Per noi che con Luigi
Pintor abbiamo lavorato, e anzi vissuto, fianco a fianco per
tantissimi anni, questo libro che raccoglie le lettere della sua
mamma Dedè Dore Pintor ha evidentemente un sapore speciale (Da
casa Pintor. Una’eccezionale normalità borghese: lettere
familiari, 1908-1968. A cura di Monica Pacini, Viella). Perché
ci fa entrare nell’intimità della sua famiglia, nella sua storia,
un lungo tragitto fra Cagliari e Roma, attraverso il Novecento –
dagli inizi fino a poco dopo la nascita del «manifesto» – dandoci
conto di affetti, gioie, dolori, riflessioni sul presente e sul
passato, ipotesi sul futuro; restituendoci a tutto tondo la
personalità dei suoi famosi zii che per via dei cenni frammentari ma
affettuosi che ne tracciava Luigi nelle chiacchiere ci sono col tempo
diventati quasi familiari: lo zio Fortunato, il più anziano dei
Pintor, austero direttore della Biblioteca del Senato e collaboratore
di Gentile; la sorella Cicita, con cui ha sempre vissuto e nella cui
casa di Roma un giovane Giaime era venuto a vivere nel Trentacinque,
abbandonando Cagliari per frequentare un liceo della capitale; lo zio
Pietro, generale, morto nel Quaranta in uno strano incidente aereo
(come Balbo) alla vigilia di esser nominato capo di stato maggiore al
posto di Badoglio; lo zio Luigi, funzionario di alto rango e vice
governatore nientemeno che della Cirenaica nei primi anni Venti.
Critica ma non
dissidente
Dedè muore nel ’73, ma
i nuovi media l’hanno negli ultimi anni disamorata all’abitudine
della corrispondenza e infatti si chiede perplessa cosa ne sarà
della parola scritta. (E ancor più me lo chiedo io ora, proprio
riflettendo sul valore di questo libro: da quando c’è la
teleselezione nessuno più scrive a nessuno e i rapporti si
inaridiscono dentro frettolosi messaggi o si sperdono in parole
lasciate al vento. Sarà difficile ricostruire la memoria dei nostri
anni).
Ma le lettere di Dedè
Pintor hanno un interesse che va ben oltre quello che naturalmente
suscita in chi di Luigi è stato amico. Intanto sono piacevolissime,
non – o non solo – come ci si potrebbe aspettare, quelle dolorose
di una madre che ha avuto in sorte di sopravvivere per ben trent’anni
al figlio dilaniato da una mina sulla linea Gustav, nel Molise. I
suoi scritti sono una testimonianza ironica e spiritosa del suo
tempo, un’acuta osservazione dell’Italia fascista e postfascista,
vista con gli occhi della borghesia colta, né fascista né
antifascista, distaccata sebbene imparentata con l’establishment,
spesso critica ma non al punto di essere dissidente, come già altri,
per esempio i Lombardo Radice, con cui pure si frequentavano molto.
Normale, insomma:la politica, l’impegno, fino al sacrificio della
vita, sono cose che arrivano solo con la seconda generazione, quando
la storia afferra e la scelta si impone anche a chi, come a Giaime,
aveva pensato solo alla letteratura, o a Luigi, che avrebbe voluto
essere pianista e invece ha fatto il militante (ma il suo pianoforte,
però, l’ha sempre rimpianto).
Una donna molto
simpatica, Dedè – l’ho conosciuta già anziana e molto sorda,
nella casa di via Nizza, dove, dopo il trasferimento a Roma, erano
andati ad abitare i Pintor) – anche per il suo modo di vivere la
propria condizione di donna. Ne scrive con molta autoironia, per il
destino di madre e di sposa cui finisce per piegarsi, pur nella
consapevolezza dello spreco del proprio talento che questa induce e
cui si ribella scrivendo moltissimo, prima per riviste e manuali
didattici, poi lettere e lettere a parenti ed amici, vere cronache
del suo tempo. «Quando Giaime sarà diventato un grand’uomo –
scrive al cognato nel 1920, il primogenito vecchio di neppure un anno
– i biografi, per esaltarne meglio l’autodidattismo, diranno:
nato da un modesto impiegato, dilettante d’arte da strapazzo, e da
una madre dominata dall’innocente mania di maneggiar la penna a
dritta e a rovescio».
Da casa Pintor ha
comunque un interesse politico generale che va ben al di là della
testimonianza di un tempo. Tanto più se posto in relazione con il
libro di qualche anno fa scritto da Maria Cecilia Calabri: Il
costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, non a caso
assai spesso citato dalla curatrice Monica Pacini. Perché
l’integrazione delle lettere di madre e figlio consente di fare
ulteriore chiarezza su un tema che ha dato luogo recentemente a una
dura controversia su come interpretare un passaggio fondamentale
della storia italiana.
C’è chi ha infatti
sostenuto che chi non era antifascista puro e duro prima e lo è
diventato dopo, anzi, addirittura comunista, è stato un
voltagabbana. Di Giaime, che pure è morto perché ha sentito il
dovere di attraversare le linee per congiungersi alla Resistenza, pur
essendo in salvo nell’Italia già liberata dalle truppe alleate, è
stato persino detto che era un agente dell’intelligence
britannica.
Una generazione di
redenti
In ballo sono stati
tirati in tanti, praticamente tutti gli intellettuali italiani della
generazione maturata
negli anni ’30:
Vittorini, Quasimodo, Gatto, Penna, Brancati, Pratolini, Bilenchi,
Alicata, Ingrao, Galvano della Volpe, Zavattini, così come i
pittori, Guttuso e Mafai fra gli altri. E questo perché avevano
appartenuto al Guf, o partecipato ai Littoriali e perché scrivevano
sulla rivista di fronda promossa da Bottai, «Primato», tutti
«redenti» nel dopoguerra «grazie al passaggio sul fonte
battesimale del Pci». Ma chi mai avrebbe potuto trasmettere
antifascismo a quella generazione? Non poteva il vecchio
antifascismo, liberale ed élitario, di prima della marcia su Roma,
che non aveva sostanza capace di affascinare; non potevano essere gli
antifascisti della sinistra perché in esilio o in prigione. Dice
Laura Lombardo Radice Ingrao ricordando quei tempi in una
testimonianza raccolta da sua figlia Chiara in Solo una vita:
«I maestri di vita dovemmo cercarli altrove. Non nella generazione
precedente, dell’anteguerra, nobili ma sconfitti, messi
nell’angolo». Il «lungo viaggio» fuori dal fascismo, cominciò
con l’essere fascisti e capire che non si doveva esserlo –
testimonia Vittorini, e molti altri. Le vie furono più articolate e
complesse. Ma proprio per questo il processo fu assai più ricco.
Passa attraverso una stagione, quella degli anni Trenta, in cui
l’Italia è isolata, la stragrande maggioranza della popolazione
agnostica, persino affascinata dagli aspetti modernizzanti del
regime, ancora non scossa dall’orrore dei bombardamenti e della
guerra, quando, ma solo allora, comincia a formarsi una
consapevolezza che sbocca per molti nell’impegno della Resistenza.
La singolarità della
vicenda italiana sta nel fatto che, in gran parte grazie al coraggio
di Palmiro Togliatti, fu proprio questa generazione ad esser promossa
alla guida della sinistra, sacrificando, anche con amarezza, compagni
eroici che uscivano dalle prigioni o tornavano dall’esilio, e che
avevano però necessariamente perduto il contatto con la realtà
italiana. Il comunismo italiano è stato migliore di quello di altri
paesi anche per questo.
Le lettere di Dedè
Pintor ci consegnano in questo senso una testimonianza preziosa,
facendoci capire meglio le complessità, le sfumature, le
contraddizioni di un passaggio storico per nulla netto e schematico.
“il manifesto”, 5
novembre 2011
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