Sui giornali toscani del
7 marzo 2014 si leggeva: “Il presidente della Regione Toscana,
Enrico Rossi, questa mattina è tornato a occuparsi di dissesto
idrogeologico con un sopralluogo sulla frana di Panicaglia, a Borgo
San Lorenzo, durante la tappa mugellana del suo viaggio in
Toscana: «Non
possiamo sopportare che la Toscana abbia strade franate o ponti
divelti dalla furia delle acque come è accaduto nel senese». È
stata l’ennesima occasione per stendere un triste bilancio
dell’emergenza perenne che interessa il territorio toscano: quella
del dissesto idrogeologico. Ad oggi, ricordano dalla Regione, sono
150 le frane censite in Toscana”. Il mese prima, nella stessa
regione la frana di Roccalbegna, nel grossetano, aveva spaccato in
due una comunità, con gravissimi danni economici.
L'articolo che segue è
vecchio, del novembre 2011, e trovava occasione nei disastri di
quella stagione, affronta il tema in termini generali. I fatti
dimostrano che quella materia resta attualissima. Credo che se ne
dovrebbe parlare nella campagna elettorale europea in corso di
svolgimento, come in quelle di molti Comuni. Ma sono certo che non si
farà. Ho il sospetto che al ceto politico non dispiacciano le
“emergenze”: non dico che le procurino appositamente, ma se
capitano sono contenti, perché gli interventi per le emergenze si
fanno con più discrezionalità e meno controlli nella spesa.
(S.L.L.)
Roccalbegna (Gr) |
Chi, ormai da decenni,
studia la storia del territorio italiano, di fronte alle frane e ai
morti delle Cinque terre e ora al disastro di Genova, oltre al dolore
per le vittime prova oggi uno scoramento profondo. La voglia di non
dire nulla, il senso dell’inutilità di scrivere e protestare. Chi
scrive è troppe volte dovuto intervenire per commentare simili
tragedie, tentando di mostrare le cause morfologiche e storiche che
sono normalmente all’origine delle cosiddette calamità naturali
nel nostro Paese. E, per la verità, lo ha fatto insieme a voci
sempre più numerose e agguerrite di geologi, meteorologi, esperti.
Tutto invano. E nell’ultimo ventennio più invano che mai,
considerata la qualità intellettuale e morale del ceto politico di
governo che ci è capitato in sorte e che del territorio italiano si
è occupato per darlo in pasto agli appetiti speculativi.
Tuttavia, l’obbligo di
contribuire alla riflessione collettiva su fatti così gravi finisce
col vincere sul senso di frustrazione. Senza l’ostinazione e la
tenacia, d’altronde, la lotta politica, specie per chi sì è
ritagliato una piccola frontiera di critica e di opposizione, non
sarebbe neppure concepibile. Oggi, di fronte agli eventi catastrofici
che si susseguono, bisogna denunciare con chiarezza l’emergere di
una grave questione territoriale in Italia. Non si tratta di una
novità assoluta, le vicende del territorio hanno un corso lento,
lasciano il tempo per essere osservate, ma essa oggi si presenta con
caratteri assolutamente nitidi e drammatici per un insieme di
ragioni. Mettiamo da parte, per brevità, la Pianura Padana, che ha
problemi particolari, ma che ospita, ricordiamolo, il più complesso
sistema idrografico d’Europa, essendo il ricettacolo dei grandi
fiumi alpini.Si tratta dell’area più stabile del nostro Paese,
eppure, anch’essa, è percorsa da sistemi di forze che possono
assumere carattere distruttivo in caso di eventi climatici estremi.
Il problema principale si
chiama Appennino. La dorsale montuosa con i suoi innumerevoli corsi
d’acqua e gli ingenti materiali d’erosione che trascina
incessantemente a valle. Un tempo, la centralità dell’Appennino
nell’equilibrio complessivo della penisola era chiaro anche agli
uomini politici, quando questi possedevano un proprio profilo
culturale oltre al curriculum politico. Meuccio Ruini, ad esempio,
che fu anche presidente del Senato, ricordava nel lontano 1919, come
«contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni
storiche, ogni cosa insomma dell’Italia peninsulare è
signoreggiata dall’Appennino e ne riceve l’impronta». Ora, è
noto da tempo, l’Appennino è in stato di abbandono. Ma soprattutto
in condizioni di abbandono si trovano le terre pedemontane e
collinari interne, quelle che per secoli sono state presidiate dalle
abitazioni contadine, che sono state tenute sotto manutenzione dal
lavoro quotidiano degli agricoltori. Una delle ragioni della
diffusione e della durata storica della mezzadria nell’Italia di
mezzo (soprattutto Toscana, Marche, Umbria) che dal medioevo è
arrivata sino alla seconda metà del ’900, è legata al fatto che
essa prevedeva l’insediamento della famiglia mezzadrile nel fondo,
impegnata a governare
un territorio instabile.
Ora, anche questo è
noto, da tempo le colline mezzadrili sono state abbandonate, o sono
coltivate industrialmente, con poche macchine e senza uomini. Tale
situazione, nota da tempo ai pochi esperti e appassionati della
materia, conosce oggi un aggravamento dovuto a più fattori
evolutivi. Da una parte, il progressivo, ulteriore abbandono
dell’agricoltura da parte dei piccoli coltivatori che non ce la
fanno a reggere i bassi prezzi con cui viene remunerata la loro
impresa. Un fenomeno a cui gli economisti agrari di solito plaudono,
perché il modello competitivo – nel pensiero economico astratto -
è naturalmente la grande azienda, senza alcuna considerazione di ciò
che accade al territorio, quando scompare un presidio. Di norma,
quando la piccola impresa non è accorpata a una azienda più ampia,
il terreno viene progressivamente invaso dalla vegetazione spontanea.
Negli ultimi anni,
tuttavia, a tale fenomeno si è aggiunto un sempre più largo uso
edificatorio del suolo. Il cemento ha preso il posto degli ulivi o
degli alberi da frutto. I comuni hanno fatto cassa svendendo il loro
territorio.
Nel frattempo il circolo
vizioso demografico si è venuto sempre più accelerando. Se si
abbandonano le aree interne tutto tende a gravitare nelle zone di
pianura, che nella Penisola solo prevalentemente le aree costiere.
Qui oggi si accentra oltre il 66% della popolazione peninsulare. E
qui sono insediati
industrie, servizi,
infrastrutture, la ricchezza materiale italiana. Ma anche qui, negli
ultimi devastanti decenni dei governi di centrodestra (e nella
pochezza e brevità di quelli di centrosinistra) si è continuato a
cementificare con furia da “accumulazione originaria” cinese.
Ora, l’ultimo elemento che completa il quadro riguarda la frequenza
degli eventi estremi, vale a dire, nel nostro caso, la straripante
quantità d’acqua che oggi cade in poco tempo in delimitate aree
territoriali. Si tratta di un fenomeno dipendente dal riscaldamento
globale, che il climatologo inglese John Houghton, definì, nel 1994,
come «frequenza e intensità di eccessi meteorologici e climatici».
Dunque, come in questi
ultimi anni, le piogge tenderanno in futuro a presentarsi sempre più
come eventi particolarmente intensi. E le acque, dalle colline
abbandonate o cementificate, mal regimate, precipiteranno lungo le
pianure costiere dove il verde – la spugna che un tempo assorbiva
le piogge – è diventato sempre più raro, impermeabilizzato da
chilometri quadrati di cemento.
Che cosa possiamo
aspettarci? Davvero pensiamo di affrontare tale gigantesca questione
organizzando meglio la protezione civile? Rendendo più efficaci i
sistemi di allarme? È evidente che qui ci si presenta una sfida che
è anche una grande opportunità per il nostro Paese. Sia per creare
nuove occasioni di lavoro, sia per ridare orizzonti progettuali alla
politica sprofondata nel tramestìo quotidiano. La prospettiva è:
riequilibrare la distribuzione demografica e valorizzare le vaste
aree interne della Penisola. Un grande progetto per scongiurare
disastri, ridando vita a una vasta area territoriale in cui gli
italiani hanno vissuto per secoli. Il che si può fare con una
molteplicità di interventi concertati, che puntino alla selvicultura
e all’agricoltura di qualità, allo sfruttamento economico delle
acque interne, al potenziamento del turismo escursionistico, al
recupero – anche per insediarvi centri di ricerca - di tanti borghi
e centri cosiddetti “minori”: spesso gioielli monumentali che
fanno l’identità profonda di una parte estesa d’Italia. Un
insieme di iniziative e pratiche che potrebbero offrire lavoro alla
nostra gioventù e a tanti giovani extracomunitari, oggi perseguitati
da una legislazione criminogena.
L’urgenza e l’assoluto
vantaggio economico di procedere in tale direzione potrebbe fornire
anche nuova forza al grande e specifico problema di tutela e
conservazione del nostro paesaggio. Un bene inestimabile che stiamo
compromettendo. Naturalmente, per realizzare tale obiettivo, che col
tempo potrà salvare l’Italia da perdite umane ed economiche sempre
più gravi, occorre utilizzare risorse. E le risorse – per
definizione sempre scarse - oggi lo sono più che mai. Ma proprio per
questo appare necessario, in questo momento, un atto di coraggio
anche da parte di tanto ceto politico e giornalismo che, talora in
buona fede, ha visto nelle cosiddette grandi opere (Tav, Ponte dello
Stretto) un’occasione di sviluppo per il nostro Paese. Bisogna
avere la forza di ricredersi. Se le risorse finanziarie andranno alle
grandi opere verranno a mancare per le piccole con cui noi oggi
dobbiamo affrontare la questione territoriale italiana. Se si
realizzerà il Tav, le risorse pubbliche saranno prosciugate e, per
la salvezza del nostro territorio, resteranno le briciole. O l’uno
o le altre, tertium non datur. Senza dire che le due scelte si
presentano incompatibili anche sotto il profilo storico e culturale.
Le grandi opere sono il
frutto recente di un modo di procedere del capitale finanziario, in
concerto con i poteri pubblici, per costruire infrastrutture – di
più o meno provata utilità collettiva – e in genere contro la
volontà delle popolazioni che vivono nei luoghi interessati. Senza
dire che il nostro è un territorio delicato, che mal sopporta il
gigantismo delle costruzioni fuori misura.
Al contrario, le piccole
opere per risanare l’habitat italiano possono esaltare la
partecipazione popolare, iscriversi nel solco di una tradizione
secolare che ha fatto dell’Italia, per mano di anonimi artisti
popolari, quello che resta ancora del Belpaese.
“il manifesto”, 8
novembre 2011
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