«Era così grasso, così
grande, così imponente che non riuscivo a vederlo tutto, ne
distinguevo solo alcune parti. Dapprima ho visto la testa con le
sopracciglia spesse come tronchi e gli occhi da tricheco in fondo a
un grosso muso. E poi denti a perdita d’occhio, gialli e neri,
alcuni grossi come una mazza e altri taglienti come il pugnale di un
brigante…»
Sì, colui che il
protagonista del Diario segreto di Pollicino (Rizzoli 2010)
sta sbirciando dal buco della serratura, nella locanda in cui lui e i
suo sei fratelli hanno trovato ricovero, è proprio un Orco, che in
questa recente versione della fiaba di Perrault a opera dello
scrittore Philippe Lechermeier e dell’illustratrice Rebecca
Dautremer, appare dotato di tutte le caratteristiche regolamentari:
immensa e minacciosa corpulenza, bruttezza bestiale, e poi denti,
zanne, ventre, bocca enorme in cui scompaiono secchiate di zuppa,
montagne di volatili e una mucca intera, dalle corna agli zoccoli.
Dichiaratamente politica, sofisticata al punto da rendere difficile
il suo inserimento nel contesto della letteratura per l’infanzia,
la riscrittura postmoderna di Lechermeier-Dautremer ridisegna luoghi
e personaggi, ma nel tratteggiare l’immagine dell’Orco resta
fedele a un tipo definito da una tradizione antica.
Quanto antica, e
soprattutto quanto complessa, ce lo illustra Tommaso Braccini,
docente di filologia classica all’Università di Torino che, dopo
aver affrontato altre «creature della notte» come i vampiri (Prima
di Dracula. Archeologia del vampiro, Il Mulino, 2011), le streghe
e i kallikantzaroi (La fata dai piedi di mula. Licantropi,
streghe e vampiri nell’oriente greco, Encyclomedia 2012), ha
condotto una approfondita ricerca su questa figura misteriosa,
arcaica e al tempo stesso più attuale di quanto possa sembrare.
Indagine sull’orco. Miti e storie del divoratore di bambini
(Il Mulino, 2013) si presenta come uno studio estremamente suggestivo
la cui caratteristica principale è il fruttuoso incrocio di
discipline diverse, dalla filologia all’antropologia alla storia
della letteratura, per risalire alle origini del personaggio e
esplorarne la natura, le parentele, gli sviluppi, l’andare e venire
tra oralità e scrittura, tra letteratura e terrore pedagogico. Senza
spingersi fino al nord Europa, dove all’Orco si sovrappongono il
gigante, l’Uomo Selvatico, il troll e il diavolo, o fino al mondo
islamico, affollato di ghoul mostruosi che squartano e
divorano, Braccini limita la sua indagine al territorio italiano, con
qualche incursione oltre confine: una scelta con un senso preciso,
visto che il nostro folklore (e in particolare quello del meridione)
registra l’esistenza di una popolazione orchesca assai più
numerosa di quelle presenti nelle altre nazioni europee, e che va
fatta risalire alla cultura popolare della Roma antica. In base a
congetture soprattutto etimologiche, del cui fondamento l’autore ci
dà minutamente conto, l’Orco è infatti la personificazione di una
entità infera romana, Orcus, dai contorni piuttosto vaghi ma
collegata a altre divinità dell’oltretomba come Ade o Plutone,
come Urgus, dio etrusco della morte, come il greco Thanatos, come
Caronte e la sua versione etrusca, Charun. Dio o demone dalle
capacità metamorfiche che risucchia i vivi in una cavità buia e
cieca – non per niente il suo nome deriva da termini latini e greci
come orca e hyrche, ovvero «recipiente» – a poco a
poco Orcus si evolve in un mostro divoratore che transiterà
nell’immaginario medioevale portando con sé l’avidità e la
ferocia dell’inesorabile cacciatore di anime, nonché le sue fauci
smisurate e quello che Gilbert Durand chiama il «sadismo dentario»
di una incarnazione della Morte nel suo aspetto più brutale.
Strada facendo, tuttavia,
la divinità oscura e mutevole si trasforma in uno spauracchio per
bambini, nell’Orco delle fiabe intese come intrattenimento ma anche
come contes d’avertissement, ovvero racconti che, pur
mantenendo il carattere fantastico e la loro natura di «deposito»
di materiali dell’immaginario e di concreti sedimenti storici,
ammoniscono gli ascoltatori sui pericoli della vita e sulle trappole
relative a un rischioso ma necessario percorso di crescita. Come e
perché la trasformazione avvenga non è facile dirlo visto che,
sottolinea Braccini, la lunga esclusione del folklore dalla
produzione intellettuale e dalla cultura scritta ha oscurato buona
parte del processo; sappiamo solo che, quando la terribile bocca
dell’orco torna a spalancarsi davanti a noi grazie a alcuni accenni
tardomedioevali, l’Orco è già personaggio fiabesco dalle pessime
abitudini alimentari, amante della carne tenera proprio come
Thanatos, che nell’Alcesti di Euripide afferma di preferire le
vittime giovani perché ne trae «un vantaggio maggiore». A
differenza di Thanatos, però, l’Orco che incontriamo tra il ‘400
e il ‘500 negli scritti di Matteo Palmieri, di Maffeo Vegio, di
Anton Francesco Grazzini e soprattutto di Giovanni Pontano e poi di
Matteo Boiardo (che nell’Orlando Innamorato descrive un orco
cieco come Polifemo, insediato in una grotta sotterranea dove
sequestra e sgranocchia le ragazze), possiedono invariabilmente
tratti grotteschi e ridicoli e vengono quasi sempre sconfitti da
esseri più piccoli, più deboli e più astuti. Boiardo, Ariosto (che
riprende e conclude l’episodio orchesco dell’Orlando
innamorato), i poemetti eroicomici di Lorenzo Lippi o di
Forteguerri, e poi il Cunto de li cunti di Basile, fissano una
volta per tutte i connotati dell’orco letterario: un’elaborata e
deforme bruttezza, un olfatto formidabile, la capacità di
trasformarsi in animali di vario genere, e una presuntuosa stupidità
che, a volte, fa dell’inghiottitore un inghiottito, come vedremo
nel Gatto con gli stivali di Perrault. E sono proprio Perrault
e Madame d’Aulnoy, esponente illustre del cabinet des fées
francese, a fare dell’Orco un un possidente installato in case
confortevoli o addirittura in un castello, buon padre di famiglia con
terre al sole, un forziere pieno d’oro e una tavola sempre
imbandita di bambini in salsa al burro, mentre la sua natura
demoniaca sembra non tanto svanire, quanto sfumare nel quadro di un
comfort quasi borghese, che lo allontana dalla atroce memoria delle
carestie medioevali e trasforma il cannibalismo negli eccessi di una
ghiottoneria da gourmet.
È con Perrault, ci dice
Braccini, con le sue fiabe divenute un classico planetario capace di
influenzare il linguaggio e la letteratura non solo per l’infanzia,
che ha inizio la «globalizzazione» dell’Orco e che cominciano a
scomparire molti tratti caratteristici legati al gusto, alla storia,
alle usanze di territori diversi, insomma gli Orchi narrati dalle
tradizioni di un’Italia rurale. Al nord, e in particolare in
Veneto, il folklore fa dell’Orco una sorta di Uomo selvatico simile
a quelli nordeuropei, oppure di gigantesco folletto impegnato in una
infinita serie di dispetti e scherzi malvagi, del quale non è facile
conoscere il vero aspetto. Nell’Italia centrale e meridionale (e
soprattutto in Sardegna, una vera roccaforte degli Orchi italiani)
regna invece un mostro panciuto e cannibale, rapitore di fanciulle e
di bambini, proprietario di favolosi tesori o di oggetti magici che
gli verranno portati via da ragazzi coraggiosi.
È da qui, da questo
enorme serbatoio di storie in cui le coloriture locali sono intense
quanto rivelatrici, che provengono molte, moltissime versioni
letterarie del personaggio, grazie alla circolazione continua di tipi
e di motivi e all’influenza che cultura «alta» e cultura popolare
hanno esercitato una sull’altra per secoli. Man mano che si lascia
alle spalle anche questo mondo contadino e fedele al «raccontare a
veglia», e mentre la letteratura infantile si fa più conciliante e
abbandona le connotazioni orrorifiche e moraleggianti, l’Orco
diventa la parodia di se stesso, usata soprattutto per proporre una
«paura da ridere», che solletica i bambini pur facendoli sentire al
sicuro. Dalla incantevole ironia dell’Orco di Zeralda di
Tomi Ungerer, domato da una giovane cuoca, allo Shreck di William
Steig rivisitato dalla Dreamwork di Steven Spielberg, che sembra
reclamare il suo diritto a esistere in quanto brutto, sporco e solo
in apparenza cattivo, le storie per l’infanzia hanno
progressivamente normalizzato il personaggio (ma non sempre, non
dovunque), ignorando una volta per tutte le opinioni disturbanti e
provocatorie di Guy Hocquenghem e René Schérer che, nel loro
Co-ire, Album systématique de l’enfance del 1976, parlano
della fascinazione infantile per il rapitore che consente loro di
spezzare il cerchio soffocante e a volte crudele della famiglia, e di
assaggiare l’avventura. E poco conta che alla ridanciana dolcezza
di Shrek faccia da contraltare l’esercito ottuso e orrendo degli
Orchetti di Talkien, altrettanto «globali» del verde orco di Steig:
imparentati, anche nel nome (che deriva dall’orc nordico
invece che dall’ogre francese) con i mostruosi troll
della mitologia scandinava, sono anch’essi poco più che
lucrosi prodotti di un marketing planetario.
Proteiforme e ostinato,
l’Orco si manifesta ormai nei suoi aspetti più oscuri solo
attraverso immagini come quelle del serial killer, del pedofilo, del
rapitore e sequestratore di fanciulle (Natascha. Otto anni con
l’Orco, si intitola non a caso un libro del 2007 sulle vicende
di Natascha Kampusch), figure sulle quali la cronaca costruisce da
anni una fabulazione che ha incluso il «macellaio» Hartmann o il
cannibale Deaver per arrivare ad Ariel Castro e al suo harem forzato,
e che il cinema, il fumetto, la letteratura di genere hanno usato in
infiniti modi, trasformandole in luogo comune. Dunque questa ex
divinità, questo «nobile decaduto», per usare le parole di
Braccini,
sarebbe oggi condannato a
essere prima di tutto stereotipo? Forse, o forse no, perché «oscuro,
ingannevole e mutevole come gli spiriti infernali», continua a
opporre resistenza, refrattario com’è alla cristallizzazione
tassonomica, e può riservarci ancora delle sorprese, consentendoci
di leggere e decifrare le incarnazioni presenti, anche le più
degradate, alla luce della sua antica natura ctonia.
Alias talpa - il manifesto, 13 ottobre 2013
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