Altiero Spinelli |
C’è una notizia uscita
sui giornali nelle scorse settimane anzi, come sempre più spesso si
usa, un retroscena relativo al modo il cui è stato fissato il
rapporto deficit/pil non superiore al 3%. Dai giornali risulterebbe
che sarebbe il parto di alcuni eurocrati, neppure di primo piano,
che avrebbero scelto il numero 3 in quanto evocativo, per certi
aspetti “magico”, senza nessuna analisi che ne avrebbe dovuto
giustificare la ratio. La notizia in realtà è inverosimile,
ma non è tanto questo il punto. La questione è, invece, che ancora
rimane avvolta nel mistero la scelta del 3% e, soprattutto, il fatto
che ipotesi incredibili vengano raccolte e avvalorate, dando
l’impressione che le scelte dell’Unione europea siano immotivate
e casuali.
La insostenibile
leggerezza dell’Unione
In realtà le cose non
stanno così. L’Unione è il frutto di una serie di accelerazioni,
seguite da cautele e furbizie dei singoli Stati, in primo luogo dei
più forti, che hanno costruito misure legislative che hanno il
carattere e il valore di trattati.
Insomma l’Unione non è
uno stato, non è una confederazione, né tanto meno una federazione.
Perché ci fosse uno Stato sarebbe necessaria una politica estera, un
esercito, una giustizia comuni. A tutt’oggi c’è solo una moneta
comune – peraltro non adottata da tutti i 27 Stati che fanno parte
dell’Unione – ed una banca comune. Non esiste neppure una
politica fiscale armonica, né scelte economiche ed industriali
convergenti. In realtà dall’inizio della crisi la preoccupazione è
stata quella di garantire conti pubblici in ordine (l’austerità e
il rigore) per evitare che squilibri eccessivi possano penalizzare le
banche e soprattutto i paesi forti dello spazio economico europeo,
provocando le evidenti difficoltà che attraversano gli stati
mediterranei.
Scelte di lungo
periodo ed effetti congiunturali
I motivi di queste
difficoltà sono non tanto le ingerenze dell’Unione nelle politiche
nazionali e regionali - i livelli di discrezionalità da questo punto
di vista sono ampi e solo la cupidigia di servilismo dei governanti
italiani poteva mettere il fiscal compact in Costituzione -
quanto derivano da alcuni mutamenti intervenuti nel ventennio
intercorsi dal Trattato di Mastricht negli equilibri internazionali e
nello stesso continente.
In primo luogo la
globalizzazione, se ha segnato i livelli di movimenti dei capitali e
del flusso di informazioni, ha inciso molto meno sugli scambi e sulle
economie reali. Si continua a scambiare, soprattutto, nelle singole
aree e la divisione internazionale del lavoro sembra essersi
modificata molto meno di quanto appaia. Ciò significa che le
economie forti continuano ad essere forti, quelle deboli continuano a
restare deboli. Fuori di chiave Germania e, in misura minore, Francia
restano i pivot economici dell’Unione.
In secondo luogo ciò
incide non solo nei rapporti economici e commerciali, ma anche su
quelli tra i singoli Stati. Se si guarda retrospettivamente come è
avvenuta l’istituzione dell’Unione, non può sfuggire come le
architetture comunitarie derivino dai fatti avvenuti ad Est.
L’unificazione tedesca poneva e pone la questione storica dello
spazio di influenza della Germania. Con l’unificazione quest’ultima
diveniva lo Stato più grande e popoloso d’Europa collocato al
centro del continente. Ciò ha posto la questione di rapporti
geopolitici con il resto dell’Europa centrale e la necessità di
uno sfondamento ad est. E’ questa una costante che la politica
tedesca ha da almeno mille anni, da quando il vescovo di Brema nel
1108 sosteneva: “ Gli slavi sono una razza abominevole, ma le loro
terre abbondano di miele, grano e selvaggina. O giovani cavalieri
teutonici, volgetevi a Oriente”. A ben vedere con toni più o meno
ferrigni sarà la politica della Germania gugliemina e poi
hitleriana, con le politiche di scambi in clearing con i paesi
balcanici, naturalmente favorevoli, come sempre avviene, al paese
più forte. Insomma la Germania usa gli ex paesi socialisti come
semiperiferie fornitrici non tanto di materie prime come in passato,
quanto di semilavorati e forza lavoro a buon mercato. Non altrimenti
si spiega il riconoscimento immediato di Slovenia e Croazia e il
pronto accoglimento dell’adesione di paesi come la Cechia, la
Polonia, l’Ungheria, la Bulgaria e la Romania. Quanto sta
avvenendo in Ucraina è parte di questo disegno, con il rischio che
tutto esploda, come avviene negli esperimenti degli aspiranti
stregoni.
Legato a questo aspetto
c’è un ultimo dato da sottolineare, messo in evidenza qualche
giorno fa da Marcello De Cecco, relativo ai rapporti monetari.
L’economista ha sottolineato “la capacità della Germania di
tollerare un cambio elevato dell’euro e persino di trarne
vantaggio”, ciò deriva da “una strategia ormai pluriennale …
di decentrare parte delle produzioni verso i paesi del centro Europa
vicini geograficamente e con monete ancora indipendenti dall’euro e
che si sono comportate come hanno fatto quelle dei paesi emergenti,
svalutandosi per la fuga dei capitali a breve, ha come risultato che
i tedeschi comprano parti e componenti per i propri raffinati
prodotti dai paesi satelliti del centro Europa a prezzi sempre più
bassi”. De Cecco sostiene che, sia pure in misura minore, anche la
Francia è partecipe di questa tendenza, cosa che gli fa ipotizzare
la tenuta dell’asse franco tedesco, mentre chi ne risulta
penalizzata è l’Europa meridionale. Più semplicemente, complice
la crisi, non si accentua solo la forbice tra ricchi e poveri, ma
anche quella tra paesi ricchi e paesi poveri, aumentando gli
squilibri all’interno del continente.
Il deficit
democratico e necessità dell’Unione
Ciò spiega perché
l’Unione continui ad essere gestita come venti anni fa. Il
Parlamento conta poco o nulla, la Commissione non ha poi un peso
rilevante né per qualità né per compiti, quello che conta in
maniera determinante è il Consiglio d’Europa formato dai governi
dei paesi membri. In altri termini la Commissione propone dopo aver
accertato gli impatti economici, sociali, ambientali delle misure, il
Parlamento approva congiuntamente al Consiglio, se quest’ultimo non
è d’accordo appare evidente che la proposta non passa. Ovviamente
nel Consiglio il peso della Germania e dei suoi satelliti e sodali
appare prevalente.
Si dirà, allora, ma se
lo svantaggio per alcuni paesi è così evidente hanno ragione gli
euroscettici che propongono l’uscita dalla moneta unica, se non
dall’Unione? La realtà è che hanno torto per molteplici motivi.
Il primo è che venti
anni di legislazione europea hanno modificato in modo radicale il
funzionamento delle istituzioni nazionali. Smontare un meccanismo di
questo genere non è semplice e non è privo di contraccolpi negativi
con danni difficilmente calcolabili, a prescindere dalle anime belle
che continuano a parlare del federalismo delle origini. D’altro
canto appare evidente come ormai venti di crisi politica soffino
anche sull’Europa e che un raccordo sia pur minimo ed insufficiente
delle politiche estere appare per alcuni aspetti obbligato.
Il secondo motivo è che
la crisi non deriva tanto dall’invadenza dell’Europa e della
Germania nelle politiche nazionali, ma dal fatto che c’è troppa
poca Europa. Uno spazio economico continentale ed un armonizzazione
in senso sociale delle politiche economiche ed industriali appare
necessaria per l’uscita dalla crisi, ma per fare ciò è necessario
che il Parlamento e la Commissione aumentino i loro poteri, mentre
diminuiscano quelli degli stati. In altri termini occorre sanare il
deficit democratico che l’Unione si porta dietro come peccato di
origine.
Il terzo è che l’Europa
è ormai lo spazio obbligato in cui si affrontano le politiche e le
ideologie neoliberiste che fanno, con varie gradazioni, del rigore e
di liberalizzazioni e privatizzazioni il loro asse portante e dove
avanzare un’ipotesi di cambiamento del modello di sviluppo
dominante, che non significa solo o tanto maggiore intervento
pubblico, ma un modo diverso di lavorare, consumare e vivere.
Ma la sinistra
dov’è?
L’Europa, insomma, è
l’unico spazio in cui si può esprimere una moderna politica di
sinistra che non si limiti ad opporsi propagandisticamente al
liberismo o alla deriva centrista delle snervate socialdemocrazie, ma
che proponga concretamente un diverso modello di relazioni sociali e
di civiltà. Se il mito della rivoluzione mondiale è stato battuto
già ad inizi anni venti, ancor più risibile è oggi l’idea che il
mondo possa cambiare paese per paese, specie quando i paesi hanno la
dimensione degli attuali stati europei.
Su questo terreno le
sinistre, ma particolarmente quella italiana, sono drammaticamente
indietro, risse da pollaio, un dibattito concentrato sui destini,
probabilmente infausti, delle singole formazioni politiche, il
“concretismo” di una pratica di movimento concentrata sulle
singole tematiche congiurano contro un dibattito diffuso ed
all’altezza delle emergenze in corso. Probabilmente le prossime
elezioni europee riusciranno solo ad avviare un percorso di questo
questo genere. Ma non ci sono alternative: o si passa per questa
strettoia oppure la sinistra è destinata a rimare marginale nelle
scelte politiche anche nei contesti nazionali. Lo abbiamo scritto più
volte, ma questa volta non c’è un briciolo di retorica: hic
Rhodus hic salta.
Nessun commento:
Posta un commento