibendo ogni coltura della pianta, con la scusa dell'esistenza di
farmaci ugualmente o maggiormente efficaci. Tutto ciò ha spinto
diversi sofferenti, singoli o in gruppo, sulla via
dell'autocoltivazione illegale oppure a costose importazioni.
La battaglia politica per
la legalizzazione delle cure a base di canapa, iniziata una trentina
di anni fa, ha ottenuto buoni successi negli Stati Uniti, ove – in
seguito a referendum popolari – una decina di Stati ha spezzato il
proibizionismo, ma continua una sorta di guerra – a volte aperta a
volte sotterranea e strisciante – delle istituzioni federali
antidroga per sabotare le nuove, più tolleranti legislazioni. In
Italia la strada per una legislazione regionale favorevole alla
marijuana terapeutica distribuita dal servizio sanitario pubblico è
stata aperta nel 2010 dalla Puglia. Leggi analoghe sono state
promulgate negli anni successivi da altre regioni, specie dopo che il
governo Monti ha emanato direttive che in sostanza convalidavano
l'efficacia delle cure. Il Consiglio Regionale dell'Umbria, ai primi
d'aprile, sulla spinta del pronunciamento contro la Fini-Giovanardi
della Corte Costituzionale, ha finalmente approvato con un voto
trasversale (contrari solo i Fratelli d'Italia) una legge in materia:
la Regione è la nona del gruppo e la sua legge, a sentire gli
esperti, è ben fatta, la più avanzata, giacché i farmaci a base di
derivati delle canape, dopo il placet ospedaliero o specialistico,
saranno dispensati gratuitamente con ricettazione del medico di base.
In più s'è deciso – per ridurre i costi – di avviare
sperimentazioni produttive controllate nel territorio regionale. Il
nostro augurio è che questa vittoria del buon senso scientifico apra
le strade in Umbria e in Italia a politiche sulle droghe che abbiano
come criterio la riduzione del danno individuale e sociale e che
contemplino la legalizzazione, ormai più che matura, dell'uso di
droghe leggere controllate. La nostra preoccupazione è che in Umbria
accada quel che è successo nelle vicine Marche, ove al Consiglio
Regionale, nel marzo scorso, una interrogazione dei Verdi denunciava
come la legge sulla marijuana terapeutica, emanata un anno fa, sia
tuttora totalmente disattesa.
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