In occasione della morte di Pietro Secchia l'articolo commemorativo per Rinascita fu scritto da
Paolo Spriano, lo storico quasi ufficiale del Pci. In esso, pur con
qualche reticenza, egli dà conto del coraggio e della coerenza del
dirigente del movimento operaio e del capo della Resistenza, la cui biografia
– negli anni Novanta – avrebbe subito la falsificazione e
l'insulto. Miriam Mafai lo trasformò quasi in una macchietta
(“il comunista che sognava la lotta armata”) per dare il suo
contributo al furore revisionistico degli ex comunisti.
Di Spriano mi è piaciuto il passaggio finale sulla fedeltà all'Urss e sulle botti stagionate nella cantina di Stalin. Lascia intendere quello che quasi tutti i vecchi comunisti sapevano e comunicavano: in Italia l'uomo di fiducia di Stalin non era l'idealista Secchia, ma il pragmatico (e cinico) Togliatti, tanto amato dalla Mafai. (S.L.L.)
Di Spriano mi è piaciuto il passaggio finale sulla fedeltà all'Urss e sulle botti stagionate nella cantina di Stalin. Lascia intendere quello che quasi tutti i vecchi comunisti sapevano e comunicavano: in Italia l'uomo di fiducia di Stalin non era l'idealista Secchia, ma il pragmatico (e cinico) Togliatti, tanto amato dalla Mafai. (S.L.L.)
La scomparsa di Pietro
Secchia, del compagno, dell'amico, ci colpisce con particolare
violenza. Quante volte, negli ultimi anni, solcati per lui dal dolore
della perdita della sua compagna, l'abbiamo visto in quello studio
che aveva ricavato in un abbaino della casa dove abitava, dalle parti
del Buon Pastore a Roma, e, sempre, Secchia ci riceveva con il suo
largo sorriso, la voce forte e la parlata aperta del biellese di
buona razza, di combattenti (era nato a Occhieppo Superiore nel
1903), e si cominciava a discorrere della storia del partito che per
Secchia era la storia, la vita, della sua vita. L'ultima volta ne
discorremmo pubblicamente, poche settimane fa, presentando a Roma il
suo più recente lavoro, Il Partito comunista italiano e la guerra
di liberazione: 1943-45. Si andò avanti fino all'una di notte in
un dibattito appassionato, dinanzi a una sala piena di giovani.
Secchia era stanchissimo, il male che l'aveva già portato più di un
anno fa sull'orlo della tomba, l'aveva riagguantato. L'accompagnai
fino a casa. Era molto contento della testimonianza di stima e di
affetto che aveva sentito intorno a sé, del modo come la nuova
generazione vive i problemi della nostra storia. E già nuovi
progetti di studi e di pubblicazioni elencava e poneva in cantiere.
Può essere diventato un
luogo comune della nostra retorica affermare che un vero
rivoluzionario si distingue per la sua modestia; eppure, chi ha
conosciuto Secchia sul lavoro sa che egli aveva in sé innato questo
connotato di riconoscimento, sa che la sua modestia — cosa ancora
più rilevante — era la stessa quando si trovava alla testa
dell'organizzazione del partito, come vice-segretario generale, che
dopo, sa che il costume suo, di cortesia, di franchezza, metteva
l'interlocutore immediatamente a suo agio. Uomo di fermissime
convinzioni, carattere tutt'altro che privo di spigoli, Secchia dava
immediatamente la percezione di essere un dirigente operaio. Non era,
in verità, di origine operaia nel senso che era stato studente, ma
l'ambiente familiare e quello sociale in cui era cresciuto, di paesi
di una zona proletaria di grandi tradizioni socialiste, era stato la
prima scuola a cui da ragazzo era andato. E quella tradizione Secchia
aveva valorizzato criticamente in un saggio sul movimento operaio del
Biellese (Capitalismo e classe operaia nel centro laniero in
Italia, 1960), molto interessante sia per il punto di vista
rigorosamente classista, in cui si rispecchiava la sua esperienza di
giovane socialista (iscritto al PSI nel 1919 a 16 anni, poi al PCI,
con Livorno, nel 1921) che è legato al grande filone delle lotte
memorabili dei lavoratori tessili, sia per il richiamo, direi più
dialettico che polemico, a quella corrente riformista di pionieri del
socialismo italiano che ebbe proprio a Biella una delle sue
roccaforti, la corrente di Rigola, di Quaglino, di Rondani, di
Luisetti. Quel giovane di 18 anni che fu al suo paese uno dei
fondatori del nostro partito apparteneva a una minoranza di operai e
di studenti che non solo avrebbe dato al PCI quadri nazionali del
valore di Antonio Roasio, Guido Sola Tittetto, Iside e Luigi Viana,
ma che avrebbe costituito nella guerra civile del primo dopoguerra,
uno dei più agguerriti reparti della resistenza operaia e dopo, nel
lavoro clandestino del partito (56 compagni biellesi furono
condannati dal Tribunale speciale e, tra i più giovani, di una
generazione successiva, basti fare un nome caro a Secchia, quello di
Franco Moranino).
Conviene riflettere su
questa prima impronta della milizia rivoluzionaria di Secchia perché
essa illumina tutta la sua biografia politica. Egli, con i suoi
coetanei di fede socialista, entra nel movimento sull'onda del
grande, esaltante fatto della Rivoluzione d'Ottobre, vive non
soltanto l'atmosfera del biennio rosso ma quella dei primi «tempi di
ferro e di fuoco».
E' nella lotta armata ai
fascisti che si compie la sua scelta, che egli diventa un
«rivoluzionario di professione». Ma c'è qualcosa di più, qualcosa
che notò proprio Palmiro Togliatti in uno dei rari articoli che
questi abbia dedicato, negli anni più fondi della clandestinità,
alla figura di un compagno che cadeva nelle mani del nemico. Era il
1931. Secchia era diventato un dirigente di primo piano di quella
«falange d'acciaio» di cui parlò Granisci al congresso di Lione,
uno dei giovani conquistati alla linea del nuovo gruppo dirigente.
Nel 1924 aveva partecipato a Mosca al quinto congresso
dell'Internazionale, il 1925 lo aveva passato in galera a Trieste.
Nel 1927, come responsabile del centro interno della FGCI, Secchia
aveva sviluppato una attività cospirativa straordinaria (definirla
anche temeraria, per lo slancio e il coraggio dimostrati
personalmente, è dire semplicemente la verità; del resto chi voglia
sapere che cosa Secchia abbia fatto in quegli anni si veda appunto il
suo prezioso libro, L'azione svolta dal partito comunista in
Italia durante il fascismo, negli Annali Feltrinelli del 1969, e
tenga presente che di tutta quell'azione Secchia fu uno dei registi e
insieme degli esecutori più importanti). Egli stesso parlò, nel
1928, di un «atteggiamento strafottente ed eroico del PCI dinanzi
alle leggi eccezionali». I giovani come Longo e Secchia avevano
allora un atteggiamento polemico nei confronti della direzione, con
posizioni e tesi che vennero tenacemente combattute, ma fu anche la
loro solidarietà con Togliatti, nella battaglia contro Tasca e
contro i «tre», negli anni immediatamente successivi, a garantire
la solidità del gruppo dirigente stretto intorno a Togliatti. Nel
1928 Secchia rappresentava la FGCI nell'ufficio politico del partito,
e fu cooptato nel CC. Andrà delegato a Mosca, per i giovani
comunisti italiani, con Amadesi, al VI Congresso del Komintern.
Il suo impegno, nel
1929-30, ha un segno ben preciso, sia politico che organizzativo (e
certo in lui il nesso tra l'uno e l'altro momento dell'azione del
partito era particolarmente stretto, tipico del suo modo di
dirigere): è il segno della battaglia data nel Centro del partito
all'estero per riportare all'interno del paese, a costo di qualunque
sacrificio, il lavoro di direzione. Dice in una sessione del CC: «Certo, il nuovo lavoro organizzativo ci costerà maggiori perdite di
quante ne abbiamo avute finora: sarebbe ottimismo insensato
prospettarci il contrario. Ma il sistema vecchio, quello che stiamo
superando, costandoci meno, non ci permette di metterci, come
partito, alla testa delle masse in movimento... Il sistema di lavoro
di questi anni, con centro di gravità all'estero, ha creato un nuovo
tipo di funzionario per il quale il lavoro che proponiamo è
straordinario, pazzesco. Ma questo non lo era per il funzionario di
anni fa, quando il lavoro si compiva in Italia, per l'interno, ed
esclusivamente per esso. Noi dobbiamo tornare a questo tipo di
funzionario, di rivoluzionario professionale, per cui le difficoltà
non sono delle giustificazioni per fare poco, ma degli ostacoli da
superare».
Ripensandoci ora, ci pare
che ci sia tutto lo stile di Secchia in questo intervento: il suo
brusco richiamo all'azione, all'impegno senza fronzoli e riserve
opportunistiche, comunque mascherate; quello stile che, nel corso
della Resistenza, quando egli sarà commissario generale delle
Brigate d'assalto Garibaldi, ne farà l'alfiere più tenace della
lotta all'attendismo. Nel 1929-30 era l'ora della «svolta», quella
svolta che Secchia storiografo rivendicherà, nelle nostre polemiche,
come una tappa fondamentale dello sviluppo del partito. E va
rammentata l'importanza che ha avuto, proprio nella sua riflessione
di storico, la rivendicazione della continuità dell'azione del
quadro comunista. Si veda appunto, nel suo ultimo libro, Il PCI e
la guerra di liberazione, lo straordinario elenco di dirigenti
della Resistenza, di comandanti e combattenti parmigiani che venivano
dal carcere, dal confino, dall'emigrazione: una documentazione molto
importante a suffragio di una tesi che Secchia ha sempre difeso ed
esaltato: il valore decisivo del fattore d'organizzazione nella
Resistenza, la portata del contributo di una minoranza cosciente ed
eroica di rivoluzionari di professione, e quindi anche il valore del
«sacrificio» della svolta. Secchia, allora, nel 1930, ne era
l'animatore. Alla fine di quell'anno rientrava in Italia alla testa
del nuovo Centro interno. Il partito aveva convocato il suo IV
Congresso, quello che si sarebbe tenuto a Colonia. Il giovane
dirigente biellese organizzava le assemblee precongressuali. Ecco
come egli stesso le avrebbe rievocate: «Certo, erano assemblee di
tipo particolare. I congressi provinciali li organizzavamo spezzati,
suddivisi in due o tre riunioni di una dozzina di partecipanti
ciascuna. Il congresso di Torino lo tenemmo in sei riunioni, tre in
provincia e tre in città. Partecipai a queste ultime, così come
partecipai al congresso di Modena (tenuto in un fienile a Carpi) e a
quello di La Spezia, tenuto in un cascinale e durato il sabato notte
e l'intera domenica, di Milano, in una osteria fuori città. Al
termine di ognuna di quelle riunioni (congressi) veniva stabilito il
numero dei delegati al congresso nazionale senza farne i nomi, questi
venivano designati poi da una commissione ristretta».
Ma al congresso nazionale
Pietro Secchia non poté prendere parte. Fu arrestato, il 3 aprile
1931, a Torino e condannato poi dal Tribunale speciale per la difesa
dello Stato a diciotto anni di carcere. Uscirà dalla prigionia,
sofferta tra carcere e confino, soltanto nell'agosto del 1943. Ed
ecco, proprio nel giugno del 1931, a Parigi, sul giornale del partito
(La vie prolétarienne), organo del PCF in lingua italiana,
Togliatti pubblicò un articolo in omaggio al compagno arrestato.
Scrisse che in Secchia si univano « la vecchia guardia e la
generazione giovane », che questo era il carattere distintivo della
sua personalità, giovane e anziano nello stesso tempo, trait
d'union tra la generazione dei fondatori del partito e quella
nuova leva che era accorsa sotto le bandiere comuniste negli anni
della crisi Matteotti e delle leggi eccezionali. Credo di non
commettere una indiscrezione ricordando questo episodio: Secchia
ignorava che Togliatti avesse scritto quell'articolo, e quando glielo
feci vedere, qualche anno fa, ne fu visibilmente commosso.
Naturalmente, nel libro che ha dedicato a quegli anni non ne fa
parola: quanti compagni avrebbero resistito alla tentazione di un
simile attestato?
Nei suoi più recenti
ricordi Secchia ha parlato ampiamente del periodo carcerario, del
confino di Ponza e di Ventotene, del rientro nella lotta pochi giorni
prima dell'armistizio dell'8 settembre. Avrebbe dovuto, come gli
altri compagni, «godere» di una licenza a casa almeno di una
settimana. Invece, dopo Porta San Paolo, è spedito al Nord, l'11
settembre, con le direttive della guerra partigiana, raccoglie i
compagni dirigenti di Firenze, il giorno dopo è a Bologna. Dovrebbe
ora puntare su Milano ma prima, il 14, fa una scappata a Borgosesia.
Ha un appuntamento con Moscatelli e non vuole mancare. Racconterà
poi, con una punta di civetteria, la sorpresa di Moscatelli. Arrivano
anche Flecchia e quel ragazzo di diciassette anni, il più giovane
dei Pajetta, Gaspare, che cadrà eroicamente. Secchia, rievocando
quella notte, aggiunge semplicemente: «La Resistenza era cominciata». Quale sia stata, per quei venti mesi, la parte sua, di
commissario generale delle Brigate d'assalto Garibaldi, il più
vicino collaboratore del compagno Longo, è consegnato alla storia
d'Italia. E quale il contributo politico, di elaborazione e di
orientamento, si può leggere, numero per numero, in La nostra
lotta, negli articoli, poi raccolti nel volume, I comunisti e
l'insurrezione, ristampati recentemente dagli Editori Riuniti.
Negli ultimi anni Secchia
ha dedicato le sue migliori energie a una riflessione sulla guerra di
liberazione, con una coerenza che di opera in opera emerge più netta
e che abbiamo già avuto più di un'occasione di mettere in rilievo.
La polemica insita in quel ripensamento aveva due bersagli: una
visione agiografica della lotta, come di un indistinto moto nazionale
di popolo, e una recriminazione sull'«occasione rivoluzionaria»
mancata. Ad esse Secchia contrapponeva, oltre a quei motivi già qui
ripresi sulle virtù dell'organizzazione, lo stretto legame tra il
carattere di classe e il carattere di guerra di unità nazionale che
la Resistenza riuscì a stabilire. Scrupolosa fino alla minuzia è
l'indicazione, in tutti i lavori di Secchia, dei limiti oggettivi e
soggettivi della guerra di liberazione, dei suoi condizionamenti
internazionali. E sui problemi aperti da quella guerra, sull'Italia
del secondo dopoguerra, Secchia aveva in animo di tornare in un nuovo
volume degli Annali Feltrinelli che avrebbe completato la triade,
dopo quello sul 1926-32 e quello sul 1943-'45. Ma anche se questo
lavoro resta incompiuto, quando andiamo a riguardare quello che c'è
già di suo sull'insieme di un'esperienza storica siamo impressionati
della mole del contributo. Si può partire dalla vivacissima cronaca
partigiana della leggendaria formazione garibaldina della Val Sesia
scritta, per i tipi di Einaudi, con Vincenzo Moscatelli (Il
Monterosa è sceso a Milano)
per passare ad alcuni libri grande respiro, forniti anche qui in
collaborazione con un comandante partigiano, e insieme uno studioso,
come Filippo Frassati, La Resistenza e gli alleati e
una Storia della Resistenza che
ebbe larga fortuna di critica e di pubblico; quel lavoro è culminato
poi in una impresa ancora più ambiziosa a cui Secchia attendeva
da anni (con Enzo Nizza), la Enciclopedia dell'antifascismo e
della Resistenza di cui sono già apparsi due volumi mentre egli
aveva già messo a punto il terzo volume, che deve giungere fino alla
lettera «M», una impresa a cui l'autore teneva molto e che
converrà continuare.
Ma non si scordi neppure
quel piccolo gioiello che è Aldo dice 26 X 1, sui caratteri
dell'insurrezione popolare del 25 aprile 1945, che Secchia pubblicò
da Feltrinelli dieci anni fa e di cui era particolarmente fiero
perché in esso già si fornivano quelle risposte che la più vicina
contestazione avrebbe poi risollecitato, con una carica polemica rinnovata. Né va taciuto il recente Le armi del fascismo: 1921-71 , anch'esso scritto con l'occhio ai lettori nuovi, di fronte al
rinascere della violenza fascista e della provocazione reazionaria.
La tematica
dell'antifascismo, la parte delle masse in questa battaglia di
decenni e non di una sola epoca, il vigile discorso ai giovani sul valore
di una carica garibaldina, sono state dunque le costanti di un
impegno che Secchia ha continuato nei suoi studi con lo stesso
spirito che aveva animato la sua figura di capo della Resistenza.
Eletto nella direzione
del PCI nel 1945 col V Congresso e divenuto vice segretario, Secchia
si gettò con passione nella costruzione di quel partito di massa che
proprio nella Resistenza aveva posto le sue premesse più solide. E'
nota la parte personale da lui avuta non soltanto in quell'opera
collettiva ma nelle grandi battaglie date dal partito per la difesa
della democrazia in Italia (basti citare il 14 luglio, dopo
l'attentato al compagno Togliatti, o la campagna contro la legge
truffa), sia come organizzatore sia come parlamentare (dalla
Costituente alle successive legislature, alla Camera e poi al Senato
di cui è stato anche vicepresidente, godendo di un prestigio e di
una stima che gli erano tributati da tutti). Meno nota è la vicenda
di un dissenso politico interno e dei suoi termini reali, su cui si è
sbizzarrita spesso la stampa borghese. Credo che, al di là dei dati
di cronaca — che andranno completati e rimeditati — lo stesso
Secchia, in una sua nota polemica (in cui lo sfogo personale aveva la
sua parte) allegata, nel gennaio del 1970, al libro su L'azione
svolta dal PCI già citato, abbia fornito alcune valide
indicazioni: una sottolineatura, che è anche generazionale, della
tradizione comunista espressasi nella cornice del periodo cosiddetto
del «socialismo in un solo paese», una riaffermazione puntigliosa
dei legami con i paesi socialisti, una formazione,
terzinternazionalista che Secchia rivendicava pienamente, al di là
della questione stessa del giudizio sullo stalinismo su cui egli non
ci ha dato se non qualche battuta carica di passione (come quella che
la sua botte, a differenza di altre, non era mai stagionata nelle
cantine di Stalin).
C'è stato il brusco
allontanamento dalla segreteria, ne] 1954, c'è stato un problema
ulteriore di non facili rapporti politici con il gruppo dirigente del
partito, con lo stesso Togliatti (sulla cui opera la valutazione
ufficiale di Secchia appariva sfumata ma soprattutto incerta). Il
problema vero che si porrà studiando, con la necessaria serenità,
la personalità politica di Pietro Secchia sarà però di natura ben
diversa dall'ipotesi, oggi corrente in una semplificazione
pubblicistica, di una contrapposizione permanente di linee, che a me
pare non ci sia mai stata come tale né in una mitizzazione un po'
romanzesca di quella « doppiezza » di cui si è spesso parlato nel
partito a proposito del primo decennio del secondo dopoguerra. Il
problema vero, che non riguarda, del resto, solo Secchia ma
complessivamente una parte di dirigenti e militanti della sua
generazione, resta quello del contrastato rapporto tra la tradizione
di cui si diceva e la necessità di un rinnovamento generale di
metodi, di un mutamento di prospettive. Il problema è quello di come
si sia vissuta e accettata o meno da parte loro la ricerca della via
italiana al socialismo e in generale l'analisi delle novità, delle
crisi, delle lacerazioni del movimento comunista internazionale, dopo
il 1953, dopo il 1956, dopo la rottura tra URSS e Cina, dopo la Praga
del 68.
Secchia sentiva comunque
fortemente, anche nell'amarezza di una posizione difficile e
insidiata dalla speculazione dell'avversario, il senso della
disciplina e della solidarietà politica, e non solo (e non tanto...)
di quella formale. Il libretto che dedicò due anni fa ai giovani e
al suo caro amico Vittorio Vidali (Le armi del fascismo) in
cui discorreva sia dello squadrismo di cinquantanni fa sia dei
pericoli attuali di neofascismo e di nuovo «blocco d'ordine», era
in primo luogo un atto di costruttiva partecipazione, di contributo
politico positivo (dato anche col buon senso che lo
contraddistingueva nella sua opera quotidiana di dirigente) alla
chiarificazione di una lotta comune essenziale per il movimento
operaio e democratico. Secchia metteva giustamente l'accento sui
problemi dello Stato, del suo apparato repressivo in cui si annidano
gravi pericoli, sulla lotta contro i residui della legislazione
fascista, sul compito di rinnovare gli istituti e gli organi chiamati
a salvaguardare la Repubblica. E concludeva con parole che possiamo
accogliere come il suo più appassionato messaggio ai compagni: «E'
indispensabile che i lavoratori, i partiti, i sindacati, i movimenti
democratici, i giovani, sentano e siano disposti a lottare per queste
riforme politiche con lo stesso slancio con il quale lottano per le
riforme della casa, della scuola, della sanità, dei trasporti.
Altrimenti potremmo correre il rischio di vederci crollare addosso
tutto perché, mentre pensavamo alla casa e ai trasporti, non ci
eravamo accorti che altri stava minando dalle fondamenta la casa
comune della Repubblica democratica. Si tratta di una azione che non
può essere demandata soltanto al Parlamento, ma che deve essere
sostenuta, portata avanti dall'attività, dalle lotte e dall'azione
unitaria di larghe masse in tutto il paese. Si tratta di parte
essenziale e decisiva della lotta contro il fascismo».
“Rinascita”, 13
luglio 1973
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